08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







lettaalfano
L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras 

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08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







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L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras 

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