10 luglio 2009

G8, il circo è iniziato


Finalmente è arrivato il circo del G8. Mi dispiace per la gente d’Abruzzo, ma il resto d’Italia e del mondo doveva pur divertirsi un pochino, no?


La cosa urta molto il Guardian, che negli ultimi tempi ha tirato fuori pruderies vittoriane dimenticandosi, per esempio, di quando fu proprio il Regno Unito a dare inizio alle danze nel 1963, con l’allora ministro della guerra John Profumo e lo scandalo che porta il suo nome.


Altri paesi non la pensano così: prendiamo la Germania, che nella persona del cancelliere Angela Merkel ha dichiarato di volersi accollare la ricostruzione della chiesa quattrocentesca di Onna; il paesino devastato dal sisma era già stato provato, durante la seconda guerra mondiale, da un eccidio compiuto dalle truppe della Wehrmacht nei primi giorni del giugno 1944, e la Germania intenderebbe così espiare le sue antiche colpe nei confronti del piccolo borgo. Questa smania tutta biblica di lavar via il sangue che padri malaccorti avrebbero fatto ricadere sui figli io personalmente non la capisco: ma prima di tutto non sono tedesca, e poi soprattutto non mi è toccato subire nessun lavaggio del cervello — o forse sì, c’hanno provato, ma per certi tipi di sporco io sono e resto irriducibile come Pig Pen.


Fortuna che sappiamo nuovamente di poter contare sulla certezza della vicinanza, che dico?, dell’amicizia degli Stati Uniti: adesso sì che possiamo stare veramente tranquilli.


Anzi, potremmo. Perché, incredibilmente, ci sono pure guastafeste come Lucio Caracciolo che, papale papale, ti spiattellano sul muso una verità nuda e soprattutto crudissima: «questa formula di incontro fra i “Grandi” del mondo ha finito di disvelare la sua vacuità. Ossia l’incapacità di incidere concretamente sugli affari del mondo». Ma com’è possibile?!? — si chiederanno sgomenti il colto e l’inclita, avvezzi al Tg4 e alle veline. Non è mica difficile: basta considerare che il G8 (è sempre Caracciolo che parla, sul n. 27 de “l’Espresso” ora in edicola) altro non è che «un’eterogenea e autoreferenziale compagnia, che include Stati di potenza - economica, geopolitica e culturale - assai variabile, oltre che di diverso orientamento istituzionale (dalla non democrazia russa alle più radicate liberaldemocrazie occidentali)», e che «i suoi membri (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Canada e Giappone) rappresentano appena più del 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, ma solo il 13 per cento della popolazione. E certo il peso degli Stati Uniti o della Russia sugli affari globali non è paragonabile a quello del Canada o dell’Italia». In soldoni, non possiamo attenderci dal G8 né ricette miracolose né programmi fattibili né «decisioni vincolanti per nessuno. Al massimo, dichiarazioni di principio, indicazioni generali. Dalle regole dell’economia mondiale all’Africa, dall’ambiente alla sicurezza alimentare, i Grandi non mancheranno di produrre comunicati e documenti sufficientemente generici da non impegnare troppo nessuno, e soprattutto da non comportare verifiche troppo stringenti del loro grado di concretezza, quindi di attuazione. Questa è la regola che tutti gli sherpa addetti alla definizione dei documenti, all’opera da mesi sotto la guida italiana, sanno di dover rispettare». Continua impietosamente Caracciolo: «Al fondo, il G8 testimonia della difficoltà di avvicinare la cosiddetta governance globale, termine volutamente generico che starebbe a indicare la gestione concordata degli affari del mondo. Ora, essendo questa ipotesi impossibile nel contesto geopolitico attuale - come lungo tutta la storia dell’umanità - dovremo probabilmente accontentarci, nel migliore dei casi, di affermazioni di buona volontà. O di regole che comunque non potranno essere applicate, in assenza di autorità abilitate a farlo. Il fossato fra problemi mondiali e istituzioni abilitate a risolverlo è stridente. Nel campo economico, e non solo, si profila l’ombra del G2: un condominio sinoamericano, che rifletta la simbiosi fra Cina, produttrice di prima e ultima istanza, e America, superconsumatrice. Il fatto che Pechino sia il massimo creditore degli Stati Uniti, e allo stesso tempo abbia vitale bisogno del mercato americano per collocarvi le sue merci, ha creato un duopolio di fatto che forse un giorno troverà sanzione geopolitica».


Contenti? Cosa credevate, che in seno al G8 si definissero veramente i destini del mondo? Eh no, cari. Il G8 è la cortina di fumo planetaria, è il vapore stupefacente che la Sibilla respira nascondendosene al volgo, è l’escamotage di un qualunque Sik-Sik per celare i suoi poveri trucchi: ciò che è grandioso è il fanatico convincimento di tutti i contestatori, pronti a scatenarsi all’assalto di un qualsiasi Palazzo d’Inverno laddove si manifesti concretamente e visibilmente, dimenticandosi della vecchia lezione di Benjamin Disraeli — «Come vedete, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che si immaginano quando non si è dietro le quinte del teatro»


di Alessandra Colla

09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

Image

Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino

08 luglio 2009

Il G8 non dà niente



A parere di molti analisti ed esperti di politica internazionale il G8 è ormai un evento senza senso che aderisce ad una formula del tutto vacua e ineffettuale. Touchè!

Quello che inizierà domani all’Aquila non andrà molto lontano da queste prospettive poco confortanti ma fatali, data l’epoca storica nella quale stiamo per affacciarci.

Al centro delle discussioni tra gli 8 Grandi della Terra ci sarà certamente la crisi finanziaria (e industriale), si dice la peggiore dal dopoguerra, più altri temi di contorno quali l’ambiente, la sicurezza alimentare ecc. ecc. che finiranno per catturare l’attenzione della pubblica opinione e quella degli avvoltoi della stampa, i quali potranno speculare sulle oneste intenzioni del vertice per vendere più copie di carta straccia.

Lucio Caracciolo, sull’Espresso, ha sostenuto una tesi cristallina secondo la quale buona parte dell’agenda viene a concentrarsi su temi “artificiali” e modaioli (al quale si aggiunge l’immancabile tentativo per fare uscire l’Africa dal suo sottosviluppo) solo perché così i partecipanti possono meglio aggirare gi interessi centrali (quelli geopolitici) che non si discutono a tavolino ma si fanno valere attraverso azioni e strategie di ben altro tipo.
Dall’incontro dell’Aquila verranno fuori i soliti documenti di una stucchevole armonia d’intenti e si faranno proclami altisonanti sugli accordi raggiunti, si dichiarerà di aver disegnato la cornice virtuosa nella quale troveranno collocazione regole nuove per dare prosperità a tutti, al solo scopo di dimostrare al mondo che con la pace e la buona volontà si ottiene tutto. Dal giorno dopo però, caduti i lustrini, smontate le passerelle mediatiche e spenti i riflettori, ciascuno tornerà a fare di testa propria. Cioè si tornerà al più prosaico bellum omnium contra omnes.

Tuttavia, non è questo che deve destare preoccupazione. Anzi, è del tutto logico che ogni Stato ricerchi la propria via d’uscita alla crisi in maniera autonoma, considerato che sono stati proprio i legami strettissimi tra le varie economie, nella fase della globalizzazione (cioè della massima estensione del modello americano sull’economia e sulla politica mondiale) a trascinare ognuno nelle attuali difficoltà.
La stessa composizione di questo G8 è vetusta e inadeguata, considerando lo spostamento e la ridefinizione dei rapporti di forza che stanno portando in primo piano quelle nazioni in forte recupero di potenza, vedi la Cina o l’India, tuttavia ancora escluse dal consesso dei grandi.
Anche la Russia, ultima arrivata, non ammette più di giocare un ruolo marginale dopo essersi ripresa dal declino dei primi anni ’90. E , soprattutto, non è più disposta ad incassare i colpi sferrati dall’America e dall’Europa restando a guardare.

Tanto per fare un esempio, valutando il solo profilo economico e demografico, i big che si incontreranno nel capoluogo abruzzese rappresentano poco più del 50% del PIL mondiale ed appena il 13% della popolazione.
Abbiamo già detto che l’origine del disastro economico non è da ricercarsi nel lassismo dei mercati e nelle innumerevoli speculazioni che hanno fatto saltare le regole delle borse. Questi elementi rappresentano gli effetti superficiali di uno scontro tra zolle, consequenziali a “scivolamenti” politici ben più sostanziali.
A fortiori, la soluzione a questi problemi non può arrivare da quella formuletta apotropaica che passa, con tanta solennità di bocca in bocca, tra gli sherpa delle delegazioni nazionali: il ripristino di una governance mondiale.

Ma è proprio tale governance, che poi significa guida indiscussa di un solo paese, che non sarà più possibile attivare, stando al nuovo contesto geopolitico. Il mondo è cambiato, gli Usa stanno perdendo appeal ed egemonia e per questo si faranno via via più aggressivi.
Lo attestano l’intensificarsi dello scontro in Afghanistan, le provocazioni ai danni dell’Iran,
quelle in America Latina e le solite ingerenze in Africa, dove c’è pure il problema di una Cina che si fa troppo penetrante nella sua azione commerciale e industriale.

L’attuale multipolarismo potrà sfociare in vero e proprio policentrismo solo allorquando Russia
e Cina (e forse anche l’India, che però attualmente sembra più vicina a Washington), le uniche potenze con aspirazioni mondiali, troveranno tra loro punti di maggiore convergenza in funzione antiegemonica (cioè antistatunitense), attirando nella propria orbita, quelle potenze regionali che gli Usa mirano, invece, a rendere sempre più instabili proprio per impedire sedimentazioni politiche ad essi sfavorevoli.

Mentre l’Europa, sempre più vaso d’argilla tra vasi di ferro, potrebbe impantanarsi nella disputa interna per la leadership sull’UE di Francia e Germania, peraltro entrambe sempre più a rimorchio di Washington.

Queste sono le vere questioni del futuro; non potranno mai essere materia di nessun vertice.

di Gianni Petrosillo

10 luglio 2009

G8, il circo è iniziato


Finalmente è arrivato il circo del G8. Mi dispiace per la gente d’Abruzzo, ma il resto d’Italia e del mondo doveva pur divertirsi un pochino, no?


La cosa urta molto il Guardian, che negli ultimi tempi ha tirato fuori pruderies vittoriane dimenticandosi, per esempio, di quando fu proprio il Regno Unito a dare inizio alle danze nel 1963, con l’allora ministro della guerra John Profumo e lo scandalo che porta il suo nome.


Altri paesi non la pensano così: prendiamo la Germania, che nella persona del cancelliere Angela Merkel ha dichiarato di volersi accollare la ricostruzione della chiesa quattrocentesca di Onna; il paesino devastato dal sisma era già stato provato, durante la seconda guerra mondiale, da un eccidio compiuto dalle truppe della Wehrmacht nei primi giorni del giugno 1944, e la Germania intenderebbe così espiare le sue antiche colpe nei confronti del piccolo borgo. Questa smania tutta biblica di lavar via il sangue che padri malaccorti avrebbero fatto ricadere sui figli io personalmente non la capisco: ma prima di tutto non sono tedesca, e poi soprattutto non mi è toccato subire nessun lavaggio del cervello — o forse sì, c’hanno provato, ma per certi tipi di sporco io sono e resto irriducibile come Pig Pen.


Fortuna che sappiamo nuovamente di poter contare sulla certezza della vicinanza, che dico?, dell’amicizia degli Stati Uniti: adesso sì che possiamo stare veramente tranquilli.


Anzi, potremmo. Perché, incredibilmente, ci sono pure guastafeste come Lucio Caracciolo che, papale papale, ti spiattellano sul muso una verità nuda e soprattutto crudissima: «questa formula di incontro fra i “Grandi” del mondo ha finito di disvelare la sua vacuità. Ossia l’incapacità di incidere concretamente sugli affari del mondo». Ma com’è possibile?!? — si chiederanno sgomenti il colto e l’inclita, avvezzi al Tg4 e alle veline. Non è mica difficile: basta considerare che il G8 (è sempre Caracciolo che parla, sul n. 27 de “l’Espresso” ora in edicola) altro non è che «un’eterogenea e autoreferenziale compagnia, che include Stati di potenza - economica, geopolitica e culturale - assai variabile, oltre che di diverso orientamento istituzionale (dalla non democrazia russa alle più radicate liberaldemocrazie occidentali)», e che «i suoi membri (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Canada e Giappone) rappresentano appena più del 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, ma solo il 13 per cento della popolazione. E certo il peso degli Stati Uniti o della Russia sugli affari globali non è paragonabile a quello del Canada o dell’Italia». In soldoni, non possiamo attenderci dal G8 né ricette miracolose né programmi fattibili né «decisioni vincolanti per nessuno. Al massimo, dichiarazioni di principio, indicazioni generali. Dalle regole dell’economia mondiale all’Africa, dall’ambiente alla sicurezza alimentare, i Grandi non mancheranno di produrre comunicati e documenti sufficientemente generici da non impegnare troppo nessuno, e soprattutto da non comportare verifiche troppo stringenti del loro grado di concretezza, quindi di attuazione. Questa è la regola che tutti gli sherpa addetti alla definizione dei documenti, all’opera da mesi sotto la guida italiana, sanno di dover rispettare». Continua impietosamente Caracciolo: «Al fondo, il G8 testimonia della difficoltà di avvicinare la cosiddetta governance globale, termine volutamente generico che starebbe a indicare la gestione concordata degli affari del mondo. Ora, essendo questa ipotesi impossibile nel contesto geopolitico attuale - come lungo tutta la storia dell’umanità - dovremo probabilmente accontentarci, nel migliore dei casi, di affermazioni di buona volontà. O di regole che comunque non potranno essere applicate, in assenza di autorità abilitate a farlo. Il fossato fra problemi mondiali e istituzioni abilitate a risolverlo è stridente. Nel campo economico, e non solo, si profila l’ombra del G2: un condominio sinoamericano, che rifletta la simbiosi fra Cina, produttrice di prima e ultima istanza, e America, superconsumatrice. Il fatto che Pechino sia il massimo creditore degli Stati Uniti, e allo stesso tempo abbia vitale bisogno del mercato americano per collocarvi le sue merci, ha creato un duopolio di fatto che forse un giorno troverà sanzione geopolitica».


Contenti? Cosa credevate, che in seno al G8 si definissero veramente i destini del mondo? Eh no, cari. Il G8 è la cortina di fumo planetaria, è il vapore stupefacente che la Sibilla respira nascondendosene al volgo, è l’escamotage di un qualunque Sik-Sik per celare i suoi poveri trucchi: ciò che è grandioso è il fanatico convincimento di tutti i contestatori, pronti a scatenarsi all’assalto di un qualsiasi Palazzo d’Inverno laddove si manifesti concretamente e visibilmente, dimenticandosi della vecchia lezione di Benjamin Disraeli — «Come vedete, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che si immaginano quando non si è dietro le quinte del teatro»


di Alessandra Colla

09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

Image

Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino

08 luglio 2009

Il G8 non dà niente



A parere di molti analisti ed esperti di politica internazionale il G8 è ormai un evento senza senso che aderisce ad una formula del tutto vacua e ineffettuale. Touchè!

Quello che inizierà domani all’Aquila non andrà molto lontano da queste prospettive poco confortanti ma fatali, data l’epoca storica nella quale stiamo per affacciarci.

Al centro delle discussioni tra gli 8 Grandi della Terra ci sarà certamente la crisi finanziaria (e industriale), si dice la peggiore dal dopoguerra, più altri temi di contorno quali l’ambiente, la sicurezza alimentare ecc. ecc. che finiranno per catturare l’attenzione della pubblica opinione e quella degli avvoltoi della stampa, i quali potranno speculare sulle oneste intenzioni del vertice per vendere più copie di carta straccia.

Lucio Caracciolo, sull’Espresso, ha sostenuto una tesi cristallina secondo la quale buona parte dell’agenda viene a concentrarsi su temi “artificiali” e modaioli (al quale si aggiunge l’immancabile tentativo per fare uscire l’Africa dal suo sottosviluppo) solo perché così i partecipanti possono meglio aggirare gi interessi centrali (quelli geopolitici) che non si discutono a tavolino ma si fanno valere attraverso azioni e strategie di ben altro tipo.
Dall’incontro dell’Aquila verranno fuori i soliti documenti di una stucchevole armonia d’intenti e si faranno proclami altisonanti sugli accordi raggiunti, si dichiarerà di aver disegnato la cornice virtuosa nella quale troveranno collocazione regole nuove per dare prosperità a tutti, al solo scopo di dimostrare al mondo che con la pace e la buona volontà si ottiene tutto. Dal giorno dopo però, caduti i lustrini, smontate le passerelle mediatiche e spenti i riflettori, ciascuno tornerà a fare di testa propria. Cioè si tornerà al più prosaico bellum omnium contra omnes.

Tuttavia, non è questo che deve destare preoccupazione. Anzi, è del tutto logico che ogni Stato ricerchi la propria via d’uscita alla crisi in maniera autonoma, considerato che sono stati proprio i legami strettissimi tra le varie economie, nella fase della globalizzazione (cioè della massima estensione del modello americano sull’economia e sulla politica mondiale) a trascinare ognuno nelle attuali difficoltà.
La stessa composizione di questo G8 è vetusta e inadeguata, considerando lo spostamento e la ridefinizione dei rapporti di forza che stanno portando in primo piano quelle nazioni in forte recupero di potenza, vedi la Cina o l’India, tuttavia ancora escluse dal consesso dei grandi.
Anche la Russia, ultima arrivata, non ammette più di giocare un ruolo marginale dopo essersi ripresa dal declino dei primi anni ’90. E , soprattutto, non è più disposta ad incassare i colpi sferrati dall’America e dall’Europa restando a guardare.

Tanto per fare un esempio, valutando il solo profilo economico e demografico, i big che si incontreranno nel capoluogo abruzzese rappresentano poco più del 50% del PIL mondiale ed appena il 13% della popolazione.
Abbiamo già detto che l’origine del disastro economico non è da ricercarsi nel lassismo dei mercati e nelle innumerevoli speculazioni che hanno fatto saltare le regole delle borse. Questi elementi rappresentano gli effetti superficiali di uno scontro tra zolle, consequenziali a “scivolamenti” politici ben più sostanziali.
A fortiori, la soluzione a questi problemi non può arrivare da quella formuletta apotropaica che passa, con tanta solennità di bocca in bocca, tra gli sherpa delle delegazioni nazionali: il ripristino di una governance mondiale.

Ma è proprio tale governance, che poi significa guida indiscussa di un solo paese, che non sarà più possibile attivare, stando al nuovo contesto geopolitico. Il mondo è cambiato, gli Usa stanno perdendo appeal ed egemonia e per questo si faranno via via più aggressivi.
Lo attestano l’intensificarsi dello scontro in Afghanistan, le provocazioni ai danni dell’Iran,
quelle in America Latina e le solite ingerenze in Africa, dove c’è pure il problema di una Cina che si fa troppo penetrante nella sua azione commerciale e industriale.

L’attuale multipolarismo potrà sfociare in vero e proprio policentrismo solo allorquando Russia
e Cina (e forse anche l’India, che però attualmente sembra più vicina a Washington), le uniche potenze con aspirazioni mondiali, troveranno tra loro punti di maggiore convergenza in funzione antiegemonica (cioè antistatunitense), attirando nella propria orbita, quelle potenze regionali che gli Usa mirano, invece, a rendere sempre più instabili proprio per impedire sedimentazioni politiche ad essi sfavorevoli.

Mentre l’Europa, sempre più vaso d’argilla tra vasi di ferro, potrebbe impantanarsi nella disputa interna per la leadership sull’UE di Francia e Germania, peraltro entrambe sempre più a rimorchio di Washington.

Queste sono le vere questioni del futuro; non potranno mai essere materia di nessun vertice.

di Gianni Petrosillo