18 gennaio 2010

La sinistra, i poteri forti e la sovranità monetaria

Berlusconi ha annunciato l’intenzione di abbassare le tasse. Un annuncio del quale sembrerebbe logico che tutti gioissero. Invece, no; Bersani, no. La riforma non gli va bene perché: “Favorisce i ricchi”.
Favorisce i ricchi, signor Bersani? Ma cosa ha fatto la Sinistra, dalla fine del vecchio PC ad oggi, se non favorire i ricchi? Aver chiamato Prodi a guidare il partito è stato il segnale.
Qualcuno si è meravigliato allora che i comunisti si affidassero a un consumato rappresentante della vecchia Democrazia Cristiana per il loro nuovo corso, ma il motivo lo si è capito in seguito, in base alla politica cui l’Italia da allora è stata piegata e della quale i protagonisti assoluti, da Prodi a Ciampi, sono stati gli uomini della Sinistra: sottrarre a poco a poco la sovranità, l’indipendenza dello Stato ai cittadini per consegnarla ai manipolatori della finanza mondiale attraverso la Banca Centrale Europea; eliminare la moneta nazionale privando lo Stato dell’unico potere che ne garantisce l’esistenza, quello di battere moneta; svendere le più importanti proprietà dei cittadini (dello Stato) affermando che soltanto i privati hanno diritto a possedere i beni indispensabili alla vita di una società.
La Sinistra, quindi, è schierata dalla parte dei cosiddetti “poteri forti”, ossia dalla parte di coloro che, attraverso il primato dei mercati e delle banche, si apprestano a giungere al governo mondiale, all’omogeneizzazione delle leggi, dei costumi, degli eserciti, dei popoli. Per questo (la solidarietà non c’entra per nulla) sta sempre dalla parte degli immigrati.
E’ contro gli Italiani perché globalizzazione significa eliminazione degli Stati, delle Nazioni, delle identità dei Popoli.
Che perda voti è naturale, perciò, anche se quelli che sarebbero i suoi elettori non capiscono cosa stia succedendo, così come non riesce a spiegarsi quello che sta succedendo una gran parte dei cattolici, disorientati di fronte al comportamento della gerarchia ecclesiastica, il più delle volte analogo a quello della Sinistra.
Anche ai seguaci di Fini non rimane altra possibilità per comprendere le piroette del loro capo che mettersi dal punto di vista della mondializzazione.
Quelli che si sono convinti, in buona o in cattiva fede, che tutti vivranno felici e contenti quando si sarà inaugurato il mondo dell’uguaglianza totale, in cui non ci saranno più differenze né di popoli, né di nazioni, né di governi, né di monete, né di costumi, conducono una battaglia durissima, spietata, contro le “vecchie” idee di patria, di italianità, di sovranità, con l’aggravante dell’implicita segretezza, ossia senza avere il coraggio di dirlo apertamente. Il risultato è quello che vediamo: l’opposizione politica quasi non esiste; non fa proposte perché in pratica non ha un vero bersaglio.
Se la situazione non fosse quella che abbiamo descritto, toccherebbe alla Sinistra cogliere la palla al balzo della riduzione delle tasse per indicare l’unico modo possibile: non piccoli taglietti qua e là, ma riappropriarsi della sovranità monetaria; ricominciare a battere moneta in proprio, eliminando così il debito pubblico e gli interessi alla Banca Centrale Europea.
La “modernità” del fisco, di cui parla Berlusconi, non può essere altro che questa. Sono stati Ciampi e Prodi a sottrarre la sovranità monetaria agli Italiani, tradendo la Costituzione laddove afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (né si dica, prendendoci per imbecilli, che il denaro che usiamo fa parte della politica estera). La Banca Centrale Europea, come tutte le Banche Centrali dei vari Stati, appartiene ad azionisti privati che fanno pagare ai cittadini la moneta che “prestano” agli Stati creandola dal nulla e addebitando anche l’”interesse” sul prestito. Si tratta di un argomento che è diventato oggetto di appassionati dibattiti in innumerevoli pubblicazioni e in centinaia di siti internet a causa della sua fondamentale importanza per la vita dei popoli. E’ inutile e ingiusto, quindi, continuare a mantenere il silenzio da parte dei politici e dei mezzi d’informazione. Ci rendiamo conto che a Bersani non piaccia aiutare Tremonti, al quale la BCE ha perfino impedito, a suo tempo, di stampare i biglietti da uno e due euro. Ma Tremonti questa volta può esserne sicuro: è una battaglia nella quale gli Italiani saranno tutti con lui.

di Ida Magli

17 gennaio 2010

Crisi di Google, è iniziata la guerra tra Usa e Cina?







Più volte su questo blog ho scritto come gli Usa fossero ormai succubi della Cina, come la recente visita di Obama a Pechino aveva dimostrato. Cina e Stati Uniti sembravano aver consolidato l’equilibrio che caratterizza da un decennio i loro rapporti. Gli americani chiudevano un occhio sulla violazione dei diritti umani e le loro multinazionali continuavano a fabbricare oltre Pacifico, contribuendo allo sviluppo dell’economia locale. I cinesi si sdebitavano comprando a mani basse i Buoni del Tesoro che consentivano a Washington di finanziare il suo ingente debito pubblico. Intanto Pechino ampliava, con molta discrezione, la propria influenza in Africa, in Asia, persino nell’America latina, siglando accordi di cooperazione con Paesi ricchi di materie prime. Una politica che la Casa Bianca non ha mai gradito, ma che era costretta ad accettare proprio perché sotto ricatto finanziario. In questo contesto la continuità tra Bush e Obama appariva assoluta.
Con il nuovo anno, però, l’atteggiamento americano è cambiato. Washington ha venduto armi a Taiwan, infischiandosene delle rimostranze di Hu Jintao. E poi è scoppiata la crisi per google.

Perché il motore di ricerca dopo aver accettato per anni le condizioni imposte dai cinesi, improvvisamente si ribella alla censura? Semplice esasperazione per gli attacchi degli hacker alle caselle di Gmail di dissidenti cinesi? Irrefrenabile amore per la libertà? C’è da dubitarne, anche perché rischia di dover rinunciare al più grande mercato al mondo, perlomeno momentaneamente. Un’osservatrice attenta delle vicende asiatiche come Enrica Garzilli ritiene che alla fine Google uscirà ancora più forte.

Per capire la vera posta in gioco, bisogna considerare un’altra notizia, già trapelata sulla stampa statunitense e che verrà ufficializzata la prossima settimana, quando Hillary Clinton annuncerà una nuova «politica tecnologica» per aiutare i cittadini di altri Paesi ad avere accesso a Internet senza censure. E quali sono quelli che oggi limitano la Rete? Innanzitutto la Cina, l’Iran, la Corea del Nord; ovvero tre nemici degli americani. Il riferimento, implicito, a Teheran e a Pyongyang non sorprende, quello a Pechino sì. È rivoluzionario.

Inoltre bisogna considerare che il fondatore di Google, Eric Schmidt, è grande amico di Barack Obama; durante la campagna elettorale lo ha finanziato generosamente ed è diventato suo consigliere, seppur informalmente.

I legami, insomma, sono strettissimi. È inverosimile che Google abbia deciso di sfidare Pechino senza aver concordato la mossa con la Casa Bianca. Infatti il portavoce di Obama, Robert Gibbs, ha annunciato che «il presidente appoggia una Rete libera in Cina», confermando che la società californiana si è consultata preventivamente con Washington. E ieri si è alzato quello che gli esperti di comunicazione chiamano «rumore mediatico». Lo speaker della Camera Nancy Pelosi ha dichiarato di appoggiare incondizionatamente Google, il ministro al Commercio Gary Locke ha affermato che l’intrusione del governo cinese «è inquietante sia per il governo che per le società americane» e lo ha invitato «a collaborare per garantire operazioni commerciali sicure in Cina». Un alto funzionario del governo Usa, protetto dall’anonimato, ha osservato: «Quel che è importante per la Cina è che praticamente chiunque abbia sentito la notizia lo ha commentato con un Wow!».
Da notare che tra poco Obama riceverà il Dalai Lama, altra svolta che farà infuriare Pechino. Troppi segnali, troppi indizi in un’unica direzione.

Forse è iniziata la vera guerra tra Usa e Cina. Una guerra che non sarà militare ma psicolgica, economica e civile. Con conseguenze imprevedibili.

Domanda: lo scenario di un cambiamento strategico della politica estera americana è plausibile o l’episodio di Google rappresenta solo un sussulto, destinato a rientrare rapidamente?

Io propendo per la prima ipotesi, ma mi chiedo se Washington sia in grado di reggere il colpo. Non dimentichiamo il deficit….

di Marcello Foa

14 gennaio 2010

La crisi razziale





Adesso
mi è tutto più chiaro. Al momento in cui sto scrivendo mi trovo allo Space Needle di Seattle, ormai saranno più di trenta giorni che sto girovagando per gli States con l'intento di realizzare un videodocumetario sulla crisi finanziaria e quella immobiliare: Boston, New York, Miami, Atlanta, Phoenix, Las Vegas, Los Angeles, Seattle e Chicago. L'economia americana è collassata per motivazioni razziali: il suo destino sembra ormai segnato da un lento ed inesorabile declino economico e sociale. Chi confidava in un miglioramento con l'avvento di Obama, mitizzandolo come il nuovo Kennedy, ha iniziato a ripensarci. L'America di Obama non è l'America di Kennedy: alla metà degli sessanta, la popolazione americana era costituita per circa l'80% da bianchi caucasici (europei ed anglosassoni) e per il il 20% da svariate minoranze etniche (afroamericani, ispanici, orientali). Oggi è tutto cambiato: il 30% sono bianchi caucasici, il 30% sono ispanici, il 30% sono afroamericani ed infine il 10 % sono orientali. L'America come vista nei serial televisivi con i quali siamo cresciuti, da Happy Days a Melrose Place, non esiste più.

Nella foto: una scena del film "Gran Torino"

Questa trasformazione del tessuto sociale ha comportato un lento e progressivo cambiamento negli stili di vita, nella capacità di risparmio, nella responsabilità civica e soprattutto nella stabilità e sicurezza economica. La cosiddetta crisi dei mutui subprime trova fondamento proprio in questa constatazione. Mi permetto di aprire una parentesi per accennare al meccanismo del credit scoring (necessario per comprendere il fenomeno dei subprime): in America ad ogni contribuente viene assegnato un punteggio di affidabilità utilizzando una scala valori che va da un minimo di 300 ad un massimo di 850 punti (è un modello matematico sviluppato da una società quotata al Nyse, Fair Isaac Corp.). All'interno di questo range possiamo individuare tre categorie di soggetti: prime consumer (750-850 punti con excellent credit), midprime consumer (720-750 con good credit) ed infine subprime consumer (660-720 con fair credit). Evito di soffermarmi nelle categorie con il rating inferiore (low and bad credit) per limiti di esposizione. In base alla categoria di appartenenza varia la disponibilità di accesso al credito ed il costo dello stesso. Sostanzialmente il credit scoring è un modello di valutazione che consente di comprendere chi affidare e per quanto, oltre al fatto di selezionare i buoni pagatori da quelli cattivi, il tutto rapportato alla propria posizione debitoria e disponibilità reddituale.

Più carte di credito utilizzate, più fido richiedete, più le rate dei prestiti pregressi pesano in percentuale sul vostro reddito mensile, più ritardi nei pagamenti avete nel vostro track record personale, più il vostro credit scoring tenderà ad essere di basso livello. Sulla base di questo sistema, il 20% della popolazione americana è un soggetto prime, un altro 25% midprime ed infine quasi il 30% è un soggetto subprime. Il livello medio di credit scoring per un cittadino americano si attesta intorno ai 680 punti (subprime). Dal punto di vista statistico, troviamo tra i soggetti fair e low credit, per la stragrande maggioranza, gli appartenenti alle classi sociali legate alle ondate immigratorie degli ultimi decenni (per quello che ho potuto vedere non penso sia casuale).

Ma torniamo a noi. Durante la metà degli anni novanta, con l'intento di mitigare le tensioni e le disparità sociali della popolazione, nella constatazione che solo il 20% degli afroamericani ed il 30% degli ispanici erano proprietari della loro casa contro il 60% della popolazione bianca, vennero istituite delle piattaforme di ammortizzazione sociale che avrebbero consentito l'acquisto facilitato di un'abitazione a soggetti con capacità di redditto e disponibilità limitate. In buona sostanza il governo federale avrebbe garantito attraverso le varie GSE (Government Sponsored Enterprise come Fannie Mae e Freddie Mac) la remissione dei debiti concessi alle fasce sociali più deboli. Fu così che le banche iniziarono lentamente, ma con le pressioni del governo, a prestare denaro quando qualche anno prima non lo avrebbero mai fatto. La ratio su cui poggiava questa scelta politica era identificata nella volontà di rendere i poveri meno poveri in quanto se “possiedi” un'abitazione puoi pensare di pianificare la tua vita e stabilizzare il tuo nucleo familiare, oltre a questo non dimentichiamo le motivazioni politiche volte a conquistare nuove fasce di elettorato grazie a proposte molto popolari.

Quello che è successo dopo a distanza di anni, dalla Lehman Brothers alla Fannie Mae, ormai fa parte della storia, senza dimenticare anche la complicità o incompetenza della FED. Una politica immigratoria troppo liberale e la mancanza di protezionismo culturale hanno presentato un conto impossibile da pagare per l'America che oggi inizia a comprendere cosa significa aver perso la propria originaria identità etnica. Lo scenario macroeconomico che caratterizza adesso il paese è tutt'altro che confortante e a detta di molti analisti indipendenti americani il peggio deve ancora arrivare. La disoccupazione è ovunque con disperati (non gli homeless) che chiedono l'elemosina di qualche dollaro e accampamenti di tende sotto i ponti delle freeway nelle grandi città. Obama ha subito una perdita di popolarità devastante, persino le persone di colore che lo hanno votato girano per le città con cartelli appesi al collo con la dicitura “Obama, dovè il mio assegno ? Allora quando arriva il cambiamento ?” In più occasioni mi sono sentito dire che la colpa è riconducibile ad un eccesso di liberalità immigratoria e ad una insensata politica di sostegno alle fasce sociali più deboli, che ha innescato il fenomeno dell'”overbuilding in bad areas”. Si è costruito troppo ovunque in area residenziali scadenti, prestando parallelamente denaro a chi non lo avrebbe mai meritato in passato.

Troppi messicani ed orientali entrati nel paese, legalmente e clandestinamente, hanno consentito l'abbassamento medio dei salari, mentre le concessioni, i sussidi ed il credito facile ai neri hanno distorto l'economia statunitense, rendendola drogata ed artefatta, portandola a basarsi esclusivamente sul consumismo sfrenato, il ricorso al debito e sulla totale incapacità di risparmio. Non lo avrei potuto immaginare, ma vi è un risentimento ed un odio trasversale tra le varie etnie che popolano il paese che mi ha più volte intimorito: bianchi contro afroamericani, ispanici contro afroamericani, orientali contro ispanici, insomma tutti contro tutti. In più occasioni per le strade di Miami e Chicago ho assistito ad episodi di tensione razziale stile “Gran Torino””. Chi parla con ingenuità evangelica di integrazione razziale per questo paese, probabilmente ha studiato per corrispondenza all'Università per Barbieri di Krusty (noto personaggio della serie televisiva The Simpsons)..

I bianchi benestanti che fanno gli executive (dirigenti, funzionari o colletti bianchi ben pagati) si autoghettizzano da soli in quartieri residenziali che assomigliano a paradisi dentro a delle prigioni, con videosorveglianza e servizi di sicurezza privati degni del Pentagono. Di contrasto dai fast food, ai jet market, alle pompe di benzina, a qualsiasi altro retail service a buon mercato, trovate tutte le altre razze che ramazzano i pavimenti, servono ai tavoli, lavano le vostre auto, consegnano pizze a domicilio o guidano i taxi per uno stipendio discutibilmente decoroso. L'America per alcuni aspetti (opportunità di lavoro per i giovani che hanno indiscusse capacità) può sembrare superficialmente un buon paese, ma se ti soffermi ad osservarla con un occhio critico, sotto sotto è un paese marcio e primitivo da far schifo, a me si è rivelato per quello che è realmente ovvero un calderone multirazziale con la maggior parte delle persone (bianchi compresi) che hanno il senso di autocoscienza di uno scarafaggio. L'americano medio (che sia un bianco, cinese, messicano o afroamericano) se ne frega assolutamente dei problemi ambientali del pianeta, della sofferenza inaudita degli animali nei loro allevamenti intensivi, delle carestie in Africa o dei conflitti in Medio Oriente, si interessa solo che possa ingozzarsi di hotdog, bere fiumi di coca cola, guardarsi il superbowl e guidare il suo megatruck dai consumi spropositati. Pur tuttavia, nel lungo termine sono piuttosto dubbioso che si possa riprendere dal processo di imbarbarimento ed impoverimento sociale che lo sta caratterizzando, per quanto potenziale bellico possa vantare, questo non lo sottrarrà dalla sorte che lo attende, prima il collasso economico e dopo quello sociale, scenario confermato anche da molte fonti di informazione indipendente che non si mettono a scimmiottare a turno a seconda della corrente politica che vince le elezioni, tipo la CNN o la FOX.
Eugenio Benetazzo

13 gennaio 2010

I paradossi della mobilità


Il primo paradosso (è squisitamente tecnico-fisico ed ha a che fare col principio fisico della incomprimibilità dei corpi) nasce dalla diffusa convinzione che per aumentare l’efficienza della mobilità, e diminuire il traffico veicolare, sia sufficiente aumentare il numero delle strade e/o le loro dimensioni. L’effetto che si ottiene è in genere esattamente il contrario. Basta osservare una qualsiasi strada o autostrada nelle ore di punta per constatare che non c’è strada, superstrada, terza o quarta corsia che sia in grado di smaltire volumi di traffico privi di controllo.

La possibilità di raggiungere rapidamente luoghi molto lontani fra loro, se apparentemente sembra corrispondere al massimo della libertà e delle opportunità disponibili, in realtà è la premessa alla perdita di coesione sociale delle comunità e di qualità ambientale dei luoghi.

Pensiamo al comparto della vendita al dettaglio e della distribuzione: “la diffusione dei grandi magazzini ha fatto sparire il 17 % delle panetterie (17.800) e l’84% delle salumerie (73.800) e il 43% dei negozi di casalinghi (4.300). Quello che è scomparso è una parte importante della sostanza stessa della vita locale, con il corrispondente disfacimento del tessuto sociale.” E non esistono giustificazioni ne’ di ordine economico che occupazionale: “un posto di lavoro precario creato dalla grande distribuzione distrugge cinque posti di lavoro stabili nel commercio di prossimità” (S.Latouche. Breve trattato della decrescita serena.)

E qual è la dinamica di questo processo? Il sabato mattina ci allontaniamo in auto dalle attività commerciali del nostro quartiere, verso i centri commerciali in periferia, dove, insieme a migliaia di sconosciuti, in maniera anonima ed impersonale, facciamo i nostri acquisti. Quindi, sempre in auto, torniamo alle nostre residenze, stupendoci, magari, dello stato di abbandono delle strade, dell’assenza di spazi comuni di incontro e di punti di
aggregazione.

Più ci muoviamo, più lo facciamo spesso e rapidamente, e più lasciamo sguarnito il nostro territorio ed allentiamo i legami con esso. Non siete convinti? Parliamo allora di agricoltura, rapporto città-campagna.

“Negli anni settanta si diceva che le strade costruite per il benessere dei contadini e per rendere meno marginali le zone rurali, sarebbero state utilizzate dall’ultimo degli agricoltori per andare in città e dal primo cittadino per costruire la propria casa di campagna nella masseria appena liberata.” Guardando oggi le periferie delle nostre città e lo stato di abbandono delle nostre campagne, siamo ancora convinti che una sempre più efficiente rete viaria sia necessariamente un elemento di avvicinamento fra le persone?

Non ci credete ancora? Lo so. Sembra incredibile. 150 anni di progresso. Pubblicità di auto che corrono a 200 km. all’ora in campagne verdeggianti. Millemiglia. Granpremi di F1. Record dell’ora ed Olimpiadi, ci hanno convinto che veloce è meglio. Che gli altri vanno lasciati indietro. Che chi va lento, o peggio sta fermo, è un perdente. E quindi via!
Tutti di corsa!

L’apoteosi si raggiunge col turismo di massa. La legittima curiosità e la scoperta culturale sono state trasformate dall’industria turistica in consumo mercificato dell’ambiente, della cultura e del tessuto sociale dei paesi “obiettivo”, in base all’assunto: “sempre più lontano, sempre più in fretta, sempre più spesso (e sempre più a buon mercato)”.
E ancora una volta il facile accesso alla mobilità è il motore del sistema.

La soluzione? E’ il banale l’elogio della lentezza. Percorrere il proprio territorio a piedi o in bicicletta, per conoscerlo, apprezzarlo, valorizzarlo e, se occorre, difenderlo. “Una volta mettersi in viaggio era un’avventura piena di imprevisti,… Per la maggior parte del tempo si restava nel luogo natale…e non necessariamente per mancanza di immaginazione”.
Solo chi conosce ed apprezza il proprio territorio è poi disposto a difenderlo da un incendio, dalla speculazione edilizia, da un inceneritore o da qualche altra “grande opera”.

Gli altri, i turisti, al primo problema, alla prima difficoltà, fanno presto, accendono il motore della propria auto, ingranano la marcia e vanno in un altro posto.
Finchè ci sarà un altro posto dove poter andare!

di Alberto Ariccio

Il 2010 degli USA: dichiarare guerra a tutto il mondo



Il primo gennaio inaugura l'ultimo anno della prima decade del nuovo millennio e di dieci anni consecutivi di guerre condotte dagli Stati uniti in medio oriente.

A partire dal 7 ottobre 2001, missili e bombe si abbattono sull'Afghanistan, le operazioni di guerra americane all'estero non si sono fermate un anno, un mese, una settimana o un giorno nel ventunesimo secolo.

La guerra in Afghanistan, il primo conflitto aereo e di terra degli U.S.A. in Asia dalle disastrose guerre in Vietnam e in Cambogia negli anni sessanta e all'inizio dei settanta, e la prima guerra di terra e campagna asiatica della N.A.T.O., cominciò alla fine della guerra in Macedonia del 2001, lanciata dalla N.A.T.O. occupando il Kossovo, una guerra in cui il ruolo delle truppe statunitensi è ancora da delineare e affrontare correttamente e che ha portato alla migrazione di quasi il 10% della popolazione della nazione.

Nel primo caso, Washington invase una nazione in nome della lotta al terrorismo; nel secondo, contribuì al dilagare del terrorismo. Allo stesso modo, nel 1991 gli U.S.A. e i suoi alleati occidentali hanno attaccato le forze irachene in Kuwait ed hanno lanciato un devastante e mortale attacco con missili Cruise e bombardamenti in Iraq nel nome della difesa della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale del Kuwait e nel 1999 diedero il via ad un attacco aereo di 78 giorni contro la Yugoslavia per calpestare e minare drasticamente i principi dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale nel nome dell'ultimo pretesto di guerra, il cosidetto intervento umanitario.

Due anni dopo la "guerra umanitaria", l'ossimoro più ripugnante a cui il mondo abbia mai assistito, cedeva il passo alla guerra globale contro il terrorismo, mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati della N.A.T.O. invertivano la rotta nuovamente, continuando però a dichiarare guerre d'attacco [n.d.t: guerre non giustificate da uno scopo di difesa, considerate un crimine nel diritto internazionale] e "guerre d'opportunità", ogni volta che volevano, a dispetto delle contraddizioni e di ogni logica, dei casi precedenti e del diritto internazionale.

Dopo numerose campagne mai completamente conosciute per reprimere insurrezioni, alcune già in corso (come in Colombia), altre nuove (come nello Yemen), gli U.S.A invasero l'Iraq nel marzo 2003 con una "coalizione di volontari" comprendente soprattutto nazioni dell'Europa orientale canidate ad entrare nella N.A.T.O. (quasi tutte ora diventate full member dell'unico blocco militare del mondo in cambio del loro servizio).

Il Pentagono ha in oltre messo in campo le forze speciali e altre truppe nelle Filippine ed ha lanciato un attacco navale, aereo e missilistico in Somalia, oltre ad assistere all'invasione della nazione da parte dell'Etiopia nel 2006. Inoltre Washington ha armato, addestrato e sostenuto le forse armate di Djibouti nella loro guerra di confine con l'Eritrea. Infatti Djibouti ospita quello che è, fino ad oggi, l'unico impianto militare permante degli U.S.A in Africa, Camp Lemonier, una base navale, sede della Combined Joint Task Force - Horn of Africa, CJTF-HOA, collocata al di sotto del nuovo comando militare statunitense in Africa, l' AFRICOM, dal momento della sua nascita, il 1° ottobre 2008. L'area di cui è responsabile la Combined Joint Task Force- Horn of Africa copre Djibouti, l' Etiopia, l' Eritrea, il Kenya, le Seychelles, la Somalia, il Sudan, la Tanzania, l' Uganda, lo Yemen e, come "aree di influenza" le Comore, le Mauritius e il Madagascar.

Ciò vuol dire la maggior parte delle coste occidentali del Mare Arabico e dell' Oceano Indiano, tra le aree geografiche strategiche più importanti del mondo.

Truppe degli U.S.A, aerial drones [n.d.t.: veicoli aerei senza pilota dotati di telecamere e/o missili], navi da guerra, aerei ed elicotteri sono in azione in tutto questo vasto tratto di terra e di acqua.

Dopo la minaccia del senatore (e una volta quasi vice-presidente) Joseph Lieberman che lo scorso 27 Dicembre ha dichiarato che "Lo Yemen sarà la nostra prossima guerra" e in seguito alla precedente dichiarazione del capo del Comando Sud e comandante generale delle forze militari N.A.T.O. in Europa, Wesley Clark, che due giorni prima ha sostenuto che " Forse dovremmo mettere piede lì giù", è evidente che la nuova guerra degli Stati Uniti per il nuovo anno è già stata scelta. Infatti a metà dello scorso dicembre, gli aerei da guerra degli U.S.A hanno partecipato al bombardamento di un villaggio nel nord dello Yemen che è costato la vita a 120 civili e ne ha feriti altri 44, mentre la settimana successiva un jet da combattimento ha realizzato numerose incursioni aere sulla casa di un ufficiale superiore della provincia di Sa'ada, nel nord dello Yemen.

Il pretesto per intraprendere realmente una guerra nello Yemen è attualmente il tragicomico "tentato attacco terroristico" di un giovane nigeriano su un aereo diretto a Detroit il giorno di natale. Il bombardamento mortale degli U.S.A nel villaggio dello Yemen appena citato si è verificato dieci giorni prima e inoltre è avvenuto nel nord della nazione, anche se Washington sostiene che le cellule di al-Qaeda operano dall'altra parte del Paese.

L'Africa, l'Asia e il Medio oriente non sono gli unici campi di battaglia in cui gli Stati Uniti sono attivi. Il 30 ottobre del 2009 gli Stati Uniti hanno fimato un accordo con la Colombia per acquisire l'uso sostanzialmente privo di limiti e di restrizioni di sette nuove basi militari nella nazione sudamericana, incluse alcune postazioni nelle immediate vicinanze sia dal Venezuela che dall'Ecuador. L'intelligence statunitense, le forze speciali e altro personale saranno coinvolti in operazioni già in corso per reprimere le insurrezioni e dirette contro le Forze Rivoluzionarie della Colombia (FARC) nel sud del Paese, e saranno impegnati nel sostenere la delega colombiana a Washington per attacchi in Ecuador e in Venezuela, che saranno delineati per essere diretti contro i membri delle FARC nei due stati.

Prendendo come obiettivo due nazioni fondamentali e in sostanza l'intera Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), Washington sta preparando il terreno per un potenziale conflitto militare in Sud e Centro America e nei Caraibi. Dopo il sostegno statunitense al colpo di stato in Honduras il 28 giungno, questa nazione ha annunciato che sarà il primo stato membro dell'ALBA ad uscire dall'Alleanza e il Pentagono manterrà, e forse amplierà, la sua presenza militare alla base aerea di Soto Cano in Honduras.

Un paio di giorni fa il governo colombiano ha annunciato la costruzione in corso di una nuova base militare al confine con il Venezuala e l'attivazione di sei nuovi battaglioni aerei, e poco dopo un membro olandese del parlamento, Harry van Bommel, ha dichiarato che gli arei-spia degli U.S.A. stanno usufruendo di una base aerea in un'isola delle Antille olandesi, Curaçao, presso la costa venezuelana.

In Ottobre, una pubblicazione delle forze armate statunitensi ha rivelato che il Pentagono spenderà 110 milioni di dollari per modernizzare ed espandere sette nuove basi militari in Bulgaria e in Romania, dall'altra parte del Mar Nero a partire dalla Russia, dove verranno stanziati, per i primi contingenti, oltre 4.000 soldati.

All'inizio di dicembre gli Stati Uniti hanno siglato lo “Status of Forces Agreement” (SOFA) con la Polonia, che confina con il territorio russo di Kaliningrad, che permette all'esercito statunitense di stanziare soldati ed equipaggiamenti militari sul territorio polacco. Le forze militari statunitensi si serviranno di Patriot Advanced Capability-3 (PAC-3) e standard Missile 3 (SM-3), che fanno parte del sistema globale del Pentagono per intercettare i missili.

Più o meno nello stesso momento il presidente Obama ha fatto pressioni sul primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan per installare nel suo Paese le componenti di uno scudo misilistico. "Abbiamo discusso il ruolo costante che possiamo giocare come forze alleate N.A.T.O. nel rafforzare il profilo della Turchia nella N.A.T.O. e nel coordinarsi in maniera più efficacie riguardo a punti critici come la difesa dai missili" secondo le parole del leader americano.

Il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha fatto intendere che il suo governo non considera Tehran come una minaccia missilistica per la Turchia in questo momento. Ma gli analisti sostengono che se verrà realizzato uno scudo missilistico comune N.A.T.O., una mossa del genere potrebbe costringere Ankara a entrare in questo sistema.

Il 2010 vedrà il primo dispiegamento di truppe straniere in Polonia dopo la rottura del patto di Varsavia nel 1991 e l'installazione dei "più efficaci, più rapidi e più moderni" (secondo le parole di Obama) mezzi di intercettazione dei missili e strumenti radar nell'Europa dell'Est, nel Medio Oriente e nel sud del Caucaso.

La forza militare U.S.A in Afghanistan, sito della guerra più lunga e su più vasta scala di tutto il mondo, raggiungerà le 100.000 unità all'inizio del 2010 e con altri 50.000 soldati in più di altre nazioni della N.A.T.O. e vari "vassalli e tributari" (Zbigniew Brzezinski) rappresenterà il più vasto dispiegamento militare in ogni zona di guerra del mondo.

I missili drone statunitensi e della N.A..T.O. e gli attacchi degli elicotteri d'assalto in Pakistan aumenteranno, così come le operazioni per reprimere le insurrezioni nelle Filippine e in Somalia, insieme a quelle nello Yemen, dove la CIA e le forze speciali dell'esercito sono già scese in campo.

Il sito dell'esercito statunitense ha annunciato recentemente che ci sono stati 3.3 milioni di schieramenti in in Afghanistan e in Iraq dal 2001 con due milioni di soldati degli U.S.A. inviati nelle due zone di guerra.

In questo nuovo millennio ancora agli esordi, i soldati americani sono già stati inviati in centinaia di migliaia di nuove basi e in zone di guerra in corso o già conclusa, in Albania, Bosnia, Bulgaria, Colombia, Djibouti, Georgia, Israele, Giordania, Kosovo, Kuwait, Kyrgyzstan, Macedonia, Mali, Filippine, Romania, Uganda e Uzbekistan.

Nel 2010 saranno inviati soldati all'estero in numero ancora più elevato per presidiare basi aeree e siti missilistici, supervisionare e partecipare ad operazioni di contenimento delle insurrezioni nel mondo contro i più disparati gruppi ribelli, alcuni dei quali secolari, e lanciare azioni militari in Sud Asia e altrove. Saranno collocati su navi da guerra e sottomarini, equipaggiati con missili Cruise, con missili nucleari di largo raggio e con squadre di portaerei sui mari e gli oceani del mondo.

Costruiranno ed amplieranno le loro basi, dall'Europa all'Asia centrale e meridionale, dall'Africa al Sud America, dal Medio Oriente all' Oceania. Ad eccezione di Guam e di Vicenza in Italia, dove il Pentagono sta enormemente ampliando gli impianti esistenti, tutte le strutture in questione si trovano in nazioni e in regioni del mondo dove l'esercito statunitense non era mai stato così comodamente sistemato. Praticamenti tutti i nuovi accampamenti diventeranno basi utilizzate per operazioni di "bassa portata", in genere nell'est e nel sud dell'Europa, dominata dalla N.A.T.O.

Il personale dell'esercito statunitense sarà assegnato al nuovo Global Strike Command e destinato ad aumentare il controllo e le azioni di guerra nel Circolo Artico. Saranno al comando della Missile Defense Agency per consolidare una rete mondiale per intercettare i missili, che faciliterà la possibilità di un primo attacco nucleare, ed estenderanno questo sistema nello spazio, la frontiera finale della corsa alla conquista del dominio militare assoluto.

I soldati statunitensi continueranno a diffondersi in tutto il mondo. Ovunque, tranne ai confini della loro nazione.
di Rick Rozoff

11 gennaio 2010

A che serve risparmiare?

Per secoli "`risparmiare"' ha voluto significare "`accantonare, mettere da parte"' in previsione di spese future importanti o impreviste. Il risparmio permette di pianificare, progettare e migliorare le prospettive di vita e lavoro delle generazioni presenti e future; basti pensare al padre che rinuncia ai consumi presenti per garantire al figlio la possibilità creare una propria impresa o di accedere a master di specializzazione.

Quello che invece è accaduto negli ultimi venti anni è un totale stravolgimento del concetto di risparmio, operato dall'economia del Pil.

Per sostenere la fantascientifica, costante e inarrestabile crescita del Pil, si è pensato di sostenere in modo altrettanto fantascientifico il livello dei consumi. D'altronde si insegna anche nelle università che aumentando i consumi aumenta la produzione, si generano più posti di lavoro, quindi più stipendi da spendere in consumi e di nuovo più produzione (anche l'assiduo frequentatore del bar dello sport è in grado di fare questo ragionamento). L'effetto sul Pil (cioè sulla produzione di beni) è moltiplicativo. L'esponenziale produzione di rifiuti generata da questo processa produrrà altro Pil visto che occuperà manodopera e imprese che altrimenti non sarebbero esistite. Dal momento stesso in cui il reddito delle famiglie si è rivelato non sufficiente al sostenimento del livello desiderato dei consumi, si è pensato di aumentarlo virtualmente attraverso la concessione illimitata di credito al consumo. Questo ha permesso la nascita di un numero smisurato di finanziarie (quelle che fanno credito anche ai cattivi pagatori privi di reddito) e la realizzazione di sogni a tutti coloro che fino a quel momento si vedevano preclusa la possibilità di acquistare un SUV 5000 a benzina o di vivere una vacanza di sette giorni nel paradiso dei pedofili in Thailandia.

Il paradosso di tutto questo processo, considerato virtuoso dagli economisti, non sta tanto nelle esternalità negative prodotte (si pensi all'inquinamento o alla possibilità di impiegare il denaro speso in attività più fruttuose come imparare a suonare un strumento musicale) ma nel fatto che il consumatore, pur avendo speso tutto il suo reddito presente e quello futuro dei suoi figli in merci di consumo (si badi che parlo di merci e non di beni), ha la percezione di aver risparmiato.

Frasi del tipo "`grazie alla rottamazione ho acquistato una nuova autovettura risparmiando 2000 euro"', senza considerare il fatto che l'auto rottamata poteva durare ancora per parecchi anni o "`il negozio X faceva gli sconti, così ne ho approfittato acquistando un set da poker con fiches numerate, 6 bicchieri (made in China), una bilancia digitale e una tenda da campeggio, risparmiando ben 100 euro", non curante del fatto che a poker non ci gioca mai, di bicchieri ne ha piena la credenza, di bilancia ne possiede una meccanica perfettamente funzionante che non ha bisogno di pile e infine l'ultima volta che è andato in campeggio aveva 18 anni (ora ne ha 40). In entrambi gli esempi il consumatore è convinto di aver risparmiato, pur avendo speso denaro per merci del tutto inutili.

E' questo il geniale incantesimo dell'economia del Pil: illudere il consumatore che sta risparmiando, anche nel momento in cui sta ipotecando il futuro dei propri figli acquistando un'auto grande come un Tir, rigorosamente con lettore MP3 integrato (pagato qualche centinaio di euro – si rende noto che i lettori MP3 [certo, non integrati] costano poche decine di euro.)

I consumi, così, rimangono alti ma alle strette dipendenze del sistema finanziario. Se questo crolla crollano inevitabilmente anche i consumi. E' con la crisi finanziaria che il consumatore si accorge che è un poveraccio e che al massimo poteva permettersi un televisore mivar bianco e nero piuttosto che il 100 pollici al plasma (pagabile in 100 comode rate da 20 euro al mese).

A quel punto ci si accorge che non si ha niente da parte e che i libri scolastici dei figli, così come l'iscrizione all'università, costano troppo; che si è preferito un lavoro privo di qualunque prospettiva di crescita e gratificazione perchè permetteva da subito un guadagno basso ma sicuro che dava la possibilità di ottenere credito per acquistare l'auto, il pc portatile e altre merci il cui acquisto poteva (ma ce ne accorgiamo solo ora) essere rinviato al futuro.

Se tutti i consumatori si accorgessero del raggiro cui sono stati vittime sarebbe comunque un buon risultato e da lì si potrebbe ripartire per riformulare un nuovo paradigma dei consumi che abbia come elemento centrale i beni e non le merci. Purtroppo il cambio di mentalità, reso possibile anche dal fondamentale ruolo svolto dalla televisione e dai media in generale, è stato così devastante che oggi, in piena crisi finanziaria, il consumatore cerca in tutti i modi di conservare lo standard di consumi acquisito senza considerare minimamente la possibilità di rivedere tale standard al ribasso, magari acquistando beni di cui ha bisogno e non merci che divorano il suo reddito. Piuttosto che non acquistare aspetta i saldi e quando non ce la fa più entra in uno stato di profonda frustrazione che lo porta a imprecare contro politici e calciatori (che prendono troppo) o contro datore di lavoro e sindacati che non fanno nulla per aumentargli lo stipendio.

Con dei semplici calcoli si accorgerebbe di avere ancora potenzialità di risparmio reale senza intaccare minimamente (anzi migliorando) la qualità della sua mediocre esistenza, pur continuando a pagare la rata del mutuo. Basterebbe che smettesse di riempire il carrello di imballaggi colorati, limitando gli acquisti a beni necessari e genuini, magari facendosi un giretto nei negozi del centro o nelle aziende agricole vicine alla propria città, piuttosto che perdersi negli enormi lager commerciali che infestano le periferie dei centri abitati; in questo modo produrrebbe anche meno rifiuti. Con questa semplice mossa si ritroverebbe alla fine dell'anno con un primo gruzzoletto al quale potrebbero aggiungersene altri se evitasse di comprare continuamente merci tecnologiche come telefonini, telecamere, frullatori, aspirabriciole ecc.. limitandosi ad usare il più possibile quelli che già possiede. Ulteriori risparmi deriverebbero dalla rinuncia al telefono fisso e alla televisione a pagamento (altro cancro che ormai ha diffuso le sue metastasi presso tutti i ceti sociali).

Qualora fosse possibile, sarebbe opportuno autoprodursi quei beni che fino a pochi anni fa ogni famiglia era in grado di fabbricarsi da sola: pane, passata di pomodoro, olio, dolci. L'economia del Pil, infatti, rendendo accessibili merci a chiunque ha reso del tutto inutile la conservazione di conoscenze e abilità che nei secoli hanno permesso il sostentamento a famiglie numerosissime prive di reddito monetario.

Tutto quello di cui abbiamo bisogno lo si può comprare, dal divertimento dei figli al broccolo fluorescente. Perchè autoprodurselo? Il motivo principale sarebbe che l'autoproduzione permetterebbe di ricominciare a risparmiare, ma nel vero senso della parola, una buona parte del reddito monetario.

Insomma, ritornare a risparmiare come facevano i nostri nonni.

La fine del risparmio ha già prodotto effetti devastanti sulle capacità dei giovani di progettare la propria vita futura, di fare programmi a lungo termine. Il bisogno di consumo ha preso il sopravvento sull'abilità del giovane di pensare e costruire il proprio avvenire. Non ritengo che la perdita di speranza dei giovani sia imputabile (almeno non totalmente) alla precarizzazione del lavoro; tale precarizzazione ha semplicemente reso più problematica la possibilità di mantenere alto il livello del consumo di merci; da un certo punto di vista è un bene che lavori come "`centralinista di call-center"' siano principalmente con contratti a termine in quanto è impensabile che un essere umano possa tutta la vita svolgere quel tipo di lavoro, senza prospettive di crescita umana e intellettuale. Il problema è che molti giovani, non avendo in testa l'idea di risparmio, preferiscono questo lavoro che permette loro di consumare merci (al resto ci pensano mamma e papà) invece che risparmiare tempo e denaro per l'acquisizione di conoscenze e abilità che garantirebbero l'accesso (ma in futuro) a lavori più gratificanti.

Ecco quindi che un centralinista part-time che prende 800 euro al mese e che vive con i genitori, può ancora permettersi l'acquisto (a rate) di una moto e di un'auto, di fare vacanze in luoghi esotici, di aggiornare con cadenza mensile l'hardware del proprio pc e di acquistare settimanalmente abbigliamento griffato. In realtà questo consumatore, perdendo l'abilità al risparmio, ha barattato il proprio avvenire con la possibilità di consumi immediati; vive nell'illusione di aver risparmiato pur non avendo un centesimo in tasca.

di Luca Correani

10 gennaio 2010

Luttwak al soldo del Sismi


Caro Edward". Si apre così una lettera di Pio Pompa al consulente americano dei servizi segreti. Ma l’autore della missiva, l’ex funzionario del servizio segreto militare Pio Pompa, avrebbe fatto meglio a iniziare con un "Carissimo" vista l’entità dei compensi strappati ai contribuenti italiani da questo professore nato in Romania, passato da Palermo e cresciuto tra Londra e gli Stati Uniti a cornflakes e intelligence.

Luttwak è famoso per le sue comparsate a Porta a Porta, dove con l’accento da telecronista di football americano imitato perfettamente da Corrado Guzzanti rifila ai telespettatori concetti indigesti sulla guerra necessaria e sui terroristi da sterminare. Dalle carte sequestrate nel "covo del Sismi" di via Nazionale diretto da Pio Pompa si scopre che per le sue analisi Luttwak è stato retribuito profumatamente dal Sismi diretto da Nicolò Pollari, attraverso la Apri Spa di Luciano Monti.

Nella sua lettera, che dovrebbe risalire al settembre 2002, Pompa propone al "caro Edward" un contratto da nababbo: "a) impegno minimo di dieci giornate al mese per un importo di 5 mila euro al giorno, spese escluse, pari a complessive 50 mila euro al mese; b) la collaborazione avrà la durata di 12 mesi, a far data dalla sottoscrizione del contratto, per un importo annuale di 600 mila euro; c) le spese attinenti le attività da svolgere, debitamente concordate, saranno rimborsate a parte dietro presentazione della relativa documentazione".

Luttwak ha raccontato in un’intervista a Claudio Gatti del Sole 24 ore nel novembre del 2008: "Lavoravo con Pompa per Apri e Apri lavorava per il Sismi". A leggere le mail sequestrate a Pompa però si coglie un esempio negativo delle ricadute del rapporto Luttwak-Sismi sulla manipolazione dei media. Tutto si svolge nelle ore immediatamente seguenti la strage di Nassirya del 12 novembre 2003. Muoiono 28 persone, 18 italiani. L’Italia è scossa e e si raccoglie intorno al salotto di Vespa. Luttwak è invitato insieme a Franco Frattini, allora ministro degli Esteri.

L’illustre politologo indipendente (in realtà strapagato dal Sismi e quindi dal Governo) si esibisce in questo numero acrobatico per connettere Al Qaeda alla sinistra antagonista. Ecco quello che milioni di italiani hanno sentito quella sera.

Luttwak: "Un amico qui a Roma che ha un figlio che guarda internet ha fatto presente che ci sono siti italiani fatti da italiani che parlano di resistenza e aizzano attacchi contro la coalizione. Ci sono Nuovimondimedia.it , Informationguerrilla.org . Questi dicono 'andate in Iraq, lottate, uccidete la coalizione e gli italiani'".
Vespa frena: "Luttwak, abbiamo cliccato non è venuto niente e lei, Frattini, che fa conferma?". Il ministro accende lo sguardo accigliato da busto marmoreo: "C'erano certo".

Vespa: "C'erano?".

Frattini: "Ma li hanno cancellati, sono scomparsi".

Vespa: “No, scusi eh, prima che li cancellassero esistevano? Lei testimonia che esistevano?".

Frattini: "Non li ho guardati ma noi sapevamo che esistevano".

Leggendo le mail sequestrate si capisce chi è la fonte che ha spinto il politologo a dire la balla spaziale. Pompa scrive a Luttwak: "Come richiesto ti invio i contenuti dei siti web riguardanti la tua presenza a Porta a Porta". Così l’amico americano scopre che l’associazione Nuovimondi annuncia querela. Luttwak è terrorizzato: il 20 e poi il 23 novembre scrive ossessivamente a quella che sembra essere la sua fonte: "Visto querela dai siti gradirei copie loro pagine offensive".

Purtroppo per lui quelle pagine non esistono. Il 24 novembre torna alla carica: "est possibile recuperare le loro pagine aggressive prima di Nassirya?". Da Pompa arriva solo un link su Osama che non c’entra nulla. Luttwak insiste il 26 novembre: "Ho bisogno dei testi precedenti dei siti, cioé quando celebravano la resistenza".Antonio Imparato di Nuovimondi racconta: "Abbiamo fatto querela perché era un fatto totalmente inventato ed era particolarmente grave perché pubblicizzato sull’onda emotiva dell’attentato di Nassirya. Non so come è finita".

È interessante il ruolo di Apri. Questa società di consulenza ha fatturato 2,8 milioni di euro nel 2008 ed è diretta da Luciano Monti, in quel periodo presidente di Assoconsult, aderente a Confindustria. Pompa vanta con Apri un rapporto di ferro. La sua fidatissima segretaria trentenne, che poi sarà assunta al Sismi, è stata una dipendente Apri e ha raccontato che Pompa stesso aveva una stanza nella sede Apri di Piazza Esedra.

A leggere il carteggio tra Pompa e Luttwak, Apri funzionava come una cassa dei servizi per i consulenti.

In un appunto di Pompa, sequestrato dalla Digos, si legge l’elenco delle attività svolte da Apri. In particolare nell’appunto di Pompa si cita il think tank composto oltre che dal politologo americano e dai dirigenti di Apri Monti e Orvieto, da altri esperti vicini al Governo come il generale Carlo Jean e il commercialista Enrico Vitali, partner dello studio tributario fondato da Giulio Tremonti.

Il report descrive 15 incontri sui seguenti temi: emergenza nazionale, flussi migratori e finanziari, organizzazioni islamiche e sviluppi del settore aerospaziale. A differenza degli informatori come il giornalista Renato Farina pagati direttamente dalla "Casa" (come dimostrano le ricevute sopra pubblicate e controfirmate con il nome in codice "Betulla"), i consulenti prestavano la loro opera a Apri.

A un certo punto però il giocattolo si rompe. Pompa segnala a Pollari nel 2003: "L’assoluta non veridicità, come dimostrato dalla quasi totale assenza di prodotti a supporto, delle giornate lavorative imputate al capoprogetto, prof. Luciano Monti e al suo collaboratore dott. Piero Orvieto, rispettivamente n. 41 e 50 giornate che sarebbero state effettuate nel bimestre novembre-dicembre 2002 per un importo complessivo di 131.495 euro".

Per Pompa, Apri chiede 2 milioni di euro perché interpreta a modo suo la convenzione del 2002. Ma il Sismi non vuole pagare tanto. A cascata Apri blocca i pagamenti a Luttwak che fa causa e tempesta Monti e Pompa di mail sempre più dure. Alla fine Pompa gli propone di chiudere accettando "solo" 142 mila euro, "a cui vanno aggiunte quelle non ancora pagate da Monti". Chissà se il “Caro Edward” ha accettato.
by Marco Lillo

Recessione: diminuiscono i crimini


Con la recessione aumentano (negli Stati Uniti e altrove) poveri e disoccupati, ma crollano i crimini. Con grandissimo stupore di criminologi e sociologi che fin dai primi licenziamenti del 2008 avevano previsto il contrario. In realtà, negli Usa, con più di 7 milioni di posti di lavoro persi, il livello di criminalità è arrivato al punto più basso da cinquant’anni.
Il Wall Street Journal ha dedicato all’evento una pagina, decretando la morte di una delle teorie sociologiche più diffuse, che spiega come la causa della criminalità siano l’ineguaglianza dei redditi e la povertà. È accaduto invece che ineguaglianze e livelli di povertà sono aumentati, e i crimini diminuiti. Come mai?
Perché la teoria: povertà uguale criminalità, era sbagliata, e, a dire il vero, lo si sapeva da un pezzo. Influenzata dalla sociologia radicale americana di Wright Mills e Vance Packard, con scorie della Scuola di Francoforte portate da Herbert Marcuse, accusava il capitalismo di creare nuove sacche di povertà a vantaggio degli eletti, e di spingere i diseredati al crimine come unico modo di affermare se stessi, oltre che di sopravvivere.
Invece, e non solo in questa crisi ma anche nelle precedenti, i dati oggettivi hanno dimostrato il contrario.
Il fatto è che anche il crimine costa, cresce in una situazione dove ci sono liquidità ed energie. Lo aveva perfettamente dimostrato il grande sociologo francese Gaston Bouthoul fin dagli anni ’50 del secolo scorso, studiando la guerra, e demolendo in quel caso la vecchia (ma ancora circolante da noi) teoria che le guerre siano fatte dai poveri, spinti a ciò dai bisogni più elementari, loro negati dalle economie dei Paesi ricchi e dall’ineguaglianza internazionale.
Bouthoul dimostrò in modo inoppugnabile che le guerre erano sempre nate da un accumulo di energie dei Paesi ricchi, che le investivano (gettandole via, ripetendo il rito romano della sparsio, i doni gettati al trionfo del vincitore) in conflitti di natura ideale, politica, religiosa, ma che nella maggior parte dei casi rappresentavano, anche per loro, un’autentica distruzione di ricchezza.
Non solo però per muovere guerra, ma anche per delinquere, ci vogliono soldi, energie. Un tipo come Bernie Madoff, che si fece dare miliardi di dollari da una folla di plutocrati, intascandoseli, è certo l’icona del criminale affluente, pre-recessione. Ma anche le bande di rapinatori hanno bisogno di un retroterra solido: luoghi che ti ospitino, organizzazioni che finanzino, coprano, acquistino armi, automobili, quel che serve.
Il crimine (come mi raccontava Alberto dall’Ora, uno dei più grandi penalisti italiani), è soprattutto un’attività industriale, finalizzata alla moltiplicazione della ricchezza dei suoi partecipanti. Se la ricchezza si contrae, anche l’azienda-crimine riduce le attività.
Anche il terrorismo internazionale, che costa un mucchio di soldi, ha potuto svilupparsi quando i Paesi che lo ispirano hanno cominciato a disporre di ingenti capitali, tanto da poterli buttar via. Quando non c’erano i petrodollari il terrorismo era affidato a qualche anarchico, che in genere pagava di tasca sua singoli attentati a sfortunati sovrani, recandosi in terza classe sul luogo del delitto.
E i poveri, allora? I poveri non c’entrarono mai nulla, con l’incremento del crimine. Solo le fantasie negative sviluppate sui poveri dagli intellettuali ricchi (promotori di queste sociologie), condite dai loro sensi di colpa, li hanno convinti che se un operaio perde il lavoro, diventa un bandito.
La morale delle classi meno favorite ha basi più solide, e abitudini alle privazioni più consolidate, della paura della povertà di un professore che ha studiato nelle migliori università americane.
Certo, i poveri cercano di diventare ricchi, ma raramente perdono la testa quando devono fare un passo indietro, in una condizione già nota, e di cui riconoscono la dignità (in genere sconosciuta all’intellettuale radical-borghese che la filtra attraverso i propri sensi di colpa).
Si sa da tempo: il popolo è più onesto e più coraggioso dei suoi paladini.
di Claudio Risé

09 gennaio 2010

Ma Alitalia ? Tutto bene?


Nelle ultime (e purtroppo quasi finite) settimane di ferie , ho letto molta piu’ stampa italiana del solito, e ho notato una catastrofica tendenza al leccaggio del culo da parte dei giornali dei “Salotti buoni” della finanza italiana. Mi referisco al Corriere della Serva e alla Sepubblica.

Per prima cosa vi faccio una domanda: come va, oggi Alitalia? Ritardi? Malfunzionamenti? Scioperi? Gente ferma in aereporto? Ovviamente non vi chiedo di dirmi se qualcuno di voi era dentro un aereo di Alitalia e ha avuto dei problemi. Sarebbe una risposta scontata. No, quello che vi chiedo e’ come sia, giornali alla mano, il servizio Alitalia oggi.

La risposta e’ che ne avete sentito parlare poco, pochissimo.

Cosi’ vi faccio un’altra domanda: nell’ondata di maltempo che ha colpito il paese, come e’ uscita Alitalia? Ritardi? Voli annullati? Bagagli persi? Passeggeri bivaccati negli aereoporti? Ancora una volta, non voglio sapere se sia toccato a voi, ma semplicemente che cosa hanno riportato i giornali. Poco, molto poco. Molto meno di come si siano accaniti sui treni.

Nulla. Alitalia si e’ trasformata in una gioiosa macchina da guerra, da quando e’ stata rilevata dai Salotti Buoni della Finanza Italiana®. O almeno, a quanto dicono i giornali maintstream italiani. Che sono proprieta’… dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®.(1)

Andiamo avanti. Le autostrade. Ora, c’e’ stato un periodo di maltempo negli ultimi giorni. Di solito, quel che succede e’ che le autostrade italiane, o meglio le autobuche italiane , in questi casi sono nella merda sino al collo. Ci sono inevitabilmente code, gente in auto per il ponte di natale che viene bloccata. Anzi, di solito i grandi periodi di natale sono gia’ forieri di guai senza il maltempo. Figuriamoci col maltempo.

Invece no: sono crollate alcune statali in liguria, ci sono stati problemi sui passi alpini, ma le autostrade no. Le autostrade italiane, contrariamente agli altri anni, sono diventate un mostro di efficienza antineve, capaci di sgomberare in tempo reale le buche le strade , di soccorrere in elicottero ogni singolo viaggiatore in difficolta’.

Al contrario, stiamo assistento al presunto botto dell’ AV. Apprendiamo che il buon Guariniello abbia aperto un’inchiesta, nella quale avrebbe stabilito che il 70% dei treni TAV sia in ritardo. (2) Il problema non sta nell’enormita’ del dato (il procuratore, furbo, ha selezionato 420 treni. A 110 treni AV al giorno, ha selezionato 3 giorni e rotti. In pratica , un momento di picco dei problemi dovuti al maltempo, allo scopo di drogare il dato) , quanto il fatto che un tizio abbia deciso di aprire un’inchiesta e prendere delle statistiche sui ritardi: in ultima analisi, qual’e’ il problema penale?

Il ritardo e’ seccante, in sede giuridica puo’ essere un problema di diritto civile, ma non e’ un reato, come lo stesso procuratore Guariniello ammette. Ora, la domanda e’: ma perche’ questo tizio sta spendendo dei soldi del contribuente solo allo scopo di dare notizie negative e viziate ai giornali dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®? Onestamente, io porterei il caso alla corte dei conti, perche’ non si capisce a quale titolo qusto signore sia intervenuto: e’ vero che c’e’ stato un esposto sui ritardi , ma di certo fare statistiche su tre giorni di ritardi non dimostra nulla, visto che non si tratta neppure di una vera stima, visto il campione.

Il vero problema e’ la distribuzione del capitale in gioco. Trenitalia, coi suoi 110 treni al giorno, sta muovendo 110.000 persone al giorno da Napoli a Torino. Questo infligge un colpo molto duro sia al traffico delle autobuche autostrade italiane, sia ad Alitalia , che si vede togliere traffico alla sua tratta di maggiore monopolio resa.

Ci sono quindi due grandi schieramenti in gioco: da un lato i Salotti Buoni della Finanza Italiana®, che possiedono quote importanti sia di autobuche autostrade Spa, e che si sono messi in gioco con Alitalia al fine di somministrarle il famoso trattamento De Benedetti(3) , la cui capacita’ di movimento di idioti va dai verdi alle cosiddette associazioni di consumatori, e dall’altro un’azienda come Trenitalia, che ha la sfortuna di non aver ancora subito il Trattamento De Benedetti a beneficio dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®.

Cosi’, in questi giorni ne succedono di tutti i colori: e’ sembrato che l’ Italia sia stata l’unica nazione coi treni fermi, quando si sono fermati anche in Germania e Francia, si e’ parlato di un fantomatico treno tedesco che da solo risolverebbe tutti i problemi dei viaggiatori se ci fosse nei tabelloni (4), abbiamo visto magistrati spendere soldi del consumatore per fare statistiche su fenomeni (i ritardi) che non sono dei crimini, e chi piu’ ne ha e piu’ ne metta.

La realta’ e’ contenuta nel rapporto di Guariniello: su un campione di 420 treni preso mentre ne girano 110 al giorno, cioe’ per i tre giorni di maltempo, il 70% dei treni erano in ritardo, la maggior parte di quindici minuti.

Ora, se nella mia esperienza di volo io considerassi i quindici minuti di ritardo degli aerei, non si salverebbe neanche l’Air Force One. Tralasciando la folla di idioti che porta in aereo anche la gabbia del polli e fa perdere tempo alle hostess nel tentativo di sistemare la loro cabina del telefono preferita nel vano bagagli, fino ai ritardi nello scarico di valigie, per non parlare del fatto che una coincidenza tra due aerei implica un intervallo “di sicurezza” di almeno un’ora .

Niente: di tutto questo non c’e’ nulla; nemmeno in seguito ai nuovi controlli di sicurezza seguiti al non attentato terroristico, (5) qualche giornale dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® ha osato menzionare che questo avrebbe portato ritardi e code ai check-in. Invece, so benissimo che il prossimo lunedi’ sara’ meglio che mi presenti con DUE ore di anticipo , visto che avranno regolato i sensori cosi’ duramente che la mia emoglobina fara’ scattare i rilevatori di metallo: “prego, puo’ mettere i suoi globuli rossi sul nastro”?

Insomma, per decreto dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® , Alitalia e Autostrade si sono trasformate in una gioiosa macchina da guerra di geometrica potenza. Nemmeno in caso di maltempo i prodi piloti di Alitalia si fermano, e se un aereo di Alitalia si schiantasse su un palazzo, sono certo che il Corriere titolerebbe “Alitalia, atterraggio record.I piloti riescono ad atterrare su un balcone: in paradiso tutti i passeggeri.Gratis.”, mentre Repubblica scriverebbe “Berlusconi costruisce un palazzo per fermare Alitalia. I piloti “andiamo avanti”. Di Pietro direbbe “Berlusconi ha fatto cadere un aereo per non farsi processare“, e cosi’ via.

Sembra che nemmeno il senso del ridicolo fermi questi giornali, ma la cosa che mi lascia veramente perplesso sono i blogger. Essi stanno amplificando semplicemente la voce dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®, spinti da quella voglia di parlare contro che non si rendono conto di stare venendo aizzati contro Trenitalia, colpevole di essere un’azienda non ancora DeBenedettizzata , e di far concorrenza alle aziende Debenedettizzate come Societa’ Autobuche Autostrade e Alitalia CAI Sarcazzocosa.

Cosi’, oggi il lettore sa che la neve ha bloccato le ferrovie, sa che ha bloccato alcune citta’ -le citta’ non interessano i Salotti Buoni della Finanza Italiana® - ma non sappiamo nulla della performance attuale di Alitalia, ne’ di come si siano comportate le autostrade, visto che tutta l’enfasi e’ stata data alle statali franate e ai fiumi che rischiavano di tracimare.

Sono certo che se invitassi i lettori a scrivere qui i disagi subiti sulle autostrade o sugli aerei di Alitalia otterrei un bagno di sangue, ma i giornali dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® preferiscono comportarsi come se l’unica azienda ad avere dei problemi siano stati i treni ad alta velocita’. Perche’ questo preme ai loro padroni: fermare questo stillicidio di 110.000 persone al giorno sottratte ai pedaggi, agli aerei (cioe’ all’inquinamento, ma questo ai verdi dei alotti Buoni della Finanza Italiana® non sembra importare) dei soliti amici degli amici.

E ovviamente, vedrete che prima o poi si proporra’ la cura De Benedetti anche per Trenitalia. Un bel partner straniero che ne rilevi un’altra fetta considerevole, per far contento il partito del Times, una bella demolizione della TAV, per non scontentare i bravi di Giovanni delle Lamiere® che vogliono vedere ancora piu’ auto sulle autostrade, cosa che fa felice anche Toni&Bepi delle Pecore Colorate, e possibilmente permettere un altro colpo gobbo all’ Ingegner Svendita&Disoccupazione.

E tra le grida di squilibrati verdognoli, grillini prepotenti , tardone indignate, consumatori urlanti , si consuma la distruzione dell’unico patrimonio industriale che il paese abbia mai avuto.

In ogni caso, potete avere una mappa dei media che sono parte integrante dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®, semplicemente osservando quanto sparino su Trenitalia, e quanto poco sparino su Alitalia e Societa’ Autostrade, in concomitanza dello stesso fenomeno atmosferico.

E potete anche notare la stupidita’ dei singoli blogger che si accodano allo spara-spara iniziato dai media mainstream, credendo di formare un giornalismo indipendente e critico, e formando invece un corettino mainstream che amplifica quanto detto dai Salotti Buoni della Finanza Italiana®.

Qui non si tratta di difendere o meno Trenitalia. Qui si tratta di notare come i problemi di Alitalia e di Societa’ Autostrade siano scomparsi dai media, ridotti, attenuati. Stiamo parlando di media che tentano di sviare passeggeri di treno su degli aerei dei quali non pubblicano le difficolta’ e le tragedie , su aereoporti bloccati come e piu’ delle ferrovie per il maltempo, su aerei bloccati ancora piu’ dei treni, su autostrade intasate e pericolose.

Il tutto perche’ Trenitalia non ha ancora subito la cura a base di Giustizia, Liberta’, Disoccupazione e Svendita, e la TAV sta dando fastidio ai Salotti Buoni della Finanza Italiana®, ai Giovanni delle Lamiere® , Toni&Bepi delle Pecore Colorate®, ai Colla&ninnenanne della situazione. E i blog che si allineano, troppo allettati dalla falsa idea di fare giornalismo di denuncia, di fare giornalismo contro, senza capire che sparare su Trenitalia significa semplicemente distogliere l’attenzione da due carcasse (finanziarie e tecnologiche) come Alitalia e Autostrade.

By Uriel

(1) I salotti buoni della finanza italiana sono tali perche’ ammanicati coi salotti buoni della politica italiana, of course.

(2) Vista la topologia della rete, e’ semplicemente impossibile, perche’ oltre il 50% di treni in ritardo, tutti i treni vanno in ritardo. Il numero di guasti raggiunge la saturazione ed il blocco della rete intera ben prima del 70%.

(3)De Benedetti, lo pseudoimprenditore italiano, ha un curriculum di tutto rispetto di trasformazione in fuffa finanziarizzazione di aziende, riduzione ai minimi termini e svendita a capitali stranieri. Destino che e’ toccato, con poche eccezioni, a tutto cio’ che lo stato ha “privatizzato” mettendolo nelle mani dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®. Per “Trattamento De Benedetti” intendo una manovra che produce disoccupazione, soddisfazione degli azionisti, riduzione delle aziende e successiva vandita sottocosto ad uno straniero. Piu’ che Giustizia e Liberta’, De Benedetti avrebbe dovuto chamare “Disoccupazione e Financial Times” il suo salotto, visto che si tratta degli obiettivi che ha seguito maggiormente. Ringrazio il cielo che Mondadori sia finita a Berlusconi, rimanendo un grande gruppo editoriale italiano: l’avesse presa in mano De Benedetti, oggi Mondadori sarebbe “Amazon Spaghetti”, o giu’ di li: comprata, smantellata e rivenduta a due lire a qualche straniero.

(4) L’esistenza di tale treno, ovviamente, risolverebbe ogni problema possibile della rete ferroviaria. Ovviamente , userebbero binari segreti posati in Italia dalla Wehrmacht., e quindi non risentirebbero dei ritardi della rete ferroviaria. Ah, si’: qualcuno spieghi a questi giornalisti la differenza tra Trenitalia e Rfi , rete ferroviaria italiana. Potrebbero scoprire che le stazioni e la gestione degli orari non siano del tutto una colpa di Trenitalia.

(5) Ormai sembra di essere nel paese delle meraviglie. Li’ si festeggiavano i non-compleanni, qui ci si terrorizza per i non-attentati.

04 gennaio 2010

A che serve la flessibilità?


Chi soffrirà di più e più a lungo per l'implosione di Wall Street del 2008-2009 e per la recessione mondiale che ne è seguita?
Non i banchieri e i finanzieri che hanno causato il disastro. Alcuni finanzieri, come Bernard Madoff, andranno in prigione per truffa. Ma anche se Madoff era solo la punta dell'iceberg del dilagante malcostume finanziario, la maggior parte dei finanzieri sospetti non ha ragione di temere l'arresto, o perché il loro comportamento era semplicemente ai limiti della legalità oppure perché gli illeciti finanziari, più raffinati della truffa vera e propria, spesso sono difficili da provare.

Alcuni direttori di banca se ne andranno in pensione con disonore, ma con una maxiliquidazione che potrà alleviare le loro pene, come la buonuscita da 55 milioni di dollari concessa a Ken Lewis della Bank of America, o come la pensione di 25 milioni di sterline garantita a Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland. Molte banche, incoraggiate dal salvataggio pubblico, dalle garanzie e dai bassi tassi d'interesse, hanno rincominciato a versare colossali gratifiche ai loro top manager e nel frattempo si battono vigorosamente contro l'introduzione di riforme che mirano a imporre limiti ai loro rischi e ai loro sistemi di retribuzione.

I grandi sconfitti di questo disastro economico sono i lavoratori dei paesi ricchi che hanno abbracciato la flessibilità liberista del capitalismo di stampo americano. Dal 2007 all'ottobre 2009, gli Stati Uniti hanno perso quasi otto milioni di posti di lavoro, con un calo della percentuale degli occupati dal 63 al 58,5% della popolazione. Alla fine del 2009, la percentuale dei senza lavoro ha superato il 10% e i disoccupati restano tali più a lungo di tutti i periodi precedenti, dalla Grande Depressione in poi. Milioni di persone si sono viste decurtare l'orario di lavoro, e altri milioni, scoraggiati dalla mancanza di lavoro, hanno rinunciato a cercarlo.
Anche l'Europa economicamente più avanzata, il Canada e il Giappone hanno subìto pesanti cali occupazionali, che persisteranno a lungo. La Spagna, dove sono molto diffusi i contratti a tempo determinato, è quella che ha avuto il maggiore incremento della disoccupazione, perché licenziare un lavoratore in Spagna è facile come in America. Alcuni paesi - ad esempio la Germania, la Svezia e la Corea del Sud hanno "nascosto" la loro disoccupazione pagando le aziende per mantenere i lavoratori sul libro paga. Può funzionare sul breve periodo, ma nel tempo è una soluzione insostenibile.

Dagli anni 80 fino alla metà di questo decennio, ogni volta che c'è stata una ripresa economica l'occupazione è cresciuta più lentamente del Pil, e ogni volta il divario era maggiore. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, la ripresa non portò posti di lavoro, fino al boom di Internet della fine degli anni 90; anche dopo il rallentamento del 2001, con Bush alla Casa Bianca, la ripresa non produsse effetti positivi sull'occupazione.Nei primi anni 90 la Svezia è stata colpita da una pesantissima recessione, provocata dallo scoppio della bolla immobiliare e da una crisi bancaria. Il tasso di disoccupazione salì dall'1,8% del 1990 al 9,6% del 1994, prima di attestarsi intorno al 5% nel 2001. Sedici anni dopo la crisi, il tasso di disoccupazione era al 6,2%, più del triplo rispetto a quello del 1990.

Nel 1997, la Corea del Sud si trovò in difficoltà non solo per la crisi finanziaria asiatica, ma anche per l'insistenterichiesta degli Stati Uniti e dell'Fmi di alzare i tassi d'interesse e introdurre riforme modellate sul "consenso di Washington", in cambio di aiuti. L'occupazione ripartì, ma principalmente sotto forma di posti di lavoro "non regolari", con benefit limitati, bassi salari e poca sicurezza dell'impiego. La disuguaglianza nel paese asiatico, fino ad allora su livelli modesti, crebbe fino a portare Seul al secondo posto (dopo gli Stati Uniti) nella classifica dei paesi dell'Ocse.

La debolezza del mercato del lavoro penalizza gravemente l'economia e il benessere individuale. Quando il mercato del lavoro è debole, i giovani in cerca di prima occupazione e i lavoratori esperti che perdono il posto subiscono perdite economiche che faranno sentire i loro effetti per tutta la vita. Studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della perdita di un congiunto.
È difficile che gli Stati Uniti tornino in tempi brevi alla piena occupazione. Dal 1993 al 1998, l'America ha creato milioni di posti di lavoro, che hanno fatto salire il tasso d'occupazione di 5,4 punti percentuali. Se l'occupazione comincerà a crescere a questo ritmo nel 2010, bisognerà aspettare fino al 2015 prima di tornare ai livelli precedenti alla recessione. E una ripresa lenta negli Usa frenerebbe la ripresa anche negli altri paesi avanzati, penalizzando anche lì l'occupazione.

Un lungo e penoso periodo di disoccupazione alta va nella direzione opposta a quello che quasi tutti gli esperti pensavano sarebbe stato l'esito del modello economico americano, improntato alla flessibilità. Dai primi anni 90 in poi molti analisti hanno valutato che l'America aveva un tasso di disoccupazione più basso di quello della maggior parte dei paesi dell'Ue grazie alla scarsa sindacalizzazione, alla facilità di assunzione, all'assenza di forti garanzie giuridiche contro il licenziamento e al forte ricambio di personale. Molti paesi Ocse hanno introdotto riforme di vario genere nel senso della flessibilità, nella speranza di migliorare la propria economia imitando l'America.La tesi che la flessibilità sia il fattore chiave per l'occupazione non è più sostenibile. Nel suo Employment Outlook del 2009, l'Ocse analizza impietosamente le sue riforme preferite e giunge alla conclusione che non sono sufficienti per consentire a un paese di adeguarsi agli effetti di una recessione trainata dalla finanza. Secondo l'Ocse, «non sembra esserci nessun motivo reale per ritenere che le recenti riforme strutturali abbiano reso il mercato del lavoro dei paesi Ocse significativamente più resistente a gravi flessioni dell'economia».

Quindi l'insegnamento che possiamo trarre dalla recessione è chiaro: l'anello debole del capitalismo non è il mercato del lavoro, ma il mercato finanziario. Le imperfezioni del mercato del lavoro impongono alla società tutt'al più dei costi modesti in termini d'inefficienza, mentre le imperfezioni del mercato finanziario danneggiano pesantemente la società, e chi ci rimette di più sono i lavoratori, non gli artefici del disastro. Inoltre, a causa della globalizzazione il collasso del mercato finanziario americano dissemina miseria in tutto il mondo.

Dobbiamo reinventare la finanza, in modo che lavori per arricchire l'economia reale, invece che arricchire soltanto i finanzieri: lo dobbiamo ai lavoratori vittime di questa recessione. Reinventare la finanzia significa cambiare gli incentivi e le regole che governano il settore finanziario. E dal momento che sono in pericolo anche l'economia e l'occupazione di altri paesi, questi stati hanno il dovere, nei confronti dei loro cittadini, di fare pressione sugli Stati Uniti perché realizzino riforme finanziarie significative.

di Richard Freeman (docente di Economia Harward)

03 gennaio 2010

Le privatizzazioni come arma politica


Nel corso di una recente trasmissione televisiva che accampa, senza vergogna alcuna, pretese di ereticità, il maggiore esponente del maggiore partito dell’opposizione di Sua Maestà incalzava il ministro dell’economia Giulio Tremonti contestandogli svariate circostanze di cattiva gestione delle finanze pubbliche. Il ministro, con uno dei suoi coup de théâtre abituali e incisivi – ma, ahinoi, spesso sconclusionati – fece presente al suo interlocutore e al pubblico che le cause all’origine dei mali contingenti che affliggono l’economia nazionale sono da cercarsi altrove; ebbe inoltre il coraggio (fuor di metafora) di affermare che sarebbe ora di scrivere, in Italia, una storia delle privatizzazioni, di chi le ha fatte e perché, di chi ci ha guadagnato e come. D’improvviso il guareschiano politicante d’opposizione di cui sopra si è ammutolito, ed è dovuto intervenire il conduttore della trasmissione che, non disponendo (forse a causa dei ‘tagli’ alla Rai) di nani, ballerine e giocolieri, si è dovuto accontentare di sviare il discorso con l’ausilio di un attempato vignettista, sovrapponendo alle parole del ministro, con fare circense, un “facciamo entrare Vaurooo!”.

Quanto sopra, al di là della trita e ritrita aneddotica che contraddistingue le grigie figure della politica e dell’informazione nazionali, valga per esemplificare come di privatizzazioni non sia d’uopo finanche parlarne. Non siamo certo ai livelli della religio holocaustica, ma di vero e proprio Verbo privatizzatore – che negli ultimi lustri risuona con forza sempre maggiore - si può e si deve iniziare a parlare, considerate l’intangibilità di cui gode tale teoria socioeconomica e come questa sia ormai considerata parte integrante delle strutture produttive degli Stati o di quello che ne rimane. Tant’è che se il solo parlare di “partecipazioni statali” può far storcere il naso all’illuminato esperto, al lucido economista o al ligio politicante, a parlare addirittura di “nazionalizzazione” e “socializzazione” quasi quasi si viene accompagnati direttamente al patibolo.

E’ un drammatico dato di fatto che la disgregazione dell’economia sociale, la privatizzazione e l’assunzione, da parte di potentati non autoctoni, del controllo delle leve dell’economia e delle risorse delle nazioni siano fenomeni che sono storicamente andati di pari passo con le dinamiche imperiali, coloniali, belliche e prevaricatrici degli Stati Uniti d’America e della loro putrescente appendice, bonariamente definita “Occidente democratico”. Occorre però distinguere, a seconda della fase storica, del collocamento geografico e del contesto internazionale, molteplici modalità attraverso le quali queste dinamiche hanno preso forma, aprendo le porte al controllo imperialista dell’economia degli Stati e strutturandosi in un processo politico conosciuto appunto come privatizzazione. Prendiamo ad esempio, ai fini esemplificativi, tre modelli relativi a tre diversi teatri di guerra economica.

Il modello irakeno. Alla fine di quella che viene impropriamente definita “seconda guerra irachena” (che nella realtà non è stata altro che l’ultima sanguinosa fase di un più che decennale conflitto imposto alla nazione sovrana e socialista dell’Iraq), le strutture dello Stato vennero integralmente soppresse per essere sostituite con delle catene di comando coloniali funzionali alle velleità di completo controllo che gli Stati Uniti manifestarono nei confronti di quel disgraziato Paese. Tale processo fu talmente rapido e radicale che fece sollevare dei dubbi relativi alla sua efficacia persino all’interno dei centri decisionali politico-militari che si erano resi responsabili dell’aggressione e della guerra; non furono infatti pochi quanti – soprattutto tra i militari – lamentarono delle difficoltà nella gestione ordinaria dell’occupazione (ordine pubblico, servizi essenziali) una volta che anche i vigili urbani e i consorzi agrari erano stati aboliti per legge. Tuttavia questa manovra – per quanto considerata azzardata anche dai più insospettabili – permise agli occupanti di incamerare sotto la loro gestione privata la totalità delle ingenti risorse naturali di cui è ricca la nazione irachena, e segnatamente delle risorse petrolifere. Queste risorse, che fintanto che l’Iraq è stato un Paese sovrano erano gestite dallo Stato attraverso il Ministero del Petrolio, finirono quindi nella loro interezza nei rapaci artigli delle compagnie petrolifere internazionali legate agli interessi occidentali e nordamericani, i quali misero in atto il sistematico saccheggio che è ancora in corso. E’ stato quindi, quello iracheno, un caso in cui non si può propriamente parlare di privatizzazione di strutture preesistenti, poiché queste strutture – funzionali, nonostante il rigido embargo internazionale – vennero preventivamente soppresse. L’intera nazione irachena si trovò quindi, perinde ac cadaver, re-integrata in nuove istituzioni politiche ed economiche create ad hoc e nate “già privatizzate” nelle mani delle multinazionali facenti gli interessi degli aggressori.

Il modello jugoslavo. Alla fine della campagna di massicci bombardamenti che per tre mesi martoriò le repubbliche jugoslave di Serbia e Montenegro nella prima metà del 1999, gli aggressori, per quanto fossero riusciti a strappare il Kosovo e Metohija dalla madrepatria con la forza delle armi e con la violenza etnica, erano ben lungi dal poter levare al cielo i loro sordidi canti di vittoria. Nonostante la tanto decantata vittoria militare, infatti, a Belgrado il governo “nemico”, guidato dal presidente Milošević e sostenuto dal Partito Socialista, dalla Sinistra Unita e dal Partito Radicale[1], teneva, e teneva anche bene. Forte, oltre che di un innegabile consenso popolare, di una gestione statale dell’economia e di una mirata prassi socialista di gestione delle risorse, il governo jugoslavo riuscì, nonostante le sanzioni e il conseguente stato di obsolescenza dell’apparato produttivo aggravato da tre mesi di incursioni aeree, a tenere ben salde le redini dello Stato e a garantire ai cittadini gli essenziali servizi che potevano assicurare la più che dignitosa sopravvivenza. Per gli americani e i loro accoliti, quindi, nel cuore dell’Europa restava un ‘buco nero’ che non intendeva piegarsi e che proseguiva nella sua politica di sovranità, indipendenza e vicinanza con la Russia e coi Paesi non –allineati ai dettami di Washington. Quale migliore scenario per non tentare una “rivoluzione colorata”? Detto fatto: allestiscono una accurata e martellante campagna di disinformazione internazionale, addomesticano ulteriormente i mezzi di informazione locali più legati alla prezzolata opposizione, investono qualche milione di dollari, raccattano in giro per l’Europa un po’ di teppaglia da scatenare sulle strade e, a poco più di un anno dal rientro ad Aviano dell’ultimo bombardiere, Milošević cade. Quale è stato il primo organismo istituito dal nuovo governo collaborazionista? Una commissione per il risarcimento delle vittime della dittatura? Un ente per il ripristino della libertà di stampa? Un gruppo di lavoro per l’appianamento delle discriminazioni etniche? Niente di tutto ciò, bensì un’ Agenzia per le privatizzazioni. Le attività di questa agenzia, che ha la responsabilità di aver svenduto il patrimonio di una nazione, erano e sono mirate a permettere l’accaparramento delle più appetibili imprese statali da parte delle solite sanguisughe con la maschera da filantropo. Tutto ciò si è abbattuto come una scure sulla già indebolita economia locale: in Serbia infatti, a causa di una conservazione della prassi giuridica realsocialista, fino al 2000 (cioè quando qui da noi si privatizzavano anche i bottoni della divisa della fanfara dei Carabinieri) erano a partecipazione statale non solo i settori strategici dell’economia, ma appartenevano allo Stato anche i ristoranti e i negozi di abbigliamento. Imprese che, a differenza di quelle appartenenti al settore degli idrocarburi, delle miniere o dei tabacchi, erano di scarso interesse per i grandi investitori internazionali, e finirono quindi o nelle mani di loschi personaggi legati alla criminalità locale o sulla via della liquidazione. I posti di lavoro perduti si contarono a decine di migliaia.

Il modello italiano. Il caso dell’Italia relativamente alle privatizzazioni si configura nei termini di scontro interno all’imperialismo o, come qualcuno potrebbe sostenere, in seno a uno schema mentale marxiano, tra imperialismo primario e imperialismo secondario. La fine del secondo conflitto mondiale, che segnò l’inizio dell’egemonia anglo-statunitense sulla nostra nazione, non fu largamente contraddistinta da un processo di privatizzazione della nostra economia, almeno non nelle modalità descritte nei precedenti casi. Un esempio: i beni mobili e gli ingenti beni immobili che erano appartenuti alla Gioventù Italiana del Littorio furono conferiti alla gestione del Ministero della Pubblica Istruzione. Tuttora sono numerose le scuole e gli istituti che hanno fisicamente sede negli edifici che avevano ospitato le dismesse strutture sociali, educative e sportive dell’organizzazione giovanile fascista. Per svariati decenni le istituzioni repubblicane hanno sono state prosecutrici di una pur timida politica ‘statalista’ che riuscì a conservare, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, una partecipazione della sfera pubblica nella politica economica della nazione, almeno relativamente al settore strategico: comunicazioni, trasporti, energia. Pensiamo inoltre alle politiche abitative, al “Piano Casa” dell’Ina e di Fanfani. Nei primi anni Novanta le centrali decisionali d’oltreoceano stabilirono che tutto ciò era di troppo, che nessuno spazio doveva più essere lasciato alla tutela della sovranità delle nazioni, pur se già ampiamente sottomesse, e che nessuna gestione delle risorse potesse ricusare i diritti di predazione delle imprese private, apolidi, allogene o ‘nazionali’ che siano. Per rendere tutto ciò possibile fu necessario esautorare una classe dirigente che, per quanto in larga parte oltremodo servile, non rispondeva più ai canoni richiesti dal nuovo corso di predazione economica. A tal fine fu organizzata una manovra a tenaglia. Da una parte un ristretto gruppo di rappresentanti del mondo finanziario italiano e internazionale che, con l’incomprensibile benevolenza di Nettuno, incrociando sul Tirreno a bordo del Britannia, stabilirono la svalutazione della lira e la dismissione/svendita del patrimonio industriale dello Stato; dall’altra, una magistratura sapientemente indirizzata e una piazza facilmente sobillata scoprirono che i nostri politicanti sgraffignavano qualche milione dai fondi pubblici[2]. Non solo si era spianata la strada a una nuova classe politica, più ricettiva al nuovo Verbo privatizzatore, ma si era inculcata nel popolo la convinzione che l’intervento dello Stato nell’economia fosse l’origine del male da estirpare. Il resto è storia dei nostri giorni.

I tre modelli citati si differenziano nell’analisi contestuale, ma sono accomunati da varie analogie. Il primo si svolge in un contesto di guerra guerreggiata, e il processo di privatizzazione dell’economia viene esperito come risultato degli eventi bellici, come prezzo stabilito da pagare per la sconfitta. Nel secondo ci troviamo in una cosiddetta “rivoluzione colorata”, in cui il saccheggio viene sbandierato ai quattro venti come scelta economica vincente e viene edulcorato proponendolo come conseguenza di istanze politico-umanitarie. Nel caso italiano la guerra guerreggiata era finita da un pezzo, e di rivoluzione colorata non si può propriamente parlare. C’è chi parla di “guerra occulta”: nascosta nel Palazzo, efficace e incruenta (siamo in Europa occidentale, nel ‘salotto buono’; e il salotto buono non si sporca). Ma che è stata comunque capace di mietere le sue vittime. Le più illustri? Il lavoro, il senso dello Stato, la libertà di autodeterminarci come nazione.

Ma non possono uccidere la nostra volontà di ribellarci. Non possiamo permetterglielo.

di Fabrizio Fiorini


[1] A scanso di equivoci e per eccesso di zelo: niente a che vedere con Emma Bonino e Giacinto Pannella…

[2] Esistono centinaia di migliaia di persone che credono fermamente che Craxi sia morto in esilio perché aveva finanziato illegalmente il suo Partito o anche sé stesso. Sono gli stessi che credono che Mattei sia morto perché gli si era guastato lo spinterogeno. E’ preferibile ricordare, parlando della caduta di Craxi, di quando prendeva la parola ai congressi dell’Internazionale Socialista, e la delegazione dei laburisti israeliani abbandonava i lavori…

18 gennaio 2010

La sinistra, i poteri forti e la sovranità monetaria

Berlusconi ha annunciato l’intenzione di abbassare le tasse. Un annuncio del quale sembrerebbe logico che tutti gioissero. Invece, no; Bersani, no. La riforma non gli va bene perché: “Favorisce i ricchi”.
Favorisce i ricchi, signor Bersani? Ma cosa ha fatto la Sinistra, dalla fine del vecchio PC ad oggi, se non favorire i ricchi? Aver chiamato Prodi a guidare il partito è stato il segnale.
Qualcuno si è meravigliato allora che i comunisti si affidassero a un consumato rappresentante della vecchia Democrazia Cristiana per il loro nuovo corso, ma il motivo lo si è capito in seguito, in base alla politica cui l’Italia da allora è stata piegata e della quale i protagonisti assoluti, da Prodi a Ciampi, sono stati gli uomini della Sinistra: sottrarre a poco a poco la sovranità, l’indipendenza dello Stato ai cittadini per consegnarla ai manipolatori della finanza mondiale attraverso la Banca Centrale Europea; eliminare la moneta nazionale privando lo Stato dell’unico potere che ne garantisce l’esistenza, quello di battere moneta; svendere le più importanti proprietà dei cittadini (dello Stato) affermando che soltanto i privati hanno diritto a possedere i beni indispensabili alla vita di una società.
La Sinistra, quindi, è schierata dalla parte dei cosiddetti “poteri forti”, ossia dalla parte di coloro che, attraverso il primato dei mercati e delle banche, si apprestano a giungere al governo mondiale, all’omogeneizzazione delle leggi, dei costumi, degli eserciti, dei popoli. Per questo (la solidarietà non c’entra per nulla) sta sempre dalla parte degli immigrati.
E’ contro gli Italiani perché globalizzazione significa eliminazione degli Stati, delle Nazioni, delle identità dei Popoli.
Che perda voti è naturale, perciò, anche se quelli che sarebbero i suoi elettori non capiscono cosa stia succedendo, così come non riesce a spiegarsi quello che sta succedendo una gran parte dei cattolici, disorientati di fronte al comportamento della gerarchia ecclesiastica, il più delle volte analogo a quello della Sinistra.
Anche ai seguaci di Fini non rimane altra possibilità per comprendere le piroette del loro capo che mettersi dal punto di vista della mondializzazione.
Quelli che si sono convinti, in buona o in cattiva fede, che tutti vivranno felici e contenti quando si sarà inaugurato il mondo dell’uguaglianza totale, in cui non ci saranno più differenze né di popoli, né di nazioni, né di governi, né di monete, né di costumi, conducono una battaglia durissima, spietata, contro le “vecchie” idee di patria, di italianità, di sovranità, con l’aggravante dell’implicita segretezza, ossia senza avere il coraggio di dirlo apertamente. Il risultato è quello che vediamo: l’opposizione politica quasi non esiste; non fa proposte perché in pratica non ha un vero bersaglio.
Se la situazione non fosse quella che abbiamo descritto, toccherebbe alla Sinistra cogliere la palla al balzo della riduzione delle tasse per indicare l’unico modo possibile: non piccoli taglietti qua e là, ma riappropriarsi della sovranità monetaria; ricominciare a battere moneta in proprio, eliminando così il debito pubblico e gli interessi alla Banca Centrale Europea.
La “modernità” del fisco, di cui parla Berlusconi, non può essere altro che questa. Sono stati Ciampi e Prodi a sottrarre la sovranità monetaria agli Italiani, tradendo la Costituzione laddove afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (né si dica, prendendoci per imbecilli, che il denaro che usiamo fa parte della politica estera). La Banca Centrale Europea, come tutte le Banche Centrali dei vari Stati, appartiene ad azionisti privati che fanno pagare ai cittadini la moneta che “prestano” agli Stati creandola dal nulla e addebitando anche l’”interesse” sul prestito. Si tratta di un argomento che è diventato oggetto di appassionati dibattiti in innumerevoli pubblicazioni e in centinaia di siti internet a causa della sua fondamentale importanza per la vita dei popoli. E’ inutile e ingiusto, quindi, continuare a mantenere il silenzio da parte dei politici e dei mezzi d’informazione. Ci rendiamo conto che a Bersani non piaccia aiutare Tremonti, al quale la BCE ha perfino impedito, a suo tempo, di stampare i biglietti da uno e due euro. Ma Tremonti questa volta può esserne sicuro: è una battaglia nella quale gli Italiani saranno tutti con lui.

di Ida Magli

17 gennaio 2010

Crisi di Google, è iniziata la guerra tra Usa e Cina?







Più volte su questo blog ho scritto come gli Usa fossero ormai succubi della Cina, come la recente visita di Obama a Pechino aveva dimostrato. Cina e Stati Uniti sembravano aver consolidato l’equilibrio che caratterizza da un decennio i loro rapporti. Gli americani chiudevano un occhio sulla violazione dei diritti umani e le loro multinazionali continuavano a fabbricare oltre Pacifico, contribuendo allo sviluppo dell’economia locale. I cinesi si sdebitavano comprando a mani basse i Buoni del Tesoro che consentivano a Washington di finanziare il suo ingente debito pubblico. Intanto Pechino ampliava, con molta discrezione, la propria influenza in Africa, in Asia, persino nell’America latina, siglando accordi di cooperazione con Paesi ricchi di materie prime. Una politica che la Casa Bianca non ha mai gradito, ma che era costretta ad accettare proprio perché sotto ricatto finanziario. In questo contesto la continuità tra Bush e Obama appariva assoluta.
Con il nuovo anno, però, l’atteggiamento americano è cambiato. Washington ha venduto armi a Taiwan, infischiandosene delle rimostranze di Hu Jintao. E poi è scoppiata la crisi per google.

Perché il motore di ricerca dopo aver accettato per anni le condizioni imposte dai cinesi, improvvisamente si ribella alla censura? Semplice esasperazione per gli attacchi degli hacker alle caselle di Gmail di dissidenti cinesi? Irrefrenabile amore per la libertà? C’è da dubitarne, anche perché rischia di dover rinunciare al più grande mercato al mondo, perlomeno momentaneamente. Un’osservatrice attenta delle vicende asiatiche come Enrica Garzilli ritiene che alla fine Google uscirà ancora più forte.

Per capire la vera posta in gioco, bisogna considerare un’altra notizia, già trapelata sulla stampa statunitense e che verrà ufficializzata la prossima settimana, quando Hillary Clinton annuncerà una nuova «politica tecnologica» per aiutare i cittadini di altri Paesi ad avere accesso a Internet senza censure. E quali sono quelli che oggi limitano la Rete? Innanzitutto la Cina, l’Iran, la Corea del Nord; ovvero tre nemici degli americani. Il riferimento, implicito, a Teheran e a Pyongyang non sorprende, quello a Pechino sì. È rivoluzionario.

Inoltre bisogna considerare che il fondatore di Google, Eric Schmidt, è grande amico di Barack Obama; durante la campagna elettorale lo ha finanziato generosamente ed è diventato suo consigliere, seppur informalmente.

I legami, insomma, sono strettissimi. È inverosimile che Google abbia deciso di sfidare Pechino senza aver concordato la mossa con la Casa Bianca. Infatti il portavoce di Obama, Robert Gibbs, ha annunciato che «il presidente appoggia una Rete libera in Cina», confermando che la società californiana si è consultata preventivamente con Washington. E ieri si è alzato quello che gli esperti di comunicazione chiamano «rumore mediatico». Lo speaker della Camera Nancy Pelosi ha dichiarato di appoggiare incondizionatamente Google, il ministro al Commercio Gary Locke ha affermato che l’intrusione del governo cinese «è inquietante sia per il governo che per le società americane» e lo ha invitato «a collaborare per garantire operazioni commerciali sicure in Cina». Un alto funzionario del governo Usa, protetto dall’anonimato, ha osservato: «Quel che è importante per la Cina è che praticamente chiunque abbia sentito la notizia lo ha commentato con un Wow!».
Da notare che tra poco Obama riceverà il Dalai Lama, altra svolta che farà infuriare Pechino. Troppi segnali, troppi indizi in un’unica direzione.

Forse è iniziata la vera guerra tra Usa e Cina. Una guerra che non sarà militare ma psicolgica, economica e civile. Con conseguenze imprevedibili.

Domanda: lo scenario di un cambiamento strategico della politica estera americana è plausibile o l’episodio di Google rappresenta solo un sussulto, destinato a rientrare rapidamente?

Io propendo per la prima ipotesi, ma mi chiedo se Washington sia in grado di reggere il colpo. Non dimentichiamo il deficit….

di Marcello Foa

14 gennaio 2010

La crisi razziale





Adesso
mi è tutto più chiaro. Al momento in cui sto scrivendo mi trovo allo Space Needle di Seattle, ormai saranno più di trenta giorni che sto girovagando per gli States con l'intento di realizzare un videodocumetario sulla crisi finanziaria e quella immobiliare: Boston, New York, Miami, Atlanta, Phoenix, Las Vegas, Los Angeles, Seattle e Chicago. L'economia americana è collassata per motivazioni razziali: il suo destino sembra ormai segnato da un lento ed inesorabile declino economico e sociale. Chi confidava in un miglioramento con l'avvento di Obama, mitizzandolo come il nuovo Kennedy, ha iniziato a ripensarci. L'America di Obama non è l'America di Kennedy: alla metà degli sessanta, la popolazione americana era costituita per circa l'80% da bianchi caucasici (europei ed anglosassoni) e per il il 20% da svariate minoranze etniche (afroamericani, ispanici, orientali). Oggi è tutto cambiato: il 30% sono bianchi caucasici, il 30% sono ispanici, il 30% sono afroamericani ed infine il 10 % sono orientali. L'America come vista nei serial televisivi con i quali siamo cresciuti, da Happy Days a Melrose Place, non esiste più.

Nella foto: una scena del film "Gran Torino"

Questa trasformazione del tessuto sociale ha comportato un lento e progressivo cambiamento negli stili di vita, nella capacità di risparmio, nella responsabilità civica e soprattutto nella stabilità e sicurezza economica. La cosiddetta crisi dei mutui subprime trova fondamento proprio in questa constatazione. Mi permetto di aprire una parentesi per accennare al meccanismo del credit scoring (necessario per comprendere il fenomeno dei subprime): in America ad ogni contribuente viene assegnato un punteggio di affidabilità utilizzando una scala valori che va da un minimo di 300 ad un massimo di 850 punti (è un modello matematico sviluppato da una società quotata al Nyse, Fair Isaac Corp.). All'interno di questo range possiamo individuare tre categorie di soggetti: prime consumer (750-850 punti con excellent credit), midprime consumer (720-750 con good credit) ed infine subprime consumer (660-720 con fair credit). Evito di soffermarmi nelle categorie con il rating inferiore (low and bad credit) per limiti di esposizione. In base alla categoria di appartenenza varia la disponibilità di accesso al credito ed il costo dello stesso. Sostanzialmente il credit scoring è un modello di valutazione che consente di comprendere chi affidare e per quanto, oltre al fatto di selezionare i buoni pagatori da quelli cattivi, il tutto rapportato alla propria posizione debitoria e disponibilità reddituale.

Più carte di credito utilizzate, più fido richiedete, più le rate dei prestiti pregressi pesano in percentuale sul vostro reddito mensile, più ritardi nei pagamenti avete nel vostro track record personale, più il vostro credit scoring tenderà ad essere di basso livello. Sulla base di questo sistema, il 20% della popolazione americana è un soggetto prime, un altro 25% midprime ed infine quasi il 30% è un soggetto subprime. Il livello medio di credit scoring per un cittadino americano si attesta intorno ai 680 punti (subprime). Dal punto di vista statistico, troviamo tra i soggetti fair e low credit, per la stragrande maggioranza, gli appartenenti alle classi sociali legate alle ondate immigratorie degli ultimi decenni (per quello che ho potuto vedere non penso sia casuale).

Ma torniamo a noi. Durante la metà degli anni novanta, con l'intento di mitigare le tensioni e le disparità sociali della popolazione, nella constatazione che solo il 20% degli afroamericani ed il 30% degli ispanici erano proprietari della loro casa contro il 60% della popolazione bianca, vennero istituite delle piattaforme di ammortizzazione sociale che avrebbero consentito l'acquisto facilitato di un'abitazione a soggetti con capacità di redditto e disponibilità limitate. In buona sostanza il governo federale avrebbe garantito attraverso le varie GSE (Government Sponsored Enterprise come Fannie Mae e Freddie Mac) la remissione dei debiti concessi alle fasce sociali più deboli. Fu così che le banche iniziarono lentamente, ma con le pressioni del governo, a prestare denaro quando qualche anno prima non lo avrebbero mai fatto. La ratio su cui poggiava questa scelta politica era identificata nella volontà di rendere i poveri meno poveri in quanto se “possiedi” un'abitazione puoi pensare di pianificare la tua vita e stabilizzare il tuo nucleo familiare, oltre a questo non dimentichiamo le motivazioni politiche volte a conquistare nuove fasce di elettorato grazie a proposte molto popolari.

Quello che è successo dopo a distanza di anni, dalla Lehman Brothers alla Fannie Mae, ormai fa parte della storia, senza dimenticare anche la complicità o incompetenza della FED. Una politica immigratoria troppo liberale e la mancanza di protezionismo culturale hanno presentato un conto impossibile da pagare per l'America che oggi inizia a comprendere cosa significa aver perso la propria originaria identità etnica. Lo scenario macroeconomico che caratterizza adesso il paese è tutt'altro che confortante e a detta di molti analisti indipendenti americani il peggio deve ancora arrivare. La disoccupazione è ovunque con disperati (non gli homeless) che chiedono l'elemosina di qualche dollaro e accampamenti di tende sotto i ponti delle freeway nelle grandi città. Obama ha subito una perdita di popolarità devastante, persino le persone di colore che lo hanno votato girano per le città con cartelli appesi al collo con la dicitura “Obama, dovè il mio assegno ? Allora quando arriva il cambiamento ?” In più occasioni mi sono sentito dire che la colpa è riconducibile ad un eccesso di liberalità immigratoria e ad una insensata politica di sostegno alle fasce sociali più deboli, che ha innescato il fenomeno dell'”overbuilding in bad areas”. Si è costruito troppo ovunque in area residenziali scadenti, prestando parallelamente denaro a chi non lo avrebbe mai meritato in passato.

Troppi messicani ed orientali entrati nel paese, legalmente e clandestinamente, hanno consentito l'abbassamento medio dei salari, mentre le concessioni, i sussidi ed il credito facile ai neri hanno distorto l'economia statunitense, rendendola drogata ed artefatta, portandola a basarsi esclusivamente sul consumismo sfrenato, il ricorso al debito e sulla totale incapacità di risparmio. Non lo avrei potuto immaginare, ma vi è un risentimento ed un odio trasversale tra le varie etnie che popolano il paese che mi ha più volte intimorito: bianchi contro afroamericani, ispanici contro afroamericani, orientali contro ispanici, insomma tutti contro tutti. In più occasioni per le strade di Miami e Chicago ho assistito ad episodi di tensione razziale stile “Gran Torino””. Chi parla con ingenuità evangelica di integrazione razziale per questo paese, probabilmente ha studiato per corrispondenza all'Università per Barbieri di Krusty (noto personaggio della serie televisiva The Simpsons)..

I bianchi benestanti che fanno gli executive (dirigenti, funzionari o colletti bianchi ben pagati) si autoghettizzano da soli in quartieri residenziali che assomigliano a paradisi dentro a delle prigioni, con videosorveglianza e servizi di sicurezza privati degni del Pentagono. Di contrasto dai fast food, ai jet market, alle pompe di benzina, a qualsiasi altro retail service a buon mercato, trovate tutte le altre razze che ramazzano i pavimenti, servono ai tavoli, lavano le vostre auto, consegnano pizze a domicilio o guidano i taxi per uno stipendio discutibilmente decoroso. L'America per alcuni aspetti (opportunità di lavoro per i giovani che hanno indiscusse capacità) può sembrare superficialmente un buon paese, ma se ti soffermi ad osservarla con un occhio critico, sotto sotto è un paese marcio e primitivo da far schifo, a me si è rivelato per quello che è realmente ovvero un calderone multirazziale con la maggior parte delle persone (bianchi compresi) che hanno il senso di autocoscienza di uno scarafaggio. L'americano medio (che sia un bianco, cinese, messicano o afroamericano) se ne frega assolutamente dei problemi ambientali del pianeta, della sofferenza inaudita degli animali nei loro allevamenti intensivi, delle carestie in Africa o dei conflitti in Medio Oriente, si interessa solo che possa ingozzarsi di hotdog, bere fiumi di coca cola, guardarsi il superbowl e guidare il suo megatruck dai consumi spropositati. Pur tuttavia, nel lungo termine sono piuttosto dubbioso che si possa riprendere dal processo di imbarbarimento ed impoverimento sociale che lo sta caratterizzando, per quanto potenziale bellico possa vantare, questo non lo sottrarrà dalla sorte che lo attende, prima il collasso economico e dopo quello sociale, scenario confermato anche da molte fonti di informazione indipendente che non si mettono a scimmiottare a turno a seconda della corrente politica che vince le elezioni, tipo la CNN o la FOX.
Eugenio Benetazzo

13 gennaio 2010

I paradossi della mobilità


Il primo paradosso (è squisitamente tecnico-fisico ed ha a che fare col principio fisico della incomprimibilità dei corpi) nasce dalla diffusa convinzione che per aumentare l’efficienza della mobilità, e diminuire il traffico veicolare, sia sufficiente aumentare il numero delle strade e/o le loro dimensioni. L’effetto che si ottiene è in genere esattamente il contrario. Basta osservare una qualsiasi strada o autostrada nelle ore di punta per constatare che non c’è strada, superstrada, terza o quarta corsia che sia in grado di smaltire volumi di traffico privi di controllo.

La possibilità di raggiungere rapidamente luoghi molto lontani fra loro, se apparentemente sembra corrispondere al massimo della libertà e delle opportunità disponibili, in realtà è la premessa alla perdita di coesione sociale delle comunità e di qualità ambientale dei luoghi.

Pensiamo al comparto della vendita al dettaglio e della distribuzione: “la diffusione dei grandi magazzini ha fatto sparire il 17 % delle panetterie (17.800) e l’84% delle salumerie (73.800) e il 43% dei negozi di casalinghi (4.300). Quello che è scomparso è una parte importante della sostanza stessa della vita locale, con il corrispondente disfacimento del tessuto sociale.” E non esistono giustificazioni ne’ di ordine economico che occupazionale: “un posto di lavoro precario creato dalla grande distribuzione distrugge cinque posti di lavoro stabili nel commercio di prossimità” (S.Latouche. Breve trattato della decrescita serena.)

E qual è la dinamica di questo processo? Il sabato mattina ci allontaniamo in auto dalle attività commerciali del nostro quartiere, verso i centri commerciali in periferia, dove, insieme a migliaia di sconosciuti, in maniera anonima ed impersonale, facciamo i nostri acquisti. Quindi, sempre in auto, torniamo alle nostre residenze, stupendoci, magari, dello stato di abbandono delle strade, dell’assenza di spazi comuni di incontro e di punti di
aggregazione.

Più ci muoviamo, più lo facciamo spesso e rapidamente, e più lasciamo sguarnito il nostro territorio ed allentiamo i legami con esso. Non siete convinti? Parliamo allora di agricoltura, rapporto città-campagna.

“Negli anni settanta si diceva che le strade costruite per il benessere dei contadini e per rendere meno marginali le zone rurali, sarebbero state utilizzate dall’ultimo degli agricoltori per andare in città e dal primo cittadino per costruire la propria casa di campagna nella masseria appena liberata.” Guardando oggi le periferie delle nostre città e lo stato di abbandono delle nostre campagne, siamo ancora convinti che una sempre più efficiente rete viaria sia necessariamente un elemento di avvicinamento fra le persone?

Non ci credete ancora? Lo so. Sembra incredibile. 150 anni di progresso. Pubblicità di auto che corrono a 200 km. all’ora in campagne verdeggianti. Millemiglia. Granpremi di F1. Record dell’ora ed Olimpiadi, ci hanno convinto che veloce è meglio. Che gli altri vanno lasciati indietro. Che chi va lento, o peggio sta fermo, è un perdente. E quindi via!
Tutti di corsa!

L’apoteosi si raggiunge col turismo di massa. La legittima curiosità e la scoperta culturale sono state trasformate dall’industria turistica in consumo mercificato dell’ambiente, della cultura e del tessuto sociale dei paesi “obiettivo”, in base all’assunto: “sempre più lontano, sempre più in fretta, sempre più spesso (e sempre più a buon mercato)”.
E ancora una volta il facile accesso alla mobilità è il motore del sistema.

La soluzione? E’ il banale l’elogio della lentezza. Percorrere il proprio territorio a piedi o in bicicletta, per conoscerlo, apprezzarlo, valorizzarlo e, se occorre, difenderlo. “Una volta mettersi in viaggio era un’avventura piena di imprevisti,… Per la maggior parte del tempo si restava nel luogo natale…e non necessariamente per mancanza di immaginazione”.
Solo chi conosce ed apprezza il proprio territorio è poi disposto a difenderlo da un incendio, dalla speculazione edilizia, da un inceneritore o da qualche altra “grande opera”.

Gli altri, i turisti, al primo problema, alla prima difficoltà, fanno presto, accendono il motore della propria auto, ingranano la marcia e vanno in un altro posto.
Finchè ci sarà un altro posto dove poter andare!

di Alberto Ariccio

Il 2010 degli USA: dichiarare guerra a tutto il mondo



Il primo gennaio inaugura l'ultimo anno della prima decade del nuovo millennio e di dieci anni consecutivi di guerre condotte dagli Stati uniti in medio oriente.

A partire dal 7 ottobre 2001, missili e bombe si abbattono sull'Afghanistan, le operazioni di guerra americane all'estero non si sono fermate un anno, un mese, una settimana o un giorno nel ventunesimo secolo.

La guerra in Afghanistan, il primo conflitto aereo e di terra degli U.S.A. in Asia dalle disastrose guerre in Vietnam e in Cambogia negli anni sessanta e all'inizio dei settanta, e la prima guerra di terra e campagna asiatica della N.A.T.O., cominciò alla fine della guerra in Macedonia del 2001, lanciata dalla N.A.T.O. occupando il Kossovo, una guerra in cui il ruolo delle truppe statunitensi è ancora da delineare e affrontare correttamente e che ha portato alla migrazione di quasi il 10% della popolazione della nazione.

Nel primo caso, Washington invase una nazione in nome della lotta al terrorismo; nel secondo, contribuì al dilagare del terrorismo. Allo stesso modo, nel 1991 gli U.S.A. e i suoi alleati occidentali hanno attaccato le forze irachene in Kuwait ed hanno lanciato un devastante e mortale attacco con missili Cruise e bombardamenti in Iraq nel nome della difesa della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale del Kuwait e nel 1999 diedero il via ad un attacco aereo di 78 giorni contro la Yugoslavia per calpestare e minare drasticamente i principi dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale nel nome dell'ultimo pretesto di guerra, il cosidetto intervento umanitario.

Due anni dopo la "guerra umanitaria", l'ossimoro più ripugnante a cui il mondo abbia mai assistito, cedeva il passo alla guerra globale contro il terrorismo, mentre gli Stati Uniti e i suoi alleati della N.A.T.O. invertivano la rotta nuovamente, continuando però a dichiarare guerre d'attacco [n.d.t: guerre non giustificate da uno scopo di difesa, considerate un crimine nel diritto internazionale] e "guerre d'opportunità", ogni volta che volevano, a dispetto delle contraddizioni e di ogni logica, dei casi precedenti e del diritto internazionale.

Dopo numerose campagne mai completamente conosciute per reprimere insurrezioni, alcune già in corso (come in Colombia), altre nuove (come nello Yemen), gli U.S.A invasero l'Iraq nel marzo 2003 con una "coalizione di volontari" comprendente soprattutto nazioni dell'Europa orientale canidate ad entrare nella N.A.T.O. (quasi tutte ora diventate full member dell'unico blocco militare del mondo in cambio del loro servizio).

Il Pentagono ha in oltre messo in campo le forze speciali e altre truppe nelle Filippine ed ha lanciato un attacco navale, aereo e missilistico in Somalia, oltre ad assistere all'invasione della nazione da parte dell'Etiopia nel 2006. Inoltre Washington ha armato, addestrato e sostenuto le forse armate di Djibouti nella loro guerra di confine con l'Eritrea. Infatti Djibouti ospita quello che è, fino ad oggi, l'unico impianto militare permante degli U.S.A in Africa, Camp Lemonier, una base navale, sede della Combined Joint Task Force - Horn of Africa, CJTF-HOA, collocata al di sotto del nuovo comando militare statunitense in Africa, l' AFRICOM, dal momento della sua nascita, il 1° ottobre 2008. L'area di cui è responsabile la Combined Joint Task Force- Horn of Africa copre Djibouti, l' Etiopia, l' Eritrea, il Kenya, le Seychelles, la Somalia, il Sudan, la Tanzania, l' Uganda, lo Yemen e, come "aree di influenza" le Comore, le Mauritius e il Madagascar.

Ciò vuol dire la maggior parte delle coste occidentali del Mare Arabico e dell' Oceano Indiano, tra le aree geografiche strategiche più importanti del mondo.

Truppe degli U.S.A, aerial drones [n.d.t.: veicoli aerei senza pilota dotati di telecamere e/o missili], navi da guerra, aerei ed elicotteri sono in azione in tutto questo vasto tratto di terra e di acqua.

Dopo la minaccia del senatore (e una volta quasi vice-presidente) Joseph Lieberman che lo scorso 27 Dicembre ha dichiarato che "Lo Yemen sarà la nostra prossima guerra" e in seguito alla precedente dichiarazione del capo del Comando Sud e comandante generale delle forze militari N.A.T.O. in Europa, Wesley Clark, che due giorni prima ha sostenuto che " Forse dovremmo mettere piede lì giù", è evidente che la nuova guerra degli Stati Uniti per il nuovo anno è già stata scelta. Infatti a metà dello scorso dicembre, gli aerei da guerra degli U.S.A hanno partecipato al bombardamento di un villaggio nel nord dello Yemen che è costato la vita a 120 civili e ne ha feriti altri 44, mentre la settimana successiva un jet da combattimento ha realizzato numerose incursioni aere sulla casa di un ufficiale superiore della provincia di Sa'ada, nel nord dello Yemen.

Il pretesto per intraprendere realmente una guerra nello Yemen è attualmente il tragicomico "tentato attacco terroristico" di un giovane nigeriano su un aereo diretto a Detroit il giorno di natale. Il bombardamento mortale degli U.S.A nel villaggio dello Yemen appena citato si è verificato dieci giorni prima e inoltre è avvenuto nel nord della nazione, anche se Washington sostiene che le cellule di al-Qaeda operano dall'altra parte del Paese.

L'Africa, l'Asia e il Medio oriente non sono gli unici campi di battaglia in cui gli Stati Uniti sono attivi. Il 30 ottobre del 2009 gli Stati Uniti hanno fimato un accordo con la Colombia per acquisire l'uso sostanzialmente privo di limiti e di restrizioni di sette nuove basi militari nella nazione sudamericana, incluse alcune postazioni nelle immediate vicinanze sia dal Venezuela che dall'Ecuador. L'intelligence statunitense, le forze speciali e altro personale saranno coinvolti in operazioni già in corso per reprimere le insurrezioni e dirette contro le Forze Rivoluzionarie della Colombia (FARC) nel sud del Paese, e saranno impegnati nel sostenere la delega colombiana a Washington per attacchi in Ecuador e in Venezuela, che saranno delineati per essere diretti contro i membri delle FARC nei due stati.

Prendendo come obiettivo due nazioni fondamentali e in sostanza l'intera Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), Washington sta preparando il terreno per un potenziale conflitto militare in Sud e Centro America e nei Caraibi. Dopo il sostegno statunitense al colpo di stato in Honduras il 28 giungno, questa nazione ha annunciato che sarà il primo stato membro dell'ALBA ad uscire dall'Alleanza e il Pentagono manterrà, e forse amplierà, la sua presenza militare alla base aerea di Soto Cano in Honduras.

Un paio di giorni fa il governo colombiano ha annunciato la costruzione in corso di una nuova base militare al confine con il Venezuala e l'attivazione di sei nuovi battaglioni aerei, e poco dopo un membro olandese del parlamento, Harry van Bommel, ha dichiarato che gli arei-spia degli U.S.A. stanno usufruendo di una base aerea in un'isola delle Antille olandesi, Curaçao, presso la costa venezuelana.

In Ottobre, una pubblicazione delle forze armate statunitensi ha rivelato che il Pentagono spenderà 110 milioni di dollari per modernizzare ed espandere sette nuove basi militari in Bulgaria e in Romania, dall'altra parte del Mar Nero a partire dalla Russia, dove verranno stanziati, per i primi contingenti, oltre 4.000 soldati.

All'inizio di dicembre gli Stati Uniti hanno siglato lo “Status of Forces Agreement” (SOFA) con la Polonia, che confina con il territorio russo di Kaliningrad, che permette all'esercito statunitense di stanziare soldati ed equipaggiamenti militari sul territorio polacco. Le forze militari statunitensi si serviranno di Patriot Advanced Capability-3 (PAC-3) e standard Missile 3 (SM-3), che fanno parte del sistema globale del Pentagono per intercettare i missili.

Più o meno nello stesso momento il presidente Obama ha fatto pressioni sul primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan per installare nel suo Paese le componenti di uno scudo misilistico. "Abbiamo discusso il ruolo costante che possiamo giocare come forze alleate N.A.T.O. nel rafforzare il profilo della Turchia nella N.A.T.O. e nel coordinarsi in maniera più efficacie riguardo a punti critici come la difesa dai missili" secondo le parole del leader americano.

Il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha fatto intendere che il suo governo non considera Tehran come una minaccia missilistica per la Turchia in questo momento. Ma gli analisti sostengono che se verrà realizzato uno scudo missilistico comune N.A.T.O., una mossa del genere potrebbe costringere Ankara a entrare in questo sistema.

Il 2010 vedrà il primo dispiegamento di truppe straniere in Polonia dopo la rottura del patto di Varsavia nel 1991 e l'installazione dei "più efficaci, più rapidi e più moderni" (secondo le parole di Obama) mezzi di intercettazione dei missili e strumenti radar nell'Europa dell'Est, nel Medio Oriente e nel sud del Caucaso.

La forza militare U.S.A in Afghanistan, sito della guerra più lunga e su più vasta scala di tutto il mondo, raggiungerà le 100.000 unità all'inizio del 2010 e con altri 50.000 soldati in più di altre nazioni della N.A.T.O. e vari "vassalli e tributari" (Zbigniew Brzezinski) rappresenterà il più vasto dispiegamento militare in ogni zona di guerra del mondo.

I missili drone statunitensi e della N.A..T.O. e gli attacchi degli elicotteri d'assalto in Pakistan aumenteranno, così come le operazioni per reprimere le insurrezioni nelle Filippine e in Somalia, insieme a quelle nello Yemen, dove la CIA e le forze speciali dell'esercito sono già scese in campo.

Il sito dell'esercito statunitense ha annunciato recentemente che ci sono stati 3.3 milioni di schieramenti in in Afghanistan e in Iraq dal 2001 con due milioni di soldati degli U.S.A. inviati nelle due zone di guerra.

In questo nuovo millennio ancora agli esordi, i soldati americani sono già stati inviati in centinaia di migliaia di nuove basi e in zone di guerra in corso o già conclusa, in Albania, Bosnia, Bulgaria, Colombia, Djibouti, Georgia, Israele, Giordania, Kosovo, Kuwait, Kyrgyzstan, Macedonia, Mali, Filippine, Romania, Uganda e Uzbekistan.

Nel 2010 saranno inviati soldati all'estero in numero ancora più elevato per presidiare basi aeree e siti missilistici, supervisionare e partecipare ad operazioni di contenimento delle insurrezioni nel mondo contro i più disparati gruppi ribelli, alcuni dei quali secolari, e lanciare azioni militari in Sud Asia e altrove. Saranno collocati su navi da guerra e sottomarini, equipaggiati con missili Cruise, con missili nucleari di largo raggio e con squadre di portaerei sui mari e gli oceani del mondo.

Costruiranno ed amplieranno le loro basi, dall'Europa all'Asia centrale e meridionale, dall'Africa al Sud America, dal Medio Oriente all' Oceania. Ad eccezione di Guam e di Vicenza in Italia, dove il Pentagono sta enormemente ampliando gli impianti esistenti, tutte le strutture in questione si trovano in nazioni e in regioni del mondo dove l'esercito statunitense non era mai stato così comodamente sistemato. Praticamenti tutti i nuovi accampamenti diventeranno basi utilizzate per operazioni di "bassa portata", in genere nell'est e nel sud dell'Europa, dominata dalla N.A.T.O.

Il personale dell'esercito statunitense sarà assegnato al nuovo Global Strike Command e destinato ad aumentare il controllo e le azioni di guerra nel Circolo Artico. Saranno al comando della Missile Defense Agency per consolidare una rete mondiale per intercettare i missili, che faciliterà la possibilità di un primo attacco nucleare, ed estenderanno questo sistema nello spazio, la frontiera finale della corsa alla conquista del dominio militare assoluto.

I soldati statunitensi continueranno a diffondersi in tutto il mondo. Ovunque, tranne ai confini della loro nazione.
di Rick Rozoff

11 gennaio 2010

A che serve risparmiare?

Per secoli "`risparmiare"' ha voluto significare "`accantonare, mettere da parte"' in previsione di spese future importanti o impreviste. Il risparmio permette di pianificare, progettare e migliorare le prospettive di vita e lavoro delle generazioni presenti e future; basti pensare al padre che rinuncia ai consumi presenti per garantire al figlio la possibilità creare una propria impresa o di accedere a master di specializzazione.

Quello che invece è accaduto negli ultimi venti anni è un totale stravolgimento del concetto di risparmio, operato dall'economia del Pil.

Per sostenere la fantascientifica, costante e inarrestabile crescita del Pil, si è pensato di sostenere in modo altrettanto fantascientifico il livello dei consumi. D'altronde si insegna anche nelle università che aumentando i consumi aumenta la produzione, si generano più posti di lavoro, quindi più stipendi da spendere in consumi e di nuovo più produzione (anche l'assiduo frequentatore del bar dello sport è in grado di fare questo ragionamento). L'effetto sul Pil (cioè sulla produzione di beni) è moltiplicativo. L'esponenziale produzione di rifiuti generata da questo processa produrrà altro Pil visto che occuperà manodopera e imprese che altrimenti non sarebbero esistite. Dal momento stesso in cui il reddito delle famiglie si è rivelato non sufficiente al sostenimento del livello desiderato dei consumi, si è pensato di aumentarlo virtualmente attraverso la concessione illimitata di credito al consumo. Questo ha permesso la nascita di un numero smisurato di finanziarie (quelle che fanno credito anche ai cattivi pagatori privi di reddito) e la realizzazione di sogni a tutti coloro che fino a quel momento si vedevano preclusa la possibilità di acquistare un SUV 5000 a benzina o di vivere una vacanza di sette giorni nel paradiso dei pedofili in Thailandia.

Il paradosso di tutto questo processo, considerato virtuoso dagli economisti, non sta tanto nelle esternalità negative prodotte (si pensi all'inquinamento o alla possibilità di impiegare il denaro speso in attività più fruttuose come imparare a suonare un strumento musicale) ma nel fatto che il consumatore, pur avendo speso tutto il suo reddito presente e quello futuro dei suoi figli in merci di consumo (si badi che parlo di merci e non di beni), ha la percezione di aver risparmiato.

Frasi del tipo "`grazie alla rottamazione ho acquistato una nuova autovettura risparmiando 2000 euro"', senza considerare il fatto che l'auto rottamata poteva durare ancora per parecchi anni o "`il negozio X faceva gli sconti, così ne ho approfittato acquistando un set da poker con fiches numerate, 6 bicchieri (made in China), una bilancia digitale e una tenda da campeggio, risparmiando ben 100 euro", non curante del fatto che a poker non ci gioca mai, di bicchieri ne ha piena la credenza, di bilancia ne possiede una meccanica perfettamente funzionante che non ha bisogno di pile e infine l'ultima volta che è andato in campeggio aveva 18 anni (ora ne ha 40). In entrambi gli esempi il consumatore è convinto di aver risparmiato, pur avendo speso denaro per merci del tutto inutili.

E' questo il geniale incantesimo dell'economia del Pil: illudere il consumatore che sta risparmiando, anche nel momento in cui sta ipotecando il futuro dei propri figli acquistando un'auto grande come un Tir, rigorosamente con lettore MP3 integrato (pagato qualche centinaio di euro – si rende noto che i lettori MP3 [certo, non integrati] costano poche decine di euro.)

I consumi, così, rimangono alti ma alle strette dipendenze del sistema finanziario. Se questo crolla crollano inevitabilmente anche i consumi. E' con la crisi finanziaria che il consumatore si accorge che è un poveraccio e che al massimo poteva permettersi un televisore mivar bianco e nero piuttosto che il 100 pollici al plasma (pagabile in 100 comode rate da 20 euro al mese).

A quel punto ci si accorge che non si ha niente da parte e che i libri scolastici dei figli, così come l'iscrizione all'università, costano troppo; che si è preferito un lavoro privo di qualunque prospettiva di crescita e gratificazione perchè permetteva da subito un guadagno basso ma sicuro che dava la possibilità di ottenere credito per acquistare l'auto, il pc portatile e altre merci il cui acquisto poteva (ma ce ne accorgiamo solo ora) essere rinviato al futuro.

Se tutti i consumatori si accorgessero del raggiro cui sono stati vittime sarebbe comunque un buon risultato e da lì si potrebbe ripartire per riformulare un nuovo paradigma dei consumi che abbia come elemento centrale i beni e non le merci. Purtroppo il cambio di mentalità, reso possibile anche dal fondamentale ruolo svolto dalla televisione e dai media in generale, è stato così devastante che oggi, in piena crisi finanziaria, il consumatore cerca in tutti i modi di conservare lo standard di consumi acquisito senza considerare minimamente la possibilità di rivedere tale standard al ribasso, magari acquistando beni di cui ha bisogno e non merci che divorano il suo reddito. Piuttosto che non acquistare aspetta i saldi e quando non ce la fa più entra in uno stato di profonda frustrazione che lo porta a imprecare contro politici e calciatori (che prendono troppo) o contro datore di lavoro e sindacati che non fanno nulla per aumentargli lo stipendio.

Con dei semplici calcoli si accorgerebbe di avere ancora potenzialità di risparmio reale senza intaccare minimamente (anzi migliorando) la qualità della sua mediocre esistenza, pur continuando a pagare la rata del mutuo. Basterebbe che smettesse di riempire il carrello di imballaggi colorati, limitando gli acquisti a beni necessari e genuini, magari facendosi un giretto nei negozi del centro o nelle aziende agricole vicine alla propria città, piuttosto che perdersi negli enormi lager commerciali che infestano le periferie dei centri abitati; in questo modo produrrebbe anche meno rifiuti. Con questa semplice mossa si ritroverebbe alla fine dell'anno con un primo gruzzoletto al quale potrebbero aggiungersene altri se evitasse di comprare continuamente merci tecnologiche come telefonini, telecamere, frullatori, aspirabriciole ecc.. limitandosi ad usare il più possibile quelli che già possiede. Ulteriori risparmi deriverebbero dalla rinuncia al telefono fisso e alla televisione a pagamento (altro cancro che ormai ha diffuso le sue metastasi presso tutti i ceti sociali).

Qualora fosse possibile, sarebbe opportuno autoprodursi quei beni che fino a pochi anni fa ogni famiglia era in grado di fabbricarsi da sola: pane, passata di pomodoro, olio, dolci. L'economia del Pil, infatti, rendendo accessibili merci a chiunque ha reso del tutto inutile la conservazione di conoscenze e abilità che nei secoli hanno permesso il sostentamento a famiglie numerosissime prive di reddito monetario.

Tutto quello di cui abbiamo bisogno lo si può comprare, dal divertimento dei figli al broccolo fluorescente. Perchè autoprodurselo? Il motivo principale sarebbe che l'autoproduzione permetterebbe di ricominciare a risparmiare, ma nel vero senso della parola, una buona parte del reddito monetario.

Insomma, ritornare a risparmiare come facevano i nostri nonni.

La fine del risparmio ha già prodotto effetti devastanti sulle capacità dei giovani di progettare la propria vita futura, di fare programmi a lungo termine. Il bisogno di consumo ha preso il sopravvento sull'abilità del giovane di pensare e costruire il proprio avvenire. Non ritengo che la perdita di speranza dei giovani sia imputabile (almeno non totalmente) alla precarizzazione del lavoro; tale precarizzazione ha semplicemente reso più problematica la possibilità di mantenere alto il livello del consumo di merci; da un certo punto di vista è un bene che lavori come "`centralinista di call-center"' siano principalmente con contratti a termine in quanto è impensabile che un essere umano possa tutta la vita svolgere quel tipo di lavoro, senza prospettive di crescita umana e intellettuale. Il problema è che molti giovani, non avendo in testa l'idea di risparmio, preferiscono questo lavoro che permette loro di consumare merci (al resto ci pensano mamma e papà) invece che risparmiare tempo e denaro per l'acquisizione di conoscenze e abilità che garantirebbero l'accesso (ma in futuro) a lavori più gratificanti.

Ecco quindi che un centralinista part-time che prende 800 euro al mese e che vive con i genitori, può ancora permettersi l'acquisto (a rate) di una moto e di un'auto, di fare vacanze in luoghi esotici, di aggiornare con cadenza mensile l'hardware del proprio pc e di acquistare settimanalmente abbigliamento griffato. In realtà questo consumatore, perdendo l'abilità al risparmio, ha barattato il proprio avvenire con la possibilità di consumi immediati; vive nell'illusione di aver risparmiato pur non avendo un centesimo in tasca.

di Luca Correani

10 gennaio 2010

Luttwak al soldo del Sismi


Caro Edward". Si apre così una lettera di Pio Pompa al consulente americano dei servizi segreti. Ma l’autore della missiva, l’ex funzionario del servizio segreto militare Pio Pompa, avrebbe fatto meglio a iniziare con un "Carissimo" vista l’entità dei compensi strappati ai contribuenti italiani da questo professore nato in Romania, passato da Palermo e cresciuto tra Londra e gli Stati Uniti a cornflakes e intelligence.

Luttwak è famoso per le sue comparsate a Porta a Porta, dove con l’accento da telecronista di football americano imitato perfettamente da Corrado Guzzanti rifila ai telespettatori concetti indigesti sulla guerra necessaria e sui terroristi da sterminare. Dalle carte sequestrate nel "covo del Sismi" di via Nazionale diretto da Pio Pompa si scopre che per le sue analisi Luttwak è stato retribuito profumatamente dal Sismi diretto da Nicolò Pollari, attraverso la Apri Spa di Luciano Monti.

Nella sua lettera, che dovrebbe risalire al settembre 2002, Pompa propone al "caro Edward" un contratto da nababbo: "a) impegno minimo di dieci giornate al mese per un importo di 5 mila euro al giorno, spese escluse, pari a complessive 50 mila euro al mese; b) la collaborazione avrà la durata di 12 mesi, a far data dalla sottoscrizione del contratto, per un importo annuale di 600 mila euro; c) le spese attinenti le attività da svolgere, debitamente concordate, saranno rimborsate a parte dietro presentazione della relativa documentazione".

Luttwak ha raccontato in un’intervista a Claudio Gatti del Sole 24 ore nel novembre del 2008: "Lavoravo con Pompa per Apri e Apri lavorava per il Sismi". A leggere le mail sequestrate a Pompa però si coglie un esempio negativo delle ricadute del rapporto Luttwak-Sismi sulla manipolazione dei media. Tutto si svolge nelle ore immediatamente seguenti la strage di Nassirya del 12 novembre 2003. Muoiono 28 persone, 18 italiani. L’Italia è scossa e e si raccoglie intorno al salotto di Vespa. Luttwak è invitato insieme a Franco Frattini, allora ministro degli Esteri.

L’illustre politologo indipendente (in realtà strapagato dal Sismi e quindi dal Governo) si esibisce in questo numero acrobatico per connettere Al Qaeda alla sinistra antagonista. Ecco quello che milioni di italiani hanno sentito quella sera.

Luttwak: "Un amico qui a Roma che ha un figlio che guarda internet ha fatto presente che ci sono siti italiani fatti da italiani che parlano di resistenza e aizzano attacchi contro la coalizione. Ci sono Nuovimondimedia.it , Informationguerrilla.org . Questi dicono 'andate in Iraq, lottate, uccidete la coalizione e gli italiani'".
Vespa frena: "Luttwak, abbiamo cliccato non è venuto niente e lei, Frattini, che fa conferma?". Il ministro accende lo sguardo accigliato da busto marmoreo: "C'erano certo".

Vespa: "C'erano?".

Frattini: "Ma li hanno cancellati, sono scomparsi".

Vespa: “No, scusi eh, prima che li cancellassero esistevano? Lei testimonia che esistevano?".

Frattini: "Non li ho guardati ma noi sapevamo che esistevano".

Leggendo le mail sequestrate si capisce chi è la fonte che ha spinto il politologo a dire la balla spaziale. Pompa scrive a Luttwak: "Come richiesto ti invio i contenuti dei siti web riguardanti la tua presenza a Porta a Porta". Così l’amico americano scopre che l’associazione Nuovimondi annuncia querela. Luttwak è terrorizzato: il 20 e poi il 23 novembre scrive ossessivamente a quella che sembra essere la sua fonte: "Visto querela dai siti gradirei copie loro pagine offensive".

Purtroppo per lui quelle pagine non esistono. Il 24 novembre torna alla carica: "est possibile recuperare le loro pagine aggressive prima di Nassirya?". Da Pompa arriva solo un link su Osama che non c’entra nulla. Luttwak insiste il 26 novembre: "Ho bisogno dei testi precedenti dei siti, cioé quando celebravano la resistenza".Antonio Imparato di Nuovimondi racconta: "Abbiamo fatto querela perché era un fatto totalmente inventato ed era particolarmente grave perché pubblicizzato sull’onda emotiva dell’attentato di Nassirya. Non so come è finita".

È interessante il ruolo di Apri. Questa società di consulenza ha fatturato 2,8 milioni di euro nel 2008 ed è diretta da Luciano Monti, in quel periodo presidente di Assoconsult, aderente a Confindustria. Pompa vanta con Apri un rapporto di ferro. La sua fidatissima segretaria trentenne, che poi sarà assunta al Sismi, è stata una dipendente Apri e ha raccontato che Pompa stesso aveva una stanza nella sede Apri di Piazza Esedra.

A leggere il carteggio tra Pompa e Luttwak, Apri funzionava come una cassa dei servizi per i consulenti.

In un appunto di Pompa, sequestrato dalla Digos, si legge l’elenco delle attività svolte da Apri. In particolare nell’appunto di Pompa si cita il think tank composto oltre che dal politologo americano e dai dirigenti di Apri Monti e Orvieto, da altri esperti vicini al Governo come il generale Carlo Jean e il commercialista Enrico Vitali, partner dello studio tributario fondato da Giulio Tremonti.

Il report descrive 15 incontri sui seguenti temi: emergenza nazionale, flussi migratori e finanziari, organizzazioni islamiche e sviluppi del settore aerospaziale. A differenza degli informatori come il giornalista Renato Farina pagati direttamente dalla "Casa" (come dimostrano le ricevute sopra pubblicate e controfirmate con il nome in codice "Betulla"), i consulenti prestavano la loro opera a Apri.

A un certo punto però il giocattolo si rompe. Pompa segnala a Pollari nel 2003: "L’assoluta non veridicità, come dimostrato dalla quasi totale assenza di prodotti a supporto, delle giornate lavorative imputate al capoprogetto, prof. Luciano Monti e al suo collaboratore dott. Piero Orvieto, rispettivamente n. 41 e 50 giornate che sarebbero state effettuate nel bimestre novembre-dicembre 2002 per un importo complessivo di 131.495 euro".

Per Pompa, Apri chiede 2 milioni di euro perché interpreta a modo suo la convenzione del 2002. Ma il Sismi non vuole pagare tanto. A cascata Apri blocca i pagamenti a Luttwak che fa causa e tempesta Monti e Pompa di mail sempre più dure. Alla fine Pompa gli propone di chiudere accettando "solo" 142 mila euro, "a cui vanno aggiunte quelle non ancora pagate da Monti". Chissà se il “Caro Edward” ha accettato.
by Marco Lillo

Recessione: diminuiscono i crimini


Con la recessione aumentano (negli Stati Uniti e altrove) poveri e disoccupati, ma crollano i crimini. Con grandissimo stupore di criminologi e sociologi che fin dai primi licenziamenti del 2008 avevano previsto il contrario. In realtà, negli Usa, con più di 7 milioni di posti di lavoro persi, il livello di criminalità è arrivato al punto più basso da cinquant’anni.
Il Wall Street Journal ha dedicato all’evento una pagina, decretando la morte di una delle teorie sociologiche più diffuse, che spiega come la causa della criminalità siano l’ineguaglianza dei redditi e la povertà. È accaduto invece che ineguaglianze e livelli di povertà sono aumentati, e i crimini diminuiti. Come mai?
Perché la teoria: povertà uguale criminalità, era sbagliata, e, a dire il vero, lo si sapeva da un pezzo. Influenzata dalla sociologia radicale americana di Wright Mills e Vance Packard, con scorie della Scuola di Francoforte portate da Herbert Marcuse, accusava il capitalismo di creare nuove sacche di povertà a vantaggio degli eletti, e di spingere i diseredati al crimine come unico modo di affermare se stessi, oltre che di sopravvivere.
Invece, e non solo in questa crisi ma anche nelle precedenti, i dati oggettivi hanno dimostrato il contrario.
Il fatto è che anche il crimine costa, cresce in una situazione dove ci sono liquidità ed energie. Lo aveva perfettamente dimostrato il grande sociologo francese Gaston Bouthoul fin dagli anni ’50 del secolo scorso, studiando la guerra, e demolendo in quel caso la vecchia (ma ancora circolante da noi) teoria che le guerre siano fatte dai poveri, spinti a ciò dai bisogni più elementari, loro negati dalle economie dei Paesi ricchi e dall’ineguaglianza internazionale.
Bouthoul dimostrò in modo inoppugnabile che le guerre erano sempre nate da un accumulo di energie dei Paesi ricchi, che le investivano (gettandole via, ripetendo il rito romano della sparsio, i doni gettati al trionfo del vincitore) in conflitti di natura ideale, politica, religiosa, ma che nella maggior parte dei casi rappresentavano, anche per loro, un’autentica distruzione di ricchezza.
Non solo però per muovere guerra, ma anche per delinquere, ci vogliono soldi, energie. Un tipo come Bernie Madoff, che si fece dare miliardi di dollari da una folla di plutocrati, intascandoseli, è certo l’icona del criminale affluente, pre-recessione. Ma anche le bande di rapinatori hanno bisogno di un retroterra solido: luoghi che ti ospitino, organizzazioni che finanzino, coprano, acquistino armi, automobili, quel che serve.
Il crimine (come mi raccontava Alberto dall’Ora, uno dei più grandi penalisti italiani), è soprattutto un’attività industriale, finalizzata alla moltiplicazione della ricchezza dei suoi partecipanti. Se la ricchezza si contrae, anche l’azienda-crimine riduce le attività.
Anche il terrorismo internazionale, che costa un mucchio di soldi, ha potuto svilupparsi quando i Paesi che lo ispirano hanno cominciato a disporre di ingenti capitali, tanto da poterli buttar via. Quando non c’erano i petrodollari il terrorismo era affidato a qualche anarchico, che in genere pagava di tasca sua singoli attentati a sfortunati sovrani, recandosi in terza classe sul luogo del delitto.
E i poveri, allora? I poveri non c’entrarono mai nulla, con l’incremento del crimine. Solo le fantasie negative sviluppate sui poveri dagli intellettuali ricchi (promotori di queste sociologie), condite dai loro sensi di colpa, li hanno convinti che se un operaio perde il lavoro, diventa un bandito.
La morale delle classi meno favorite ha basi più solide, e abitudini alle privazioni più consolidate, della paura della povertà di un professore che ha studiato nelle migliori università americane.
Certo, i poveri cercano di diventare ricchi, ma raramente perdono la testa quando devono fare un passo indietro, in una condizione già nota, e di cui riconoscono la dignità (in genere sconosciuta all’intellettuale radical-borghese che la filtra attraverso i propri sensi di colpa).
Si sa da tempo: il popolo è più onesto e più coraggioso dei suoi paladini.
di Claudio Risé

09 gennaio 2010

Ma Alitalia ? Tutto bene?


Nelle ultime (e purtroppo quasi finite) settimane di ferie , ho letto molta piu’ stampa italiana del solito, e ho notato una catastrofica tendenza al leccaggio del culo da parte dei giornali dei “Salotti buoni” della finanza italiana. Mi referisco al Corriere della Serva e alla Sepubblica.

Per prima cosa vi faccio una domanda: come va, oggi Alitalia? Ritardi? Malfunzionamenti? Scioperi? Gente ferma in aereporto? Ovviamente non vi chiedo di dirmi se qualcuno di voi era dentro un aereo di Alitalia e ha avuto dei problemi. Sarebbe una risposta scontata. No, quello che vi chiedo e’ come sia, giornali alla mano, il servizio Alitalia oggi.

La risposta e’ che ne avete sentito parlare poco, pochissimo.

Cosi’ vi faccio un’altra domanda: nell’ondata di maltempo che ha colpito il paese, come e’ uscita Alitalia? Ritardi? Voli annullati? Bagagli persi? Passeggeri bivaccati negli aereoporti? Ancora una volta, non voglio sapere se sia toccato a voi, ma semplicemente che cosa hanno riportato i giornali. Poco, molto poco. Molto meno di come si siano accaniti sui treni.

Nulla. Alitalia si e’ trasformata in una gioiosa macchina da guerra, da quando e’ stata rilevata dai Salotti Buoni della Finanza Italiana®. O almeno, a quanto dicono i giornali maintstream italiani. Che sono proprieta’… dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®.(1)

Andiamo avanti. Le autostrade. Ora, c’e’ stato un periodo di maltempo negli ultimi giorni. Di solito, quel che succede e’ che le autostrade italiane, o meglio le autobuche italiane , in questi casi sono nella merda sino al collo. Ci sono inevitabilmente code, gente in auto per il ponte di natale che viene bloccata. Anzi, di solito i grandi periodi di natale sono gia’ forieri di guai senza il maltempo. Figuriamoci col maltempo.

Invece no: sono crollate alcune statali in liguria, ci sono stati problemi sui passi alpini, ma le autostrade no. Le autostrade italiane, contrariamente agli altri anni, sono diventate un mostro di efficienza antineve, capaci di sgomberare in tempo reale le buche le strade , di soccorrere in elicottero ogni singolo viaggiatore in difficolta’.

Al contrario, stiamo assistento al presunto botto dell’ AV. Apprendiamo che il buon Guariniello abbia aperto un’inchiesta, nella quale avrebbe stabilito che il 70% dei treni TAV sia in ritardo. (2) Il problema non sta nell’enormita’ del dato (il procuratore, furbo, ha selezionato 420 treni. A 110 treni AV al giorno, ha selezionato 3 giorni e rotti. In pratica , un momento di picco dei problemi dovuti al maltempo, allo scopo di drogare il dato) , quanto il fatto che un tizio abbia deciso di aprire un’inchiesta e prendere delle statistiche sui ritardi: in ultima analisi, qual’e’ il problema penale?

Il ritardo e’ seccante, in sede giuridica puo’ essere un problema di diritto civile, ma non e’ un reato, come lo stesso procuratore Guariniello ammette. Ora, la domanda e’: ma perche’ questo tizio sta spendendo dei soldi del contribuente solo allo scopo di dare notizie negative e viziate ai giornali dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®? Onestamente, io porterei il caso alla corte dei conti, perche’ non si capisce a quale titolo qusto signore sia intervenuto: e’ vero che c’e’ stato un esposto sui ritardi , ma di certo fare statistiche su tre giorni di ritardi non dimostra nulla, visto che non si tratta neppure di una vera stima, visto il campione.

Il vero problema e’ la distribuzione del capitale in gioco. Trenitalia, coi suoi 110 treni al giorno, sta muovendo 110.000 persone al giorno da Napoli a Torino. Questo infligge un colpo molto duro sia al traffico delle autobuche autostrade italiane, sia ad Alitalia , che si vede togliere traffico alla sua tratta di maggiore monopolio resa.

Ci sono quindi due grandi schieramenti in gioco: da un lato i Salotti Buoni della Finanza Italiana®, che possiedono quote importanti sia di autobuche autostrade Spa, e che si sono messi in gioco con Alitalia al fine di somministrarle il famoso trattamento De Benedetti(3) , la cui capacita’ di movimento di idioti va dai verdi alle cosiddette associazioni di consumatori, e dall’altro un’azienda come Trenitalia, che ha la sfortuna di non aver ancora subito il Trattamento De Benedetti a beneficio dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®.

Cosi’, in questi giorni ne succedono di tutti i colori: e’ sembrato che l’ Italia sia stata l’unica nazione coi treni fermi, quando si sono fermati anche in Germania e Francia, si e’ parlato di un fantomatico treno tedesco che da solo risolverebbe tutti i problemi dei viaggiatori se ci fosse nei tabelloni (4), abbiamo visto magistrati spendere soldi del consumatore per fare statistiche su fenomeni (i ritardi) che non sono dei crimini, e chi piu’ ne ha e piu’ ne metta.

La realta’ e’ contenuta nel rapporto di Guariniello: su un campione di 420 treni preso mentre ne girano 110 al giorno, cioe’ per i tre giorni di maltempo, il 70% dei treni erano in ritardo, la maggior parte di quindici minuti.

Ora, se nella mia esperienza di volo io considerassi i quindici minuti di ritardo degli aerei, non si salverebbe neanche l’Air Force One. Tralasciando la folla di idioti che porta in aereo anche la gabbia del polli e fa perdere tempo alle hostess nel tentativo di sistemare la loro cabina del telefono preferita nel vano bagagli, fino ai ritardi nello scarico di valigie, per non parlare del fatto che una coincidenza tra due aerei implica un intervallo “di sicurezza” di almeno un’ora .

Niente: di tutto questo non c’e’ nulla; nemmeno in seguito ai nuovi controlli di sicurezza seguiti al non attentato terroristico, (5) qualche giornale dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® ha osato menzionare che questo avrebbe portato ritardi e code ai check-in. Invece, so benissimo che il prossimo lunedi’ sara’ meglio che mi presenti con DUE ore di anticipo , visto che avranno regolato i sensori cosi’ duramente che la mia emoglobina fara’ scattare i rilevatori di metallo: “prego, puo’ mettere i suoi globuli rossi sul nastro”?

Insomma, per decreto dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® , Alitalia e Autostrade si sono trasformate in una gioiosa macchina da guerra di geometrica potenza. Nemmeno in caso di maltempo i prodi piloti di Alitalia si fermano, e se un aereo di Alitalia si schiantasse su un palazzo, sono certo che il Corriere titolerebbe “Alitalia, atterraggio record.I piloti riescono ad atterrare su un balcone: in paradiso tutti i passeggeri.Gratis.”, mentre Repubblica scriverebbe “Berlusconi costruisce un palazzo per fermare Alitalia. I piloti “andiamo avanti”. Di Pietro direbbe “Berlusconi ha fatto cadere un aereo per non farsi processare“, e cosi’ via.

Sembra che nemmeno il senso del ridicolo fermi questi giornali, ma la cosa che mi lascia veramente perplesso sono i blogger. Essi stanno amplificando semplicemente la voce dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®, spinti da quella voglia di parlare contro che non si rendono conto di stare venendo aizzati contro Trenitalia, colpevole di essere un’azienda non ancora DeBenedettizzata , e di far concorrenza alle aziende Debenedettizzate come Societa’ Autobuche Autostrade e Alitalia CAI Sarcazzocosa.

Cosi’, oggi il lettore sa che la neve ha bloccato le ferrovie, sa che ha bloccato alcune citta’ -le citta’ non interessano i Salotti Buoni della Finanza Italiana® - ma non sappiamo nulla della performance attuale di Alitalia, ne’ di come si siano comportate le autostrade, visto che tutta l’enfasi e’ stata data alle statali franate e ai fiumi che rischiavano di tracimare.

Sono certo che se invitassi i lettori a scrivere qui i disagi subiti sulle autostrade o sugli aerei di Alitalia otterrei un bagno di sangue, ma i giornali dei Salotti Buoni della Finanza Italiana® preferiscono comportarsi come se l’unica azienda ad avere dei problemi siano stati i treni ad alta velocita’. Perche’ questo preme ai loro padroni: fermare questo stillicidio di 110.000 persone al giorno sottratte ai pedaggi, agli aerei (cioe’ all’inquinamento, ma questo ai verdi dei alotti Buoni della Finanza Italiana® non sembra importare) dei soliti amici degli amici.

E ovviamente, vedrete che prima o poi si proporra’ la cura De Benedetti anche per Trenitalia. Un bel partner straniero che ne rilevi un’altra fetta considerevole, per far contento il partito del Times, una bella demolizione della TAV, per non scontentare i bravi di Giovanni delle Lamiere® che vogliono vedere ancora piu’ auto sulle autostrade, cosa che fa felice anche Toni&Bepi delle Pecore Colorate, e possibilmente permettere un altro colpo gobbo all’ Ingegner Svendita&Disoccupazione.

E tra le grida di squilibrati verdognoli, grillini prepotenti , tardone indignate, consumatori urlanti , si consuma la distruzione dell’unico patrimonio industriale che il paese abbia mai avuto.

In ogni caso, potete avere una mappa dei media che sono parte integrante dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®, semplicemente osservando quanto sparino su Trenitalia, e quanto poco sparino su Alitalia e Societa’ Autostrade, in concomitanza dello stesso fenomeno atmosferico.

E potete anche notare la stupidita’ dei singoli blogger che si accodano allo spara-spara iniziato dai media mainstream, credendo di formare un giornalismo indipendente e critico, e formando invece un corettino mainstream che amplifica quanto detto dai Salotti Buoni della Finanza Italiana®.

Qui non si tratta di difendere o meno Trenitalia. Qui si tratta di notare come i problemi di Alitalia e di Societa’ Autostrade siano scomparsi dai media, ridotti, attenuati. Stiamo parlando di media che tentano di sviare passeggeri di treno su degli aerei dei quali non pubblicano le difficolta’ e le tragedie , su aereoporti bloccati come e piu’ delle ferrovie per il maltempo, su aerei bloccati ancora piu’ dei treni, su autostrade intasate e pericolose.

Il tutto perche’ Trenitalia non ha ancora subito la cura a base di Giustizia, Liberta’, Disoccupazione e Svendita, e la TAV sta dando fastidio ai Salotti Buoni della Finanza Italiana®, ai Giovanni delle Lamiere® , Toni&Bepi delle Pecore Colorate®, ai Colla&ninnenanne della situazione. E i blog che si allineano, troppo allettati dalla falsa idea di fare giornalismo di denuncia, di fare giornalismo contro, senza capire che sparare su Trenitalia significa semplicemente distogliere l’attenzione da due carcasse (finanziarie e tecnologiche) come Alitalia e Autostrade.

By Uriel

(1) I salotti buoni della finanza italiana sono tali perche’ ammanicati coi salotti buoni della politica italiana, of course.

(2) Vista la topologia della rete, e’ semplicemente impossibile, perche’ oltre il 50% di treni in ritardo, tutti i treni vanno in ritardo. Il numero di guasti raggiunge la saturazione ed il blocco della rete intera ben prima del 70%.

(3)De Benedetti, lo pseudoimprenditore italiano, ha un curriculum di tutto rispetto di trasformazione in fuffa finanziarizzazione di aziende, riduzione ai minimi termini e svendita a capitali stranieri. Destino che e’ toccato, con poche eccezioni, a tutto cio’ che lo stato ha “privatizzato” mettendolo nelle mani dei Salotti Buoni della Finanza Italiana®. Per “Trattamento De Benedetti” intendo una manovra che produce disoccupazione, soddisfazione degli azionisti, riduzione delle aziende e successiva vandita sottocosto ad uno straniero. Piu’ che Giustizia e Liberta’, De Benedetti avrebbe dovuto chamare “Disoccupazione e Financial Times” il suo salotto, visto che si tratta degli obiettivi che ha seguito maggiormente. Ringrazio il cielo che Mondadori sia finita a Berlusconi, rimanendo un grande gruppo editoriale italiano: l’avesse presa in mano De Benedetti, oggi Mondadori sarebbe “Amazon Spaghetti”, o giu’ di li: comprata, smantellata e rivenduta a due lire a qualche straniero.

(4) L’esistenza di tale treno, ovviamente, risolverebbe ogni problema possibile della rete ferroviaria. Ovviamente , userebbero binari segreti posati in Italia dalla Wehrmacht., e quindi non risentirebbero dei ritardi della rete ferroviaria. Ah, si’: qualcuno spieghi a questi giornalisti la differenza tra Trenitalia e Rfi , rete ferroviaria italiana. Potrebbero scoprire che le stazioni e la gestione degli orari non siano del tutto una colpa di Trenitalia.

(5) Ormai sembra di essere nel paese delle meraviglie. Li’ si festeggiavano i non-compleanni, qui ci si terrorizza per i non-attentati.

04 gennaio 2010

A che serve la flessibilità?


Chi soffrirà di più e più a lungo per l'implosione di Wall Street del 2008-2009 e per la recessione mondiale che ne è seguita?
Non i banchieri e i finanzieri che hanno causato il disastro. Alcuni finanzieri, come Bernard Madoff, andranno in prigione per truffa. Ma anche se Madoff era solo la punta dell'iceberg del dilagante malcostume finanziario, la maggior parte dei finanzieri sospetti non ha ragione di temere l'arresto, o perché il loro comportamento era semplicemente ai limiti della legalità oppure perché gli illeciti finanziari, più raffinati della truffa vera e propria, spesso sono difficili da provare.

Alcuni direttori di banca se ne andranno in pensione con disonore, ma con una maxiliquidazione che potrà alleviare le loro pene, come la buonuscita da 55 milioni di dollari concessa a Ken Lewis della Bank of America, o come la pensione di 25 milioni di sterline garantita a Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland. Molte banche, incoraggiate dal salvataggio pubblico, dalle garanzie e dai bassi tassi d'interesse, hanno rincominciato a versare colossali gratifiche ai loro top manager e nel frattempo si battono vigorosamente contro l'introduzione di riforme che mirano a imporre limiti ai loro rischi e ai loro sistemi di retribuzione.

I grandi sconfitti di questo disastro economico sono i lavoratori dei paesi ricchi che hanno abbracciato la flessibilità liberista del capitalismo di stampo americano. Dal 2007 all'ottobre 2009, gli Stati Uniti hanno perso quasi otto milioni di posti di lavoro, con un calo della percentuale degli occupati dal 63 al 58,5% della popolazione. Alla fine del 2009, la percentuale dei senza lavoro ha superato il 10% e i disoccupati restano tali più a lungo di tutti i periodi precedenti, dalla Grande Depressione in poi. Milioni di persone si sono viste decurtare l'orario di lavoro, e altri milioni, scoraggiati dalla mancanza di lavoro, hanno rinunciato a cercarlo.
Anche l'Europa economicamente più avanzata, il Canada e il Giappone hanno subìto pesanti cali occupazionali, che persisteranno a lungo. La Spagna, dove sono molto diffusi i contratti a tempo determinato, è quella che ha avuto il maggiore incremento della disoccupazione, perché licenziare un lavoratore in Spagna è facile come in America. Alcuni paesi - ad esempio la Germania, la Svezia e la Corea del Sud hanno "nascosto" la loro disoccupazione pagando le aziende per mantenere i lavoratori sul libro paga. Può funzionare sul breve periodo, ma nel tempo è una soluzione insostenibile.

Dagli anni 80 fino alla metà di questo decennio, ogni volta che c'è stata una ripresa economica l'occupazione è cresciuta più lentamente del Pil, e ogni volta il divario era maggiore. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, la ripresa non portò posti di lavoro, fino al boom di Internet della fine degli anni 90; anche dopo il rallentamento del 2001, con Bush alla Casa Bianca, la ripresa non produsse effetti positivi sull'occupazione.Nei primi anni 90 la Svezia è stata colpita da una pesantissima recessione, provocata dallo scoppio della bolla immobiliare e da una crisi bancaria. Il tasso di disoccupazione salì dall'1,8% del 1990 al 9,6% del 1994, prima di attestarsi intorno al 5% nel 2001. Sedici anni dopo la crisi, il tasso di disoccupazione era al 6,2%, più del triplo rispetto a quello del 1990.

Nel 1997, la Corea del Sud si trovò in difficoltà non solo per la crisi finanziaria asiatica, ma anche per l'insistenterichiesta degli Stati Uniti e dell'Fmi di alzare i tassi d'interesse e introdurre riforme modellate sul "consenso di Washington", in cambio di aiuti. L'occupazione ripartì, ma principalmente sotto forma di posti di lavoro "non regolari", con benefit limitati, bassi salari e poca sicurezza dell'impiego. La disuguaglianza nel paese asiatico, fino ad allora su livelli modesti, crebbe fino a portare Seul al secondo posto (dopo gli Stati Uniti) nella classifica dei paesi dell'Ocse.

La debolezza del mercato del lavoro penalizza gravemente l'economia e il benessere individuale. Quando il mercato del lavoro è debole, i giovani in cerca di prima occupazione e i lavoratori esperti che perdono il posto subiscono perdite economiche che faranno sentire i loro effetti per tutta la vita. Studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della perdita di un congiunto.
È difficile che gli Stati Uniti tornino in tempi brevi alla piena occupazione. Dal 1993 al 1998, l'America ha creato milioni di posti di lavoro, che hanno fatto salire il tasso d'occupazione di 5,4 punti percentuali. Se l'occupazione comincerà a crescere a questo ritmo nel 2010, bisognerà aspettare fino al 2015 prima di tornare ai livelli precedenti alla recessione. E una ripresa lenta negli Usa frenerebbe la ripresa anche negli altri paesi avanzati, penalizzando anche lì l'occupazione.

Un lungo e penoso periodo di disoccupazione alta va nella direzione opposta a quello che quasi tutti gli esperti pensavano sarebbe stato l'esito del modello economico americano, improntato alla flessibilità. Dai primi anni 90 in poi molti analisti hanno valutato che l'America aveva un tasso di disoccupazione più basso di quello della maggior parte dei paesi dell'Ue grazie alla scarsa sindacalizzazione, alla facilità di assunzione, all'assenza di forti garanzie giuridiche contro il licenziamento e al forte ricambio di personale. Molti paesi Ocse hanno introdotto riforme di vario genere nel senso della flessibilità, nella speranza di migliorare la propria economia imitando l'America.La tesi che la flessibilità sia il fattore chiave per l'occupazione non è più sostenibile. Nel suo Employment Outlook del 2009, l'Ocse analizza impietosamente le sue riforme preferite e giunge alla conclusione che non sono sufficienti per consentire a un paese di adeguarsi agli effetti di una recessione trainata dalla finanza. Secondo l'Ocse, «non sembra esserci nessun motivo reale per ritenere che le recenti riforme strutturali abbiano reso il mercato del lavoro dei paesi Ocse significativamente più resistente a gravi flessioni dell'economia».

Quindi l'insegnamento che possiamo trarre dalla recessione è chiaro: l'anello debole del capitalismo non è il mercato del lavoro, ma il mercato finanziario. Le imperfezioni del mercato del lavoro impongono alla società tutt'al più dei costi modesti in termini d'inefficienza, mentre le imperfezioni del mercato finanziario danneggiano pesantemente la società, e chi ci rimette di più sono i lavoratori, non gli artefici del disastro. Inoltre, a causa della globalizzazione il collasso del mercato finanziario americano dissemina miseria in tutto il mondo.

Dobbiamo reinventare la finanza, in modo che lavori per arricchire l'economia reale, invece che arricchire soltanto i finanzieri: lo dobbiamo ai lavoratori vittime di questa recessione. Reinventare la finanzia significa cambiare gli incentivi e le regole che governano il settore finanziario. E dal momento che sono in pericolo anche l'economia e l'occupazione di altri paesi, questi stati hanno il dovere, nei confronti dei loro cittadini, di fare pressione sugli Stati Uniti perché realizzino riforme finanziarie significative.

di Richard Freeman (docente di Economia Harward)

03 gennaio 2010

Le privatizzazioni come arma politica


Nel corso di una recente trasmissione televisiva che accampa, senza vergogna alcuna, pretese di ereticità, il maggiore esponente del maggiore partito dell’opposizione di Sua Maestà incalzava il ministro dell’economia Giulio Tremonti contestandogli svariate circostanze di cattiva gestione delle finanze pubbliche. Il ministro, con uno dei suoi coup de théâtre abituali e incisivi – ma, ahinoi, spesso sconclusionati – fece presente al suo interlocutore e al pubblico che le cause all’origine dei mali contingenti che affliggono l’economia nazionale sono da cercarsi altrove; ebbe inoltre il coraggio (fuor di metafora) di affermare che sarebbe ora di scrivere, in Italia, una storia delle privatizzazioni, di chi le ha fatte e perché, di chi ci ha guadagnato e come. D’improvviso il guareschiano politicante d’opposizione di cui sopra si è ammutolito, ed è dovuto intervenire il conduttore della trasmissione che, non disponendo (forse a causa dei ‘tagli’ alla Rai) di nani, ballerine e giocolieri, si è dovuto accontentare di sviare il discorso con l’ausilio di un attempato vignettista, sovrapponendo alle parole del ministro, con fare circense, un “facciamo entrare Vaurooo!”.

Quanto sopra, al di là della trita e ritrita aneddotica che contraddistingue le grigie figure della politica e dell’informazione nazionali, valga per esemplificare come di privatizzazioni non sia d’uopo finanche parlarne. Non siamo certo ai livelli della religio holocaustica, ma di vero e proprio Verbo privatizzatore – che negli ultimi lustri risuona con forza sempre maggiore - si può e si deve iniziare a parlare, considerate l’intangibilità di cui gode tale teoria socioeconomica e come questa sia ormai considerata parte integrante delle strutture produttive degli Stati o di quello che ne rimane. Tant’è che se il solo parlare di “partecipazioni statali” può far storcere il naso all’illuminato esperto, al lucido economista o al ligio politicante, a parlare addirittura di “nazionalizzazione” e “socializzazione” quasi quasi si viene accompagnati direttamente al patibolo.

E’ un drammatico dato di fatto che la disgregazione dell’economia sociale, la privatizzazione e l’assunzione, da parte di potentati non autoctoni, del controllo delle leve dell’economia e delle risorse delle nazioni siano fenomeni che sono storicamente andati di pari passo con le dinamiche imperiali, coloniali, belliche e prevaricatrici degli Stati Uniti d’America e della loro putrescente appendice, bonariamente definita “Occidente democratico”. Occorre però distinguere, a seconda della fase storica, del collocamento geografico e del contesto internazionale, molteplici modalità attraverso le quali queste dinamiche hanno preso forma, aprendo le porte al controllo imperialista dell’economia degli Stati e strutturandosi in un processo politico conosciuto appunto come privatizzazione. Prendiamo ad esempio, ai fini esemplificativi, tre modelli relativi a tre diversi teatri di guerra economica.

Il modello irakeno. Alla fine di quella che viene impropriamente definita “seconda guerra irachena” (che nella realtà non è stata altro che l’ultima sanguinosa fase di un più che decennale conflitto imposto alla nazione sovrana e socialista dell’Iraq), le strutture dello Stato vennero integralmente soppresse per essere sostituite con delle catene di comando coloniali funzionali alle velleità di completo controllo che gli Stati Uniti manifestarono nei confronti di quel disgraziato Paese. Tale processo fu talmente rapido e radicale che fece sollevare dei dubbi relativi alla sua efficacia persino all’interno dei centri decisionali politico-militari che si erano resi responsabili dell’aggressione e della guerra; non furono infatti pochi quanti – soprattutto tra i militari – lamentarono delle difficoltà nella gestione ordinaria dell’occupazione (ordine pubblico, servizi essenziali) una volta che anche i vigili urbani e i consorzi agrari erano stati aboliti per legge. Tuttavia questa manovra – per quanto considerata azzardata anche dai più insospettabili – permise agli occupanti di incamerare sotto la loro gestione privata la totalità delle ingenti risorse naturali di cui è ricca la nazione irachena, e segnatamente delle risorse petrolifere. Queste risorse, che fintanto che l’Iraq è stato un Paese sovrano erano gestite dallo Stato attraverso il Ministero del Petrolio, finirono quindi nella loro interezza nei rapaci artigli delle compagnie petrolifere internazionali legate agli interessi occidentali e nordamericani, i quali misero in atto il sistematico saccheggio che è ancora in corso. E’ stato quindi, quello iracheno, un caso in cui non si può propriamente parlare di privatizzazione di strutture preesistenti, poiché queste strutture – funzionali, nonostante il rigido embargo internazionale – vennero preventivamente soppresse. L’intera nazione irachena si trovò quindi, perinde ac cadaver, re-integrata in nuove istituzioni politiche ed economiche create ad hoc e nate “già privatizzate” nelle mani delle multinazionali facenti gli interessi degli aggressori.

Il modello jugoslavo. Alla fine della campagna di massicci bombardamenti che per tre mesi martoriò le repubbliche jugoslave di Serbia e Montenegro nella prima metà del 1999, gli aggressori, per quanto fossero riusciti a strappare il Kosovo e Metohija dalla madrepatria con la forza delle armi e con la violenza etnica, erano ben lungi dal poter levare al cielo i loro sordidi canti di vittoria. Nonostante la tanto decantata vittoria militare, infatti, a Belgrado il governo “nemico”, guidato dal presidente Milošević e sostenuto dal Partito Socialista, dalla Sinistra Unita e dal Partito Radicale[1], teneva, e teneva anche bene. Forte, oltre che di un innegabile consenso popolare, di una gestione statale dell’economia e di una mirata prassi socialista di gestione delle risorse, il governo jugoslavo riuscì, nonostante le sanzioni e il conseguente stato di obsolescenza dell’apparato produttivo aggravato da tre mesi di incursioni aeree, a tenere ben salde le redini dello Stato e a garantire ai cittadini gli essenziali servizi che potevano assicurare la più che dignitosa sopravvivenza. Per gli americani e i loro accoliti, quindi, nel cuore dell’Europa restava un ‘buco nero’ che non intendeva piegarsi e che proseguiva nella sua politica di sovranità, indipendenza e vicinanza con la Russia e coi Paesi non –allineati ai dettami di Washington. Quale migliore scenario per non tentare una “rivoluzione colorata”? Detto fatto: allestiscono una accurata e martellante campagna di disinformazione internazionale, addomesticano ulteriormente i mezzi di informazione locali più legati alla prezzolata opposizione, investono qualche milione di dollari, raccattano in giro per l’Europa un po’ di teppaglia da scatenare sulle strade e, a poco più di un anno dal rientro ad Aviano dell’ultimo bombardiere, Milošević cade. Quale è stato il primo organismo istituito dal nuovo governo collaborazionista? Una commissione per il risarcimento delle vittime della dittatura? Un ente per il ripristino della libertà di stampa? Un gruppo di lavoro per l’appianamento delle discriminazioni etniche? Niente di tutto ciò, bensì un’ Agenzia per le privatizzazioni. Le attività di questa agenzia, che ha la responsabilità di aver svenduto il patrimonio di una nazione, erano e sono mirate a permettere l’accaparramento delle più appetibili imprese statali da parte delle solite sanguisughe con la maschera da filantropo. Tutto ciò si è abbattuto come una scure sulla già indebolita economia locale: in Serbia infatti, a causa di una conservazione della prassi giuridica realsocialista, fino al 2000 (cioè quando qui da noi si privatizzavano anche i bottoni della divisa della fanfara dei Carabinieri) erano a partecipazione statale non solo i settori strategici dell’economia, ma appartenevano allo Stato anche i ristoranti e i negozi di abbigliamento. Imprese che, a differenza di quelle appartenenti al settore degli idrocarburi, delle miniere o dei tabacchi, erano di scarso interesse per i grandi investitori internazionali, e finirono quindi o nelle mani di loschi personaggi legati alla criminalità locale o sulla via della liquidazione. I posti di lavoro perduti si contarono a decine di migliaia.

Il modello italiano. Il caso dell’Italia relativamente alle privatizzazioni si configura nei termini di scontro interno all’imperialismo o, come qualcuno potrebbe sostenere, in seno a uno schema mentale marxiano, tra imperialismo primario e imperialismo secondario. La fine del secondo conflitto mondiale, che segnò l’inizio dell’egemonia anglo-statunitense sulla nostra nazione, non fu largamente contraddistinta da un processo di privatizzazione della nostra economia, almeno non nelle modalità descritte nei precedenti casi. Un esempio: i beni mobili e gli ingenti beni immobili che erano appartenuti alla Gioventù Italiana del Littorio furono conferiti alla gestione del Ministero della Pubblica Istruzione. Tuttora sono numerose le scuole e gli istituti che hanno fisicamente sede negli edifici che avevano ospitato le dismesse strutture sociali, educative e sportive dell’organizzazione giovanile fascista. Per svariati decenni le istituzioni repubblicane hanno sono state prosecutrici di una pur timida politica ‘statalista’ che riuscì a conservare, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, una partecipazione della sfera pubblica nella politica economica della nazione, almeno relativamente al settore strategico: comunicazioni, trasporti, energia. Pensiamo inoltre alle politiche abitative, al “Piano Casa” dell’Ina e di Fanfani. Nei primi anni Novanta le centrali decisionali d’oltreoceano stabilirono che tutto ciò era di troppo, che nessuno spazio doveva più essere lasciato alla tutela della sovranità delle nazioni, pur se già ampiamente sottomesse, e che nessuna gestione delle risorse potesse ricusare i diritti di predazione delle imprese private, apolidi, allogene o ‘nazionali’ che siano. Per rendere tutto ciò possibile fu necessario esautorare una classe dirigente che, per quanto in larga parte oltremodo servile, non rispondeva più ai canoni richiesti dal nuovo corso di predazione economica. A tal fine fu organizzata una manovra a tenaglia. Da una parte un ristretto gruppo di rappresentanti del mondo finanziario italiano e internazionale che, con l’incomprensibile benevolenza di Nettuno, incrociando sul Tirreno a bordo del Britannia, stabilirono la svalutazione della lira e la dismissione/svendita del patrimonio industriale dello Stato; dall’altra, una magistratura sapientemente indirizzata e una piazza facilmente sobillata scoprirono che i nostri politicanti sgraffignavano qualche milione dai fondi pubblici[2]. Non solo si era spianata la strada a una nuova classe politica, più ricettiva al nuovo Verbo privatizzatore, ma si era inculcata nel popolo la convinzione che l’intervento dello Stato nell’economia fosse l’origine del male da estirpare. Il resto è storia dei nostri giorni.

I tre modelli citati si differenziano nell’analisi contestuale, ma sono accomunati da varie analogie. Il primo si svolge in un contesto di guerra guerreggiata, e il processo di privatizzazione dell’economia viene esperito come risultato degli eventi bellici, come prezzo stabilito da pagare per la sconfitta. Nel secondo ci troviamo in una cosiddetta “rivoluzione colorata”, in cui il saccheggio viene sbandierato ai quattro venti come scelta economica vincente e viene edulcorato proponendolo come conseguenza di istanze politico-umanitarie. Nel caso italiano la guerra guerreggiata era finita da un pezzo, e di rivoluzione colorata non si può propriamente parlare. C’è chi parla di “guerra occulta”: nascosta nel Palazzo, efficace e incruenta (siamo in Europa occidentale, nel ‘salotto buono’; e il salotto buono non si sporca). Ma che è stata comunque capace di mietere le sue vittime. Le più illustri? Il lavoro, il senso dello Stato, la libertà di autodeterminarci come nazione.

Ma non possono uccidere la nostra volontà di ribellarci. Non possiamo permetterglielo.

di Fabrizio Fiorini


[1] A scanso di equivoci e per eccesso di zelo: niente a che vedere con Emma Bonino e Giacinto Pannella…

[2] Esistono centinaia di migliaia di persone che credono fermamente che Craxi sia morto in esilio perché aveva finanziato illegalmente il suo Partito o anche sé stesso. Sono gli stessi che credono che Mattei sia morto perché gli si era guastato lo spinterogeno. E’ preferibile ricordare, parlando della caduta di Craxi, di quando prendeva la parola ai congressi dell’Internazionale Socialista, e la delegazione dei laburisti israeliani abbandonava i lavori…