27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

by MoviSol

26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

by MoviSol

26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona