15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo

13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale

15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo

13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale