25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

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25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

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