Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.
Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.
E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.
L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.
In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.
Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.
Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.
Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.
Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.
In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.
Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.
Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.
“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.
di Eugenio Roscini Vitali
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