08 novembre 2010

La dittatura della pubblicità

verbal-abuse-2

Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.

Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.

Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.

Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.

La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta.

I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.

La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.

La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.

di Goffredo Fofi

07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



http://nuovosoldo.files.wordpress.com/2010/05/040817_berlusconi_vmed_11a_widec.jpg

Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni

08 novembre 2010

La dittatura della pubblicità

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Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.

Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.

Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.

Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.

La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta.

I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.

La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.

La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.

di Goffredo Fofi

07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



http://nuovosoldo.files.wordpress.com/2010/05/040817_berlusconi_vmed_11a_widec.jpg

Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni