08 luglio 2010

L'esperto di demolizioni: ecco come crollarono davvero le torri dell'11/9.

L'associazione «Architects & Engineers for 9/11 Truth» ("Architetti e Ingegneri per la Verità sull’11/9", ndt) presieduta dall'architetto americano Richard Gage ha incontrato Tom Sullivan, un tecnico esperto di demolizioni controllate nonché ex dipendente della Controlled Demolition Inc.

Secondo questo esperto, non c'è alcun dubbio: sono stati degli esplosivi la causa del crollo delle torri del World Trade Center.

Questa testimonianza avvalora e corrobora lo studio scientifico pubblicato nel marzo 2009 su «Bentham Open», sotto la direzione del professore di chimica dell’Università di Copenaghen Niels Harrit che aveva tratto la conclusione della presenza di esplosivi del tipo nano-termite nelle macerie del WTC, un materiale ultra sofisticato di origine militare.

Sullivan_CDI_card-idTom Sullivan è vicino al caso delle torri del WTC. Infatti, la società Controlled Demolition Inc. diretta da Mark Loiseaux (*) per la quale lavorava è stata una delle principali aziende incaricate dalla Autorità portuale e dalle Silverstein properties per sgomberare il sito di Ground Zero.

Ricordiamo che il sito fu liberato dalle macerie sotto l’alta supervisione della FBI, che vietò l’accesso al pubblico e ai giornalisti, così come alla Commissione d'inchiesta e agli ispettori FEMA, per i cui accessi furono poste restrizioni.

Il NIST non ha avuto accesso che ai depositi di Fresh Kills e al'aeroporto JFK.

La rimozione fu monitorata anche dal Comune, che chiese al NYPD di vietare le foto per rispetto delle vittime, oltre che dall'esercito, che utilizzava dei GPS speciali per seguire i movimenti dei camion carichi di macerie.

Nel momento in cui gli ultimi resti delle travi del WTC, essendo state utilizzate per la fabbricazione dello scafo della USS New-York, si apprestano a lasciare il loro hangar dell’aeroporto JFK per vari progetti di monumenti intesi a commemorare i 10 anni dagli attentati, coloro che si schierano per l’aggiornamento e l'esame degli indizi reali delle cause autentiche del crollo delle tre torri richiedono più che mai ai media di confrontarsi con questa nuova testimonianza di gran peso, e di sostenere la richiesta civica mondiale in favore di una nuova inchiesta.

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Prove dell'uso di esplosivi sul sito del WTC, secondo un ex tecnico della Controlled Demolitions Inc.

Collegamenti aggiunti da reopen911.info e Megachip.

Avendo avuto il privilegio di parlare con Tom Sullivan, un tecnico esperto nella collocazione di cariche esplosive per le demolizioni controllate, abbiamo alcune nuove chiavi che ci permettono di capire meglio il modo in cui la demolizione controllata funziona, laddove inizi, e quali sono state le ripercussioni dell’11 settembre nel settore delle demolizioni. Sullivan ha acquisito la sua esperienza in qualità di dipendente dell’azienda capofila in questo campo: la Controlled Demolition, Inc. (CDI). Tuttavia, Sullivan ha tenuto a sottolineare: «In nessun caso mi presento come portavoce per il CDI, e quello che ho da dire lo dico per esperienza e formazione personale.»

Sullivan è andato alle scuole superiori con Doug Loizeaux, della famiglia Loizeaux. Questa famiglia, in primo luogo il padre Jack, in modo autonomo ha lanciato l'intero settore delle demolizioni controllate, un’industria che alla fine è diventata un affare assai profittevole. Prima di avere a che fare con la CDI, Sullivan era un fotografo indipendente, durante i suoi primi anni nel Maryland. Sarebbe poi stato inviato nei siti delle demolizioni controllate per scattare fotografie dei lavori. Diventò perciò un appassionato ed entusiasta del settore delle demolizioni controllate.

Arrivò il momento in cui volle fare entrambe le cose: essere l’uomo che collocava le "cariche di taglio" sui punti di rottura, e quello che scattava le foto alla messa in opera per promuovere il proprio business. Presto sarebbe diventato un dipendente a tempo pieno della CDI, come AE911Truth ha avuto modo di verificare.

«È stato un lavoro molto interessante, ma anche duro, per lunghe ore, soprattutto quando faceva freddo», osserva Sullivan. Il quale aggiunge che la giornata di lavoro iniziava presto, intorno alle 6 del mattino, e si lavorava fino al tramonto. Sullivan ha lavorato all’allestimento degli edifici con la collocazione delle cariche di taglio in corrispondenza dei punti di rottura e poi, naturalmente, se ne stava a contemplare il tutto mentre crollava.

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Sullivan sottolinea che la preparazione richiede diverse settimane per "indebolire" gli edifici prima delle demolizioni. Gli edifici con struttura in acciaio semplicemente non cadono entro il perimetro della loro base in caduta libera senza un grosso lavoro lungo tutto l’edificio, a volte anche prima di piazzare le cariche esplosive. Sullivan sottolinea questo punto: «Gli incendi non possono radere al suolo edifici di grande altezza con struttura in acciaio. Punto.»

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Uno dei più interessanti lavori di Sullivan è stata la demolizione del colossale Kingdome, nella cui struttura in cemento armato lui stesso ha collocato di persona centinaia di micidiali cariche esplosive.

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Sullivan spiega che lavorare per CDI è stata «un'esperienza davvero unica». E aggiunge: «erano una famiglia molto unita», con riferimento ai valori familiari dei Loizeaux. «Ho imparato tramite l’osservazione», dice Sullivan, «non lo impari a scuola, ma sporcandoti le mani con il duro lavoro.» Sullivan ha scattato centinaia di foto dei progetti, attraverso cui ha sviluppato una profonda passione per questo lavoro.

Quando gli abbiamo chiesto cosa avesse reso la CDI il leader di mercato, ha risposto che «la loro famiglia aveva tutta l’esperienza perché aveva “inventato” l'arte della demolizione controllata. Per anni e anni hanno viaggiato per il mondo, facendo dimostrazioni e attività di formazione su come funziona questa particolare arte.»

Purtroppo, l'attività ha meno mercato dopo l’11 settembre. «La gente era spaventata, e se per caso si udiva una forte esplosione si pensava che fosse un qualche attentato terroristico», ha detto Sullivan, con una nota di frustrazione. «La paura ha preso il sopravvento e così non c’era più spazio per il business»., Anche Mark Loizeaux (il presidente del CDI) ha detto che l’11/9 lo aveva rovinato. Sullivan non ebbe altra scelta che lasciare la CDI. Curiosamente, la CDI ha avuto un ruolo nel ripulire il WTC nell'ambito di un subcontratto con Tully Construction. Il 22 settembre 2001, CDI sottopose un "preliminare" di 25 pagine al Dipartimento di progettazione e costruzione della città di New York, un piano connesso a rimozione e riciclaggio dell'acciaio. [¹]

Sullivan sostiene che sin dal primo giorno sapeva che la distruzione del World Trade Center 7 durante l’11 settembre era una classica implosione controllata. Quando gli abbiamo chiesto di darci la sua opinione su come l'edificio possa essere stato distrutto, ha spiegato che «osservando l'edificio non sarebbe stato un problema: una volta ottenuto l’accesso alle condutture degli ascensori ... allora un team di esperti di esplosivi avrebbe potuto accedere di soppiatto alle colonne e travi all’interno. Il resto verrebbe compiuto semplicemente con il giusto tipo di esplosivi per l’opera. Si può anche usare bene la termite.»

Brent Blanchard, fotografo della società di demolizioni controllate Protec, ha detto -a critica dell'ipotesi di una demolizione controllata - che si sarebbero dovuti trovare dappertutto i cavi per le detonazioni nonché gli involucri lasciati fra i mucchi di detriti dalle cariche di taglio . Così abbiamo chiesto una risposta a Sullivan, il quale nota che:

«I detonatori telecomandati senza fili esistono da anni. Guardate in qualsiasi film d'azione. E, naturalmente, i militari li hanno. Il motivo per cui la maggior parte dei fornitori del servizio non li adopera è perché sono molto costosi, ma in un progetto con un grandissimo budget non ci sarebbe alcun problema. Stesso discorso per gli involucri: tutti, in questo settore, compreso Blanchard, dovrebbero ben sapere che le cariche da taglio esplosive RDX, una volta esplose, vanno completamente distrutte, non rimane nulla. E nel caso delle cariche da taglio con la termite, è la stessa cosa. Gli involucri per cariche da taglio alla termite che si auto-consumano sono sulla piazza sin dal loro primo brevetto nel 1984»

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"Sullivan rileva che non sono necessari chilometri di cavi per detonatori grazie ai sistemi di detonazione moderni senza fili come quello prodotto da HiEX, e che sono accesi da computer remoti."

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Questa particolare carica da taglio è concepita per essere utilizzata con la termite. Sullivan osserva che il suo involucro si auto-consuma lasciando dietro di sé solo il ferro fuso sotto le macerie.

Abbiamo chiesto a Sullivan se tutti i piani del WTC 7 dovevano essere riempiti di esplosivi per avere successo nella demolizione controllata.

La sua risposta è

«No, perché nel caso di edifici con struttura d'acciaio, ciò di cui si ha bisogno è solo di caricare il primo terzo in basso del fabbricato per demolirlo: quando alla CDI fu dato un lavoro ad Hartford Conn, l’edificio CNG, è quanto abbiamo fatto e ha funzionato perfettamente».

Gli riferiamo che Ron Craig, un esperto di esplosioni per i film di Hollywood, ha obiettato - durante un dibattito che abbiamo avuto con lui - che ci sarebbero stati molti isolati con le finestre rotte, se avessimo avuto a che fare con una demolizione controllata .

Sullivan replica:

«la parola chiave qui è demolizione controllata – in altre parole un’attenta collocazione delle cariche - sempre focalizzata e precisa. Non stiamo parlando di innescare una bomba, in questo caso. La quantità e il tipo di esplosivo è un’arte, e i danni collaterali possono essere spesso completamente evitati».

Gli abbiamo poi chiesto conto della spiegazione di Shyam Sunder, che ha diretto l'inchiesta del NIST (National Institute of Standards and Technology), il quale ha dichiarato durante la famigerata conferenza stampa che "rivelava" la Relazione finale sul crollo dell’Edificio 7 del World Trade Center, che ci sarebbe dovuto essere un grande "botto" derivante da una potente esplosione se l'edificio fosse stato distrutto da una demolizione controllata.

Secondo Sullivan,

«In ogni implosione non vi è mai solo una grande esplosione, quanto semmai delle ondate di esplosioni più piccole – non diversamente dalla sezione delle percussioni in un'orchestra - quando ogni piano minato viene progressivamente coinvolto.»

E quando quel giorno Sullivan osservò i crolli delle torri, così come fecero molte persone, fu sorpreso non solo dalla velocità con cui avvennero, ma anche dalla loro simmetria e dal fatto che si verificarono all'improvviso.

«Sapevo che era un evento legato all’uso di esplosivi non appena l'ho visto, non avevo il minimo dubbio», sostiene Sullivan.

La maggior parte di noi è d'accordo su questo: non è un caso che la prima torre sia improvvisamente crollata, e poi la seconda nello stesso modo. Quel che lo convinse del tutto fu quando osservò il crollo della Torre numero 7 nello stesso giorno:

«Voglio dire, suvvia, era una distruzione completa. Ho visto edifici cadere nello stesso modo per anni. Questo chiudeva il discorso lì, per me».

Si tenga a mente che Sullivan ha lavorato in questo settore per molti anni: è una seconda natura per lui, il riconoscere questo tipo di demolizioni. Se c'è qualcuno che può esprimere la sua opinione, questo è sicuramente lui. Tuttavia, abbiamo ancora da chiedergli: Potrebbe esserci qualche possibilità che dei normali incendi d'ufficio (la causa ufficiale del "collasso") possano essere stati responsabili del crollo perfettamente simmetrico, regolare, a velocità di caduta libera dell’Edificio 7? «Nessuna possibilità», ribadisce. Volevamo solo essere sicuri.

Quando gli chiediamo se ha seguito alcuna delle audizioni della Commissione di inchiesta sull’11/9 o di quelle legate alla relazione del NIST, ci dà la stessa a stessa risposta per entrambe:

«Io non ho alcuna tolleranza per la gente che mi mente su quel che so essere vero. Ho abbandonato il campo disgustato e non ho mai assistito ad alcuna audizione dopo la prima. Stesso discorso per il NIST, non ho guardato la presentazione NIST, perché sapevo che cosa dovevo aspettarmi.» Tuttavia, ha letto la relazione finale sul crollo dell’Edificio 7 e racconta di essersi infuriato al pensiero che potessero davvero convincere così tanta gente con le loro spiegazioni fraudolente.

Sullivan venne in contatto per la prima volta con AE911Truth tramite un amico che gli aveva inviato il DVD 9/11: Blueprint for Truth. Lo guardò e si sentì felicissimo di scoprire che c’era un’associazione che cercava di informare il pubblico su quel che lui cercava di spiegare sin da quel tragico giorno. «AE911Truth è il gruppo più attento e organizzato del movimento per la verità sul 11 Settembre. Non c'è speculazione», afferma. «“Blueprint for Truth” è fatto di informazioni fattuali e importanti basate solo sulla scienza e la fisica, ed è chiaro e preciso.» Quando gli chiediamo se è d'accordo con le prove avanzate dal DVD, Sullivan annuisce: «Contiene prove estremamente convincenti.»

Infine, gli chiediamo: «Quanti architetti e ingegneri occorrerà che parlino all’unisono, per poter far finalmente sentire alla gente che abbiamo un problema?». E lui:«Quanto l'elenco si allunga, diventerà sempre più difficile negare il problema, ma continueranno a negare lo stesso.»

p.s.

1) Sullivan è venuto dalla costa orientale USA per una presentazione breve ma importante (QUI) nei giorni 7 e 8 maggio, in occasione della presentazione congiunta di Architects & Engineers for 9/11 Truth e di Firefighters for 9/11 Truth. Ha raggiunto Richard Gage, dell’AIA e Erik Lawyer per una presentazione di 10 minuti e ha risposto a qualche domanda sul settore delle demolizioni, sulla famiglia Loizeaux della CDI, e sul modo in cui i tre grattacieli del WTC furono demoliti. Prima di questa presentazione era già comparso con Gage e Lawyer alla KFPA Radio Berkeley nella trasmissione "Guns & Butter" in compagnia di Bonnie Faulkner, che aveva grandi domande da porre.

2) La dicitura "DO NOT COPY" (“non copiare”, ndt) sovrimpressa sulle immagini è stata aggiunta da Tom Sullivan. Queste immagini non possono essere copiate in contesti diversi dal presente articolo, o dopo sua specifica approvazione.

by megachip

Il raggio dell'energia gratuita. Made in Italy



Marconi ideò un raggio che fermava i mezzi a motore. Mussolini lo voleva, il Vaticano lo bloccò. Da quelle ricerche gli scienziati crearono l’alternativa a petrolio e nucleare. Nel 1999 l’invenzione stava per essere messa sul mercato, ma poi tutto fu insabbiato.

L’energia pulita tanto auspicata dal presidente Obama dopo il disastro ambientale del Golfo del Messico forse esiste già da un pezzo, ma qualcuno la tiene nascosta per inconfessabili interessi economici. Ma non solo. Negli anni Settanta, infatti, un gruppo di scienziati italiani ne avrebbe scoperto il segreto, ma questa nuova e stupefacente tecnologia, che di fatto cambierebbe l’ economia mondiale archiviando per sempre i rischi del petrolio e del nucleare, sarebbe stata volutamente occultata nella cassaforte di una misteriosa fondazione religiosa con sede nel Liechtenstein, dove si troverebbe tuttora. Sembra davvero la trama di un giallo internazionale l’incredibile storia che si nasconde dietro quella che, senza alcun dubbio, si potrebbe definire la scoperta epocale per eccellenza, e cioè la produzione di energia pulita senza alcuna emissione di radiazioni dannose. In altre parole, la realizzazione di un macchinario in grado di dissolvere la materia, intendendo con questa definizione qualunque tipo di sostanza fisica, producendo solo ed esclusivamente calore.

Una scoperta per caso

Come ogni giallo che si rispetti, l’intricata vicenda che si nasconde dietro la genesi di questa scoperta è stata svelata quasi per caso. Lo ha fatto un imprenditore genovese che una decina d’anni fa si è trovato ad avere rapporti di affari con la fondazione che nasconde e gestisce il segreto di quello che, per semplicità, chiameremo «il raggio della morte». E sì, perché la storia che stiamo per svelare nasce proprio da quello che, durante il fascismo, fu il mito per eccellenza: l’arma segreta che avrebbe rivoluzionato il corso della seconda guerra mondiale. Sembrava soltanto una fantasia, ma non lo era. In quegli anni si diceva che persino Guglielmo Marconi stesse lavorando alla realizzazione del «raggio della morte». La cosa era solo parzialmente vera. Secondo quanto Mussolini disse al giornalista Ivanoe Fossati durante una delle sue ultime interviste, Marconi inventò un apparecchio che emetteva un raggio elettromagnetico in grado di bloccare qualunque motore dotato di impianto elettrico.

Tale raggio, inoltre, mandava in corto circuito l’impianto stesso, provocandone l’incendio. Lo scienziato dette una dimostrazione, alla presenza del duce del fascismo, ad Acilia, sulla strada di Ostia, quando bloccò auto e camion che transitavano sulla strada. A Orbetello, invece, riuscì a incendiare due aerei che si trovavano ad oltre due chilometri di distanza. Tuttavia, dice sempre Mussolini, Marconi si fece prendere dagli scrupoli religiosi. Non voleva essere ricordato dai posteri come colui che aveva provocato la morte di migliaia di persone, bensì solo come l’inventore della radio. Per cui si confidò con Papa Pio XII, il quale gli consigliò di distruggere il progetto della sua invenzione. Cosa che Marconi si affretto a fare, mandando in bestia Mussolini e gerarchi. Poi, forse per il troppo stress che aveva accumulato in quella disputa, nel 1937 improvvisamente venne colpito da un infarto e morì a soli 63 anni.

La fine degli anni Trenta fu comunque molto prolifica da un punto di vista scientifico. Per qualche imperscrutabile gioco del destino, pare che la fantasia e la creatività degli italiani non fu soltanto all’origine della prima bomba nucleare realizzata negli Stati Uniti da Enrico Fermi e dai suoi colleghi di via Panisperna; altri scienziati, continuando gli studi sulla scissione dell’atomo, trovarono infatti il modo di «produrre ed emettere sino a notevoli distanze anti-atomi di qualsiasi elemento esistente sul nostro pianeta che, diretti contro una massa costituita da atomi della stessa natura ma di segno opposto, la disgregano ionizzandola senza provocare alcuna reazione nucleare, ma producendo egualmente una enorme quantità di energia pulita». Tanto per fare un esempio concreto, ionizzando un grammo di ferro si sviluppa un calore pari a 24 milioni di KWh, cioè oltre 20 miliardi di calorie, capaci di evaporare 40 milioni di litri d’acqua. Per ottenere un uguale numero di calorie, occorrerebbe bruciare 15mila barili di petrolio. Sembra quasi di leggere un racconto di fantascienza, ma è soltanto la pura e semplice realtà. Almeno quella che i documenti in possesso dell’imprenditore genovese Enrico M. Remondini dimostrano.

La testimonianza

«Tutto è cominciato – racconta Remondini – dal contatto che nel 1999 ho avuto con il dottor Renato Leonardi, direttore della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, con sede a Vaduz, capitale del Liechtenstein. Il mio compito era quello di stipulare contratti per lo smaltimento di rifiuti solidi tramite le Centrali termoelettriche polivalenti della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Non mi hanno detto dove queste centrali si trovassero, ma so per certo che esistono. Altrimenti non avrebbero fatto un contratto con me. In quel periodo, lavoravo con il mio collega, dottor Claudio Barbarisi. Per ogni contratto stipulato, la nostra percentuale sarebbe stata del 2 per cento. Tuttavia, per una clausola imposta dalla Fondazione stessa, il 10 per cento di questa commissione doveva essere destinata a favore di aiuti umanitari. Considerando che lo smaltimento di questi rifiuti avveniva in un modo pressoché perfetto, cioè con la ionizzazione della materia senza produzione di alcuna scoria, sembrava davvero il modo ottimale per ottenere il risultato voluto. Tuttavia, improvvisamente, e senza comunicarci il perché, la Fondazione ci fece sapere che le loro centrali non sarebbero più state operative. E fu inutile chiedere spiegazioni. Pur avendo un contratto firmato in tasca, non ci fu nulla da fare. Semplicemente chiusero i contatti».

Remondini ancora oggi non conosce la ragione dell’improvviso voltafaccia. Ha provato a telefonare al direttore Leonardi, che tra l’altro vive a Lugano, ma non ha mai avuto una spiegazione per quello strano comportamento. Inutili anche le ricerche per vie traverse: l’unica cosa che è riuscito a sapere è che la Fondazione è stata messa in liquidazione. Per cui è ipotizzabile che i suoi segreti adesso siano stati trasferiti ad un’altra società di cui, ovviamente, si ignora persino il nome. Ciò significa che da qualche parte sulla terra oggi c’è qualcuno che nasconde il segreto più ambito del mondo: la produzione di energia pulita ad un costo prossimo allo zero. Nonostante questo imprevisto risvolto, in mano a Remondini sono rimasti diversi documenti strettamente riservati della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, per cui alla fine l’imprenditore si è deciso a rendere pubblico ciò che sa su questa misteriosa istituzione.

Per capire i retroscena di questa tanto mirabolante quanto scientificamente sconosciuta scoperta, occorre fare un salto indietro nel tempo e cercare di ricostruire, passo dopo passo, la cronologia dell’invenzione. Ad aiutarci è la relazione tecnico-scientifica che il 25 ottobre 1997 la Fondazione Internazionale Pace e Crescita ha fatto avere soltanto agli addetti ai lavori. Ogni foglio, infatti, è chiaramente marcato con la scritta «Riproduzione Vietata». Ma l’enormità di quanto viene rivelato in quello scritto giustifica ampiamente il non rispetto della riservatezza richiesta.

Il «raggio della morte», infatti, pur essendo stato concepito teoricamente negli anni Trenta, avrebbe trovato la sua base scientifica soltanto tra il 1958 e il 1960. Il condizionale è d’obbligo in quanto riportiamo delle notizie scritte, ma non confermate dalla scienza ufficiale. Non sappiamo da chi era composto il gruppo di scienziati che diede vita all’esperimento: i nomi non sono elencati. Sappiamo invece che vi furono diversi tentativi di realizzare una macchina che corrispondesse al modello teorico progettato, ma soltanto nel 1973 si arrivò ad avere una strumentazione in grado di «produrre campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti, in modo da colpire qualsiasi materia, ionizzandola a distanza ed in quantità predeterminate».

Ok dal governo Andreotti

Fu a quel punto che il governo italiano cominciò ad interessarsi ufficialmente a quegli esperimenti. E infatti l’allora governo Andreotti, prima di passare la mano a Mariano Rumor nel luglio del ‘73, incaricò il professor Ezio Clementel, allora presidente del Comitato per l’energia nucleare (Cnen), di analizzare gli effetti e la natura di quei campi magnetici a fascio. Clementel, trentino originario di Fai e titolare della cattedra di Fisica nucleare alla facoltà di Scienze dell’Università di Bologna, a quel tempo aveva 55 anni ed era uno dei più noti scienziati del panorama nazionale e internazionale. La sua responsabilità, in quella circostanza, era grande. Doveva infatti verificare se quel diabolico raggio avesse realmente la capacità di distruggere la materia ionizzandola in un’esplosione di calore. Anche perché non ci voleva molto a capire che, qualora l’esperimento fosse riuscito, si poteva fare a meno dell’energia nucleare e inaugurare una nuova stagione energetica non soltanto per l’Italia, ma per il mondo intero.

Tanto per fare un esempio, questa tecnologia avrebbe permesso la realizzazione di nuovi e potentissimi motori a razzo che avrebbero letteralmente rivoluzionato la corsa allo spazio, permettendo la costruzione di gigantesche astronavi interplanetarie. Il professor Clementel ordinò quindi quattro prove di particolare complessità. La prima consisteva nel porre una lastra di plexiglass a 20 metri dall’uscita del fascio di raggi, collocare una lastra di acciaio inox a mezzo metro dietro la lastra di plexiglass e chiedere di perforare la lastra d’acciaio senza danneggiare quella di plexiglass. La seconda prova consisteva nel ripetere il primo esperimento, chiedendo però di perforare la lastra di plexiglass senza alterare la lastra d’acciaio. Il terzo esame era ancora più difficile: bisognava porre una serie di lastre d’acciaio a 10, 20 e 40 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo di bucare le lastre a partire dall’ultima, cioè quella posta a 40 metri. Nella quarta e ultima prova si doveva sistemare una pesante lastra di alluminio a 50 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo che venisse tagliata parallelamente al lato maggiore.

Ebbene, tutte e quattro le prove ebbero esito positivo e il professor Clementel, considerando che la durata dell’impulso dei raggi era minore di 0,1 secondi, valutò la potenza, ipotizzando la vaporizzazione del metallo, a 40.000 KW e la densità di potenza pari a 4.000 KW per centimetro quadrato. In realtà, venne spiegato a sperimentazione compiuta, l’impulso dei raggi aveva avuto la durata di un nano secondo e poteva ionizzare a distanza «forma e quantità predeterminate di qualsiasi materia». Tra l’altro all’esperimento aveva assistito anche il professor Piero Pasolini, illustre fisico e amico di un’altra celebrità scientifica qual è il professor Antonino Zichichi. In una sua relazione, Pasolini parlò di «campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti che sviluppano atomi di antimateria proiettati e focalizzati in zone di spazio ben determinate anche al di là di schemi di materiali vari, che essendo fuori fuoco si manifestano perfettamente trasparenti e del tutto indenni». In pratica, ma qui entriamo in una spiegazione scientifica un po’ più complessa, gli scienziati italiani che avevano realizzato quel macchinario, sarebbero riusciti ad applicare la teoria di Einstein sul campo unificato, e cioè identificare la matrice profonda ed unica di tutti i campi di interazione, da quello forte (nucleare) a quello gravitazionale. Altri fisici in tutto il mondo ci avevano provato, ma senza alcun risultato. Gli italiani, a quanto pare, c’erano riusciti.



L’insabbiamento

In un Paese normale (ma tutti sappiamo che il nostro non lo è) una simile scoperta sarebbe stata subito messa a frutto. Non ci vuole molta fantasia per capire le implicazioni industriali ed economiche che avrebbe portato. Anche perché, quella che a prima vista poteva sembrare un’arma di incredibile potenza, nell’uso civile poteva trasformarsi nel motore termico di una centrale che, a costi bassissimi, poteva produrre infinite quantità di energia elettrica. Perché, dunque, questa scoperta non è stata rivelata e utilizzata? La ragione non viene spiegata. Tutto quello che sappiamo è che i governi dell’epoca imposero il segreto sulla sperimentazione e che nessuno, almeno ufficialmente, ne venne a conoscenza. Del resto nel 1979 il professor Clementel morì prematuramente e si portò nella tomba il segreto dei suoi esperimenti.

Ma anche dietro Clementel si nasconde una vicenda piuttosto strana e misteriosa. Pare, infatti, che le sue idee non piacessero ai governanti dell’epoca. Non si sa esattamente quale fosse la materia del contendere, ma alla luce della straordinaria scoperta che aveva verificato, è facile immaginarlo. Forse lo scienziato voleva rendere pubblica la notizia, mentre i politici non ne volevano sapere. Chissà? Ebbene, qualcuno trovò il sistema per togliersi di torno quello scomodo presidente del Cnen. Infatti venne accertato che la firma di Clementel appariva su registri di esame all’Università di Trento, della quale all’epoca era il rettore, in una data in cui egli era in missione altrove. Sembrava quasi un errore, una svista. Ma gli costò il carcere, la carriera e infine la salute.

Lo scienziato capì l’antifona, e non disse mai più nulla su quel «raggio della morte» che gli era costato così tanto caro. A Clementel è dedicato il Centro ricerche energia dell’Enea a Bologna. C’è comunque da dire che già negli anni Ottanta qualcosa venne fuori riguardo un ipotetico «raggio della morte». Il primo a parlarne fu il giudice Carlo Palermo che dedicò centinaia di pagine al misterioso congegno, affermando che fu alla base di un intricato traffico d’armi. La storia coinvolse un ex colonnello del Sifar e del Sid, Massimo Pugliese, ma anche esponenti del governo americano (allora presieduto da Gerald Ford), i parlamentari Flaminio Piccoli (Dc) e Loris Fortuna (Psi), nonché una misteriosa società con sede proprio nel Liechtenstein, la Traspraesa. La vicenda durò dal 1973 al 1979, quando improvvisamente calò una cortina di silenzio su tutto quanto.

Erano comunque anni difficili. L’Italia navigava nel caos. Gli attentati delle Brigate rosse erano all’ordine del giorno, la società civile soffocava nel marasma, i servizi segreti di mezzo mondo operavano sul nostro territorio nazionale come se fosse una loro riserva di caccia. Il 16 marzo 1978 i brigatisti arrivarono al punto di rapire il presidente del Consiglio, Aldo Moro, uccidendo i cinque poliziotti della scorta in un indimenticabile attentato in via Fani, a Roma. E tutti ci ricordiamo come andò a finire. Tre anni dopo, il 13 maggio 1981, il terrorista turco Mehmet Ali Agca in piazza San Pietro ferì a colpi di pistola Giovanni Paolo II.

È in questo contesto, che il «raggio della morte» scomparve dalla scena. Del resto, ammesso che la scoperta avesse avuto una consistenza reale, chi sarebbe stato in grado di gestire e controllare gli effetti di una rivoluzione industriale e finanziaria che di fatto avrebbe cambiato il mondo? Non ci vuole molto, infatti, ad immaginare quanti interessi quell’invenzione avrebbe danneggiato se soltanto fosse stata resa pubblica. In pratica, tutte le multinazionali operanti nel campo del petrolio e dell’energia nucleare avrebbero dovuto chiudere i battenti o trasformare da un giorno all’altro la loro produzione. Sarebbe veramente impossibile ipotizzare una cifra per quantificare il disastro economico che la nuova scoperta italiana avrebbe portato.

Ma queste sono solo ipotesi. Ciò che invece risulta riguarda la decisione presa dagli autori della scoperta. Infatti, dopo anni di traversie e inutili tentativi per far riconoscere ufficialmente la loro invenzione, probabilmente temendo per la loro vita e per il futuro della loro strumentazione, questi scienziati consegnarono il frutto del loro lavoro alla Fondazione Internazionale Pace e Crescita, che l’11 aprile 1996 venne costituita apposta, verosimilmente con il diretto appoggio logistico-finanziario del Vaticano, a Vaduz, ben al di fuori dei confini italiani. In quel momento il capitale sociale era di appena 30mila franchi svizzeri (circa 20mila Euro). «Sembra anche a noi – si legge nella relazione introduttiva alle attività della Fondazione – che sia meglio costruire anziché distruggere, non importa quanto possa essere difficile, anche se per farlo occorrono molto più coraggio e pazienza, assai più fantasia e sacrificio».

A prescindere dal fatto che non si trova traccia ufficiale di questa fantomatica Fondazione, se non la notizia (in tedesco) che il primo luglio del 2002 è stata messa in liquidazione, parrebbe che a suo tempo l’organizzazione fosse stata costituita in primo luogo per evitare che un’invenzione di quella portata fosse utilizzata solo per fini militari. Del resto anche i missili balistici (con quello che costano) diventerebbero ben poca cosa se gli eserciti potessero disporre di un macchinario che, per distruggere un obiettivo strategico, necessiterebbe soltanto di un sistema di puntamento d’arma. Secondo voci non confermate, la decisione degli scienziati italiani sarebbe maturata dopo una serie di minacce che avevano ricevuto negli ambienti della capitale. Ad un certo punto si parla pure di un attentato con una bomba, sempre a Roma.

Si dice che, per evitare ulteriori brutte sorprese, quegli scienziati si appellarono direttamente a Papa Giovanni Paolo II e la macchina che produce il «raggio della morte» venisse nascosta per qualche tempo in Vaticano. Da qui la decisione di istituire la fondazione e di far emigrare tutti i protagonisti della vicenda nel più tranquillo Liechtenstein. In queste circostanze, forse non fu un caso che proprio il 30 marzo 1979 il Papa ricevette in Vaticano il Consiglio di presidenza della Società Europea di Fisica, riconoscendo, per la prima volta nella storia della Chiesa, in Galileo Galilei (1564-1642) lo scopritore della Logica del Creato. Comunque sia, da quel momento in poi, la parola d’ordine è stata mantenere il silenzio assoluto.

Le macchine del futuro

Qualcosa, però, nel tempo è cambiata. Lo prova il fatto che la Fondazione Internazionale Pace e Crescita non si sarebbe limitata a proteggere gli scienziati cristiani in fuga, ma nel periodo tra il 1996 e il 1999 avrebbe proceduto a realizzare per conto suo diverse complesse apparecchiature che sfruttano il principio del «raggio della morte». Secondo la loro documentazione, infatti, è stata prodotta una serie di macchinari della linea Zavbo pronti ad essere adibiti per più scopi. L’elenco comprende le Srsu/Tep (smaltimento dei rifiuti solidi urbani), Srlo/Tep (smaltimento dei rifiuti liquidi organici), Srtp/Tep (smaltimento dei rifiuti tossici), Srrz/Tep (smaltimento delle scorie radioattive), Rcc (compattazione rocce instabili), Rcz (distruzione rocce pericolose), Rcg (scavo gallerie nella roccia), Cls (attuazione leghe speciali), Cen (produzione energia pulita). A quest’ultimo riguardo, nella documentazione fornita da Remondini si trovano anche i piani per costruire centrali termoelettriche per produrre energia elettrica a bassissimo costo, smaltendo rifiuti. C’è tutto, dalle dimensioni all’ampiezza del terreno necessario, come si costruisce la torre di ionizzazione e quante persone devono lavorare (53 unità) nella struttura. Un’intera centrale si può fare in 18 mesi e potrà smaltire fino a 500 metri cubi di rifiuti al giorno, producendo energia elettrica con due turbine Ansaldo.

C’è anche un quadro economico (in milioni di dollari americani) per calcolare i costi di costruzione. Nel 1999 si prevedeva che una centrale di questo tipo sarebbe costata 100milioni di dollari. Una peculiarità di queste centrali è che il loro aspetto è assolutamente fuorviante. Infatti, sempre guardando i loro progetti, si nota che all’esterno appaiono soltanto come un paio di basse palazzine per uffici, circondate da un ampio giardino con alberi e fiori. La torre di ionizzazione, dove avviene il processo termico, è infatti completamente interrata per una profondità di 15 metri. In pratica, un pozzo di spesso cemento armato completamente occultato alla vista. In altre parole, queste centrali potrebbero essere ovunque e nessuno ne saprebbe niente.

Da notare che, secondo le ricerche compiute dalla International Company Profile di Londra, una società del Wilmington Group Pic, leader nel mondo per le informazioni sul credito e quotata alla Borsa di Londra, la Fondazione Internazionale Pace e Crescita, fin dal giorno della sua registrazione a Vaduz, non ha mai compiuto alcun tipo di operazione finanziaria nel Liechtenstein, né si conosce alcun dettaglio del suo stato patrimoniale o finanziario, in quanto la legge di quel Paese non prevede che le Fondazioni presentino pubblicamente i propri bilanci o i nomi dei propri fondatori. Si conosce l’indirizzo della sede legale, ma si ignora quale sia stato quello della sede operativa e il tipo di attività che la Fondazione ha svolto al di fuori dei confini del Liechtenstein.

Ovviamente mistero assoluto su quanto sia accaduto dopo il primo luglio del 2002 quando, per chissà quali ragioni, ma tutto lascia supporre che la sicurezza non sia stata estranea alla decisione, la Fondazione ufficialmente ha chiuso i battenti. Ancora più strabiliante è l’elenco dei clienti, o presunti tali, fornito a Remondini. In tutto 24 nomi tra i quali spiccano i maggiori gruppi siderurgici europei, le amministrazioni di due Regioni italiane e persino due governi: uno europeo e uno africano. Da notare che, in una lettera inviata dalla Fondazione a Remondini, si parla di proseguire con i contatti all’estero, ma non sul territorio nazionale «a causa delle problematiche in Italia». Ma di quali «problematiche» si parla? E, soprattutto, com’è che una scoperta di questo tipo viene utilizzata quasi sottobanco per realizzare cose egregie (pensiamo soltanto alla produzione di energia elettrica e allo smaltimento di scorie radioattive), mentre ufficialmente non se ne sa niente di niente?
recensione

07 luglio 2010

Tassa su tassa. E’ l’Italia che va?


Dice il tasso a un altro tasso, indicando uno stupendo esemplare di femmina della stessa specie: «Dì un po’, ma tu le paghi le tasse?». E’ una celebre illustrazione tratta dal Diariovitt di Jacovitti, il grande vignettista che riusciva a far sorridere la gente anche satireggiando su un argomento ostico come quello fiscale. Ed effettivamente è assai difficile, oggigiorno, trovare qualcuno disposto a ironizzare sullo spauracchio delle imposte. Questo territorio, almeno per gli italiani, rimane assolutamente verboten allo humour. Le gabelle infatti anno dopo anno sono diventate sempre più pesanti e numerose, tanto da indurre l’opinione pubblica a individuare nella leva fiscale uno strumento ingiustamente vessatorio, punitivo in particolar modo nei confronti di chi, come il popolo del reddito fisso, non può nascondere nulla all’ufficio esattoriale, venendo considerato alla stregua di “mucche da mungere” e favorendo il fugone oltralpe di un fiume di denaro non dichiarato.

E’ di questi giorni la notizia che la spesa pubblica italiana, durante lo scorso anno, ha sfiorato la barriera degli 800 miliardi di euro, attestandosi precisamente a 798.864 mld, risultando così in crescita per il terzo anno consecutivo, superando in percentuale oltre la metà del Pil nazionale. Il valore totale delle uscite, insomma, è tornato a incidere sul Pil italiano in misura analoga a quella registrata nel 1996, quando il rapporto spesa-Pil ammontava al 52,6%. In confronto agli altri nostri partner dell’Ue la partita in uscita dell’Italia in relazione al Pil è stata infatti più alta di 1,2 punti percentuali rispetto alla media dei paesi dell’Unione. Evidentemente nel portafogli dell’erario, alle nostre latitudini, hanno pesato, e molto, i costi degli ammortizzatori sociali elargiti dal governo per consentire alle famiglie di far fronte alla crisi che ha colpito i mercati finanziari, e quindi l’economia mondiale.

Sarà. Comunque, ammortizzatori o meno, anche “prima” del 2008 non è che vivessimo in un paradiso fiscale. Il fatto increscioso è che questa esagerata mole d’impieghi deve per forza di cose essere “finanziata”. E da chi? Ma da tutti noi, è ovvio. E come? Tramite la leva tributaria, of course. Tutto questo “generoso” scialo di risorse, cioè, si traduce, in soldoni, in una valanga di balzelli a nostro carico. Uno tsunami che opprime lo sfortunato contribuente del Bel Paese tanto pesantemente da offrire un formidabile assist al già nutrito popolo degli evasori, che individua appunto nell’evasione, piuttosto che un reato, una legittima difesa, seppure estrema, dalla smodata bulimia di Stato. Il si salvi chi può da parte dei furbacchioni che hanno trasferito all’estero i loro tesoretti ha preso la stura proprio da questa bramosia. Una bramosia tale che nel 2009 l’onere fiscale sul Pil ha registrato il 43,2%, facendo schizzare il nostro paese al V posto in Europa per voracità tributaria, in condominio con la Francia e subito dopo Austria, Belgio, Danimarca e Svezia, quando nel 2008 si era piazzato al settimo posto.

Insomma, paghiamo come la Svezia per avere servizi degni del Burundi. Si è trattato della peggiore performance dal 1997. Un esito, secondo l’Istat, dovuto a una flessione del Pil maggiore di quella fatta registrare dal «gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario, cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi di euro». Va sottolineato che nel novero delle “imposte straordinarie” vanno considerati i fiumi di cash affluiti in Italia dai forzieri esteri grazie allo scudo fiscale, calcolati in 5 miliardi di euro.

E meno male che lo scudo c’è, si potrebbe parafrasare, in quanto durante il 2009 la maggior parte delle voci d’entrata dell’erario hanno registrato invece una marcata flessione. Le imposte indirette infatti l’anno scorso sono calate del 4,2% dopo avere già perduto il 4,9 nel 2008. Quelle dirette sono affondate del 7,1% e i contributi sociali dello 0,5%. La contrazione delle dirette è da scrivere prevalentemente al collasso dell’Ires (-23%), mentre le indirette hanno accusato la picchiata dell’Iva (-6,7%) e dell’Irap (-13%). Molto più contenuto è stato il calo dei contributi sociali, che hanno risentito della sostanziale tenuta degli stipendi, un fenomeno da ascrivere al lievitare dell’ammontare medio pro capite, che è andato a compensare il marcato flop occupazionale. Ma la doccia fredda è nascosta là dove meno te l’aspetti. Vale a dire nelle valutazioni fornite dai commercialisti, secondo i quali, in quanto a pressione fiscale, l’Italia è sostanzialmente al top delle classifiche della rapina tributaria ai danni della collettività.

«Quello del 2009 è un record negativo assoluto», hanno sostenuto gli esperti del ramo. Lo scorso anno, infatti, per l’ufficio studi del Consiglio dei commercialisti, la pressione fiscale autentica, quella avvertita sulla propria pelle dalla cittadinanza tutta, era in realtà al 51,6%. «Un record negativo assoluto» rispetto al 50,8% del 2008. «Questo perché la componente di economia sommersa stimata in Italia è percentualmente più rilevante di quella di tutti gli altri paesi europei, esclusa la sola Grecia», ha concluso il presidente dei commercialisti Siciliotti. Economia sommersa sta per “nero”. Un deprecabile iceberg la cui superficie visibile è soltanto una parte infinitesimale della montagna celata sotto il mare dell’illecito. Un volume di “evaso” che avrebbe portato la reale pressione fiscale nel 2009 a un valore che più o meno oscillerebbe attorno al 52%. Una considerazione suffragata anche dalla Cgia di Mestre. «Se storniamo dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico, il Pil diminuisce – quindi si contrae anche il denominatore – e, pertanto, aumenta il risultato che emerge dal rapporto. Ovvero, la pressione fiscale», hanno sostenuto gli artigiani di Mestre.

Anche Confindustria ha lanciato l’allarme: «La pressione fiscale è un problema di cui parliamo da sempre. Oggi è ai massimi, quindi è un problema per la crescita», ha affermato Emma Marcegaglia. «Da tempo – ha ricordato la presidentessa degli industriali italiani – stiamo chiedendo al ministro Tremonti di aprire un tavolo sul fisco, come promesso».

Intanto, per l’Eurostat, l’Italia domina anche le classifiche dei paesi a più alto onere fiscale a carico del lavoro. Nel 2008, infatti, esso è stato pari al 42,8%: di gran lunga maggiore rispetto a quello della media Ue, pari al 34,2%. Solo le accise sui consumi da noi sono le più soft: 16,4% contro una media di Ue del 20,8%. Come si può facilmente constatare, siamo veramente ridotti a raschiare il fondo del barile. Un barile ormai disseccato dalle dissennate politiche erariali portate avanti negli anni spensierati dello sperpero facile e dello spreco istituzionalizzato.

Con l’avvento degli esecutivi a guida berlusconiana sembrava essere arrivati a un salutare rinsavimento. Insomma, pareva proprio che la deprecabile abitudine di tosare il parco buoi dei contribuenti impossibilitati ad evadere, come i salariati, gli stipendiati, la pubblica amministrazione, a vantaggio dei soliti noti, fosse sul punto di subire un salutare ripensamento. Invece, il default greco, il temuto crack spagnolo e portoghese, il collasso ungherese e romeno, lo sforamento irlandese, e inglese, e italiano, e francese hanno mandato tutto a ramengo. Le buone intenzioni del premier hanno insomma dovuto decampare davanti al pessimo esempio gestionale fornito in blocco dagli stati continentali, i quali, tranne forse la sola Germania, invece di essere una comunità di formiche s’è rivelata una masnada di cicale.

Cicale gelose delle proprie prerogative, dei propri privilegi, delle proprie autonomie, abituate a vivere al disopra delle loro possibilità ma prontissime a bussare alla porta di Bruxelles al primo cenno di bancarotta, quando per finanziare le loro (una volta) allegre economie sono state costrette a ricorrere agli usurai. L’esito fatale di tutta questa dispendiosa cuccagna sarà una severa politica di austerithy a livello continentale, con un nuovo giro di vite sul fronte delle gabelle.

Certo, l’alternativa, almeno dalle nostre parti, ci sarebbe, eccome. Basterebbe tagliare le spese superflue. Ma a giudicare dalle orecchie che dovrebbero recepire il messaggio, sono in tanti in Italia a dover ricorrere alla Maico. Tremonti, infatti, ci ha pure provato a proporre il machete contro i rami secchi dello stato e del parastato, secchi di prestazioni ma irroratissimi quanto a linfa vitale dissipata. I suoi colleghi di governo, invece, remando contro, gli hanno dapprima ipotizzato le cesoie per poi promettergli le forbicine e consegnargli in concreto le limette per le unghie. Il risultato è che le Province non si possono tagliare perché non lo vuole Bossi. Le Regioni non si possono alleggerire perché non lo vuole Formigoni. La Pubblica Amministrazione non si può snellire perché non lo vuole Fini. La Difesa non si può toccare sennò s’incazza La Russa. La cultura? Subito scendono sul piede di guerra nani, guitti, ballerine e guzzantine varie. La Sanità? Peggio di così…La scuola? Idem. I magistrati? E’ un golpe. I calciatori? Ma va là. Sono così bravi e competenti, in Sud Africa hanno dato tanto lustro alla Patria… Gli unici che corrono il rischio di essere soppressi sono i prefetti, in quanto non costano nulla, servono a molto e non godono di appoggi presso i poteri forti.

Così ci siamo ridotti a dissertare se il Grande Raccordo Anulare della Capitale sia a rischio pedaggio o meno. Naturalmente, a usare un po’ più di parsimonia nell’uso delle auto blu, delle scorte, dei rimborsi spese, insomma, a sfoltire il ginepraio di privilegi goduti, quelli della casta non ci pensano nemmeno. Perciò, per non incappare in una prospettiva greca, sempre più probabile vista l’aria che tira - “una fazzia una razzia” – toccherà rassegnarsi a versare almeno 24 miliardi di euro nel buco nero di Pantalone, secondo i dettami della manovra tremontiana, e risolversi a votare contro i partiti governativi alle prossime elezioni politiche.

Ma anche qui c’è poco da stare allegri. La parola d’ordine lanciata in questi giorni dagli scranni dell’opposizione infatti è “contromanovra”. Detta così suona alquanto bene, ma se uno si prendesse la briga di andare a leggersi con attenzione le sterminate lenzuolate stilate da Bersani & Co. Si avrebbero delle sconcertanti sorprese. Antonio Di Pietro infatti nelle sue elucubrazioni al mulino bianco propone maggiori introiti per 65 miliardi di euro tramite la reintroduzione dell’Ici e l’istituzione di un “redditometro a riscossione immediata”. Vale a dire: intanto paghi subito, e poi si vedrà. Insomma, Stalin, messo a paragone con Di Pietro, era un genio dell’economia di mercato.

Sorvolando pietosamente sull’aria fritta ventilata dai Soloni dell’Api rutelliana, il faldone elaborato dal Pd sollecita l’eliminazione della «protezione dai controlli fiscali per i 200.000 grandi evasori che hanno approfittato dello scudo a prezzi stracciati». Immaginatevi il fuggi fuggi generale verso i lidi esteri di tutti quelli che hanno riportato i loro tesoretti di nuovo all’interno dei confini patrii confidando nello scudo governativo. L’esodo riprenderebbe come prima e più forte di prima, con grave nocumento per le nostre casse. Insomma, sfoltito dell’enciclopedica messe di critiche sollevate contro la manovra governativa, di propositivo nel grimorio democratico c’è soltanto una striminzita paginetta di escamotage operativi tutti accuratamente privi d’indicazioni sulla copertura finanziaria. Sennò si sarebbe corso il rischio di proporre qualcosa di logico.

Naturalmente i vessilliferi del progresso propongono, in aggiunta a tutta questa futuristica dovizia di arzigogoli, l’abbandono del progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, tagli alla difesa, e l’ampliamento dell’accesso del fisco alle informazioni bancarie. Siamo alle solite. I nipotini di Orwell, orfani del Grande Fratello sovietico, sono sempre all’eterna, disperata ricerca di un sostituto. Non potendo più materialmente trasformare la società in un gulag, ripiegano per il Panoptikon di benthamiana memoria. Tutti sorvegliati e contenti. La privacy? Roba da evasori…

di Angelo Spaziano

08 luglio 2010

L'esperto di demolizioni: ecco come crollarono davvero le torri dell'11/9.

L'associazione «Architects & Engineers for 9/11 Truth» ("Architetti e Ingegneri per la Verità sull’11/9", ndt) presieduta dall'architetto americano Richard Gage ha incontrato Tom Sullivan, un tecnico esperto di demolizioni controllate nonché ex dipendente della Controlled Demolition Inc.

Secondo questo esperto, non c'è alcun dubbio: sono stati degli esplosivi la causa del crollo delle torri del World Trade Center.

Questa testimonianza avvalora e corrobora lo studio scientifico pubblicato nel marzo 2009 su «Bentham Open», sotto la direzione del professore di chimica dell’Università di Copenaghen Niels Harrit che aveva tratto la conclusione della presenza di esplosivi del tipo nano-termite nelle macerie del WTC, un materiale ultra sofisticato di origine militare.

Sullivan_CDI_card-idTom Sullivan è vicino al caso delle torri del WTC. Infatti, la società Controlled Demolition Inc. diretta da Mark Loiseaux (*) per la quale lavorava è stata una delle principali aziende incaricate dalla Autorità portuale e dalle Silverstein properties per sgomberare il sito di Ground Zero.

Ricordiamo che il sito fu liberato dalle macerie sotto l’alta supervisione della FBI, che vietò l’accesso al pubblico e ai giornalisti, così come alla Commissione d'inchiesta e agli ispettori FEMA, per i cui accessi furono poste restrizioni.

Il NIST non ha avuto accesso che ai depositi di Fresh Kills e al'aeroporto JFK.

La rimozione fu monitorata anche dal Comune, che chiese al NYPD di vietare le foto per rispetto delle vittime, oltre che dall'esercito, che utilizzava dei GPS speciali per seguire i movimenti dei camion carichi di macerie.

Nel momento in cui gli ultimi resti delle travi del WTC, essendo state utilizzate per la fabbricazione dello scafo della USS New-York, si apprestano a lasciare il loro hangar dell’aeroporto JFK per vari progetti di monumenti intesi a commemorare i 10 anni dagli attentati, coloro che si schierano per l’aggiornamento e l'esame degli indizi reali delle cause autentiche del crollo delle tre torri richiedono più che mai ai media di confrontarsi con questa nuova testimonianza di gran peso, e di sostenere la richiesta civica mondiale in favore di una nuova inchiesta.

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Prove dell'uso di esplosivi sul sito del WTC, secondo un ex tecnico della Controlled Demolitions Inc.

Collegamenti aggiunti da reopen911.info e Megachip.

Avendo avuto il privilegio di parlare con Tom Sullivan, un tecnico esperto nella collocazione di cariche esplosive per le demolizioni controllate, abbiamo alcune nuove chiavi che ci permettono di capire meglio il modo in cui la demolizione controllata funziona, laddove inizi, e quali sono state le ripercussioni dell’11 settembre nel settore delle demolizioni. Sullivan ha acquisito la sua esperienza in qualità di dipendente dell’azienda capofila in questo campo: la Controlled Demolition, Inc. (CDI). Tuttavia, Sullivan ha tenuto a sottolineare: «In nessun caso mi presento come portavoce per il CDI, e quello che ho da dire lo dico per esperienza e formazione personale.»

Sullivan è andato alle scuole superiori con Doug Loizeaux, della famiglia Loizeaux. Questa famiglia, in primo luogo il padre Jack, in modo autonomo ha lanciato l'intero settore delle demolizioni controllate, un’industria che alla fine è diventata un affare assai profittevole. Prima di avere a che fare con la CDI, Sullivan era un fotografo indipendente, durante i suoi primi anni nel Maryland. Sarebbe poi stato inviato nei siti delle demolizioni controllate per scattare fotografie dei lavori. Diventò perciò un appassionato ed entusiasta del settore delle demolizioni controllate.

Arrivò il momento in cui volle fare entrambe le cose: essere l’uomo che collocava le "cariche di taglio" sui punti di rottura, e quello che scattava le foto alla messa in opera per promuovere il proprio business. Presto sarebbe diventato un dipendente a tempo pieno della CDI, come AE911Truth ha avuto modo di verificare.

«È stato un lavoro molto interessante, ma anche duro, per lunghe ore, soprattutto quando faceva freddo», osserva Sullivan. Il quale aggiunge che la giornata di lavoro iniziava presto, intorno alle 6 del mattino, e si lavorava fino al tramonto. Sullivan ha lavorato all’allestimento degli edifici con la collocazione delle cariche di taglio in corrispondenza dei punti di rottura e poi, naturalmente, se ne stava a contemplare il tutto mentre crollava.

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Sullivan sottolinea che la preparazione richiede diverse settimane per "indebolire" gli edifici prima delle demolizioni. Gli edifici con struttura in acciaio semplicemente non cadono entro il perimetro della loro base in caduta libera senza un grosso lavoro lungo tutto l’edificio, a volte anche prima di piazzare le cariche esplosive. Sullivan sottolinea questo punto: «Gli incendi non possono radere al suolo edifici di grande altezza con struttura in acciaio. Punto.»

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Uno dei più interessanti lavori di Sullivan è stata la demolizione del colossale Kingdome, nella cui struttura in cemento armato lui stesso ha collocato di persona centinaia di micidiali cariche esplosive.

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Sullivan spiega che lavorare per CDI è stata «un'esperienza davvero unica». E aggiunge: «erano una famiglia molto unita», con riferimento ai valori familiari dei Loizeaux. «Ho imparato tramite l’osservazione», dice Sullivan, «non lo impari a scuola, ma sporcandoti le mani con il duro lavoro.» Sullivan ha scattato centinaia di foto dei progetti, attraverso cui ha sviluppato una profonda passione per questo lavoro.

Quando gli abbiamo chiesto cosa avesse reso la CDI il leader di mercato, ha risposto che «la loro famiglia aveva tutta l’esperienza perché aveva “inventato” l'arte della demolizione controllata. Per anni e anni hanno viaggiato per il mondo, facendo dimostrazioni e attività di formazione su come funziona questa particolare arte.»

Purtroppo, l'attività ha meno mercato dopo l’11 settembre. «La gente era spaventata, e se per caso si udiva una forte esplosione si pensava che fosse un qualche attentato terroristico», ha detto Sullivan, con una nota di frustrazione. «La paura ha preso il sopravvento e così non c’era più spazio per il business»., Anche Mark Loizeaux (il presidente del CDI) ha detto che l’11/9 lo aveva rovinato. Sullivan non ebbe altra scelta che lasciare la CDI. Curiosamente, la CDI ha avuto un ruolo nel ripulire il WTC nell'ambito di un subcontratto con Tully Construction. Il 22 settembre 2001, CDI sottopose un "preliminare" di 25 pagine al Dipartimento di progettazione e costruzione della città di New York, un piano connesso a rimozione e riciclaggio dell'acciaio. [¹]

Sullivan sostiene che sin dal primo giorno sapeva che la distruzione del World Trade Center 7 durante l’11 settembre era una classica implosione controllata. Quando gli abbiamo chiesto di darci la sua opinione su come l'edificio possa essere stato distrutto, ha spiegato che «osservando l'edificio non sarebbe stato un problema: una volta ottenuto l’accesso alle condutture degli ascensori ... allora un team di esperti di esplosivi avrebbe potuto accedere di soppiatto alle colonne e travi all’interno. Il resto verrebbe compiuto semplicemente con il giusto tipo di esplosivi per l’opera. Si può anche usare bene la termite.»

Brent Blanchard, fotografo della società di demolizioni controllate Protec, ha detto -a critica dell'ipotesi di una demolizione controllata - che si sarebbero dovuti trovare dappertutto i cavi per le detonazioni nonché gli involucri lasciati fra i mucchi di detriti dalle cariche di taglio . Così abbiamo chiesto una risposta a Sullivan, il quale nota che:

«I detonatori telecomandati senza fili esistono da anni. Guardate in qualsiasi film d'azione. E, naturalmente, i militari li hanno. Il motivo per cui la maggior parte dei fornitori del servizio non li adopera è perché sono molto costosi, ma in un progetto con un grandissimo budget non ci sarebbe alcun problema. Stesso discorso per gli involucri: tutti, in questo settore, compreso Blanchard, dovrebbero ben sapere che le cariche da taglio esplosive RDX, una volta esplose, vanno completamente distrutte, non rimane nulla. E nel caso delle cariche da taglio con la termite, è la stessa cosa. Gli involucri per cariche da taglio alla termite che si auto-consumano sono sulla piazza sin dal loro primo brevetto nel 1984»

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"Sullivan rileva che non sono necessari chilometri di cavi per detonatori grazie ai sistemi di detonazione moderni senza fili come quello prodotto da HiEX, e che sono accesi da computer remoti."

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Questa particolare carica da taglio è concepita per essere utilizzata con la termite. Sullivan osserva che il suo involucro si auto-consuma lasciando dietro di sé solo il ferro fuso sotto le macerie.

Abbiamo chiesto a Sullivan se tutti i piani del WTC 7 dovevano essere riempiti di esplosivi per avere successo nella demolizione controllata.

La sua risposta è

«No, perché nel caso di edifici con struttura d'acciaio, ciò di cui si ha bisogno è solo di caricare il primo terzo in basso del fabbricato per demolirlo: quando alla CDI fu dato un lavoro ad Hartford Conn, l’edificio CNG, è quanto abbiamo fatto e ha funzionato perfettamente».

Gli riferiamo che Ron Craig, un esperto di esplosioni per i film di Hollywood, ha obiettato - durante un dibattito che abbiamo avuto con lui - che ci sarebbero stati molti isolati con le finestre rotte, se avessimo avuto a che fare con una demolizione controllata .

Sullivan replica:

«la parola chiave qui è demolizione controllata – in altre parole un’attenta collocazione delle cariche - sempre focalizzata e precisa. Non stiamo parlando di innescare una bomba, in questo caso. La quantità e il tipo di esplosivo è un’arte, e i danni collaterali possono essere spesso completamente evitati».

Gli abbiamo poi chiesto conto della spiegazione di Shyam Sunder, che ha diretto l'inchiesta del NIST (National Institute of Standards and Technology), il quale ha dichiarato durante la famigerata conferenza stampa che "rivelava" la Relazione finale sul crollo dell’Edificio 7 del World Trade Center, che ci sarebbe dovuto essere un grande "botto" derivante da una potente esplosione se l'edificio fosse stato distrutto da una demolizione controllata.

Secondo Sullivan,

«In ogni implosione non vi è mai solo una grande esplosione, quanto semmai delle ondate di esplosioni più piccole – non diversamente dalla sezione delle percussioni in un'orchestra - quando ogni piano minato viene progressivamente coinvolto.»

E quando quel giorno Sullivan osservò i crolli delle torri, così come fecero molte persone, fu sorpreso non solo dalla velocità con cui avvennero, ma anche dalla loro simmetria e dal fatto che si verificarono all'improvviso.

«Sapevo che era un evento legato all’uso di esplosivi non appena l'ho visto, non avevo il minimo dubbio», sostiene Sullivan.

La maggior parte di noi è d'accordo su questo: non è un caso che la prima torre sia improvvisamente crollata, e poi la seconda nello stesso modo. Quel che lo convinse del tutto fu quando osservò il crollo della Torre numero 7 nello stesso giorno:

«Voglio dire, suvvia, era una distruzione completa. Ho visto edifici cadere nello stesso modo per anni. Questo chiudeva il discorso lì, per me».

Si tenga a mente che Sullivan ha lavorato in questo settore per molti anni: è una seconda natura per lui, il riconoscere questo tipo di demolizioni. Se c'è qualcuno che può esprimere la sua opinione, questo è sicuramente lui. Tuttavia, abbiamo ancora da chiedergli: Potrebbe esserci qualche possibilità che dei normali incendi d'ufficio (la causa ufficiale del "collasso") possano essere stati responsabili del crollo perfettamente simmetrico, regolare, a velocità di caduta libera dell’Edificio 7? «Nessuna possibilità», ribadisce. Volevamo solo essere sicuri.

Quando gli chiediamo se ha seguito alcuna delle audizioni della Commissione di inchiesta sull’11/9 o di quelle legate alla relazione del NIST, ci dà la stessa a stessa risposta per entrambe:

«Io non ho alcuna tolleranza per la gente che mi mente su quel che so essere vero. Ho abbandonato il campo disgustato e non ho mai assistito ad alcuna audizione dopo la prima. Stesso discorso per il NIST, non ho guardato la presentazione NIST, perché sapevo che cosa dovevo aspettarmi.» Tuttavia, ha letto la relazione finale sul crollo dell’Edificio 7 e racconta di essersi infuriato al pensiero che potessero davvero convincere così tanta gente con le loro spiegazioni fraudolente.

Sullivan venne in contatto per la prima volta con AE911Truth tramite un amico che gli aveva inviato il DVD 9/11: Blueprint for Truth. Lo guardò e si sentì felicissimo di scoprire che c’era un’associazione che cercava di informare il pubblico su quel che lui cercava di spiegare sin da quel tragico giorno. «AE911Truth è il gruppo più attento e organizzato del movimento per la verità sul 11 Settembre. Non c'è speculazione», afferma. «“Blueprint for Truth” è fatto di informazioni fattuali e importanti basate solo sulla scienza e la fisica, ed è chiaro e preciso.» Quando gli chiediamo se è d'accordo con le prove avanzate dal DVD, Sullivan annuisce: «Contiene prove estremamente convincenti.»

Infine, gli chiediamo: «Quanti architetti e ingegneri occorrerà che parlino all’unisono, per poter far finalmente sentire alla gente che abbiamo un problema?». E lui:«Quanto l'elenco si allunga, diventerà sempre più difficile negare il problema, ma continueranno a negare lo stesso.»

p.s.

1) Sullivan è venuto dalla costa orientale USA per una presentazione breve ma importante (QUI) nei giorni 7 e 8 maggio, in occasione della presentazione congiunta di Architects & Engineers for 9/11 Truth e di Firefighters for 9/11 Truth. Ha raggiunto Richard Gage, dell’AIA e Erik Lawyer per una presentazione di 10 minuti e ha risposto a qualche domanda sul settore delle demolizioni, sulla famiglia Loizeaux della CDI, e sul modo in cui i tre grattacieli del WTC furono demoliti. Prima di questa presentazione era già comparso con Gage e Lawyer alla KFPA Radio Berkeley nella trasmissione "Guns & Butter" in compagnia di Bonnie Faulkner, che aveva grandi domande da porre.

2) La dicitura "DO NOT COPY" (“non copiare”, ndt) sovrimpressa sulle immagini è stata aggiunta da Tom Sullivan. Queste immagini non possono essere copiate in contesti diversi dal presente articolo, o dopo sua specifica approvazione.

by megachip

Il raggio dell'energia gratuita. Made in Italy



Marconi ideò un raggio che fermava i mezzi a motore. Mussolini lo voleva, il Vaticano lo bloccò. Da quelle ricerche gli scienziati crearono l’alternativa a petrolio e nucleare. Nel 1999 l’invenzione stava per essere messa sul mercato, ma poi tutto fu insabbiato.

L’energia pulita tanto auspicata dal presidente Obama dopo il disastro ambientale del Golfo del Messico forse esiste già da un pezzo, ma qualcuno la tiene nascosta per inconfessabili interessi economici. Ma non solo. Negli anni Settanta, infatti, un gruppo di scienziati italiani ne avrebbe scoperto il segreto, ma questa nuova e stupefacente tecnologia, che di fatto cambierebbe l’ economia mondiale archiviando per sempre i rischi del petrolio e del nucleare, sarebbe stata volutamente occultata nella cassaforte di una misteriosa fondazione religiosa con sede nel Liechtenstein, dove si troverebbe tuttora. Sembra davvero la trama di un giallo internazionale l’incredibile storia che si nasconde dietro quella che, senza alcun dubbio, si potrebbe definire la scoperta epocale per eccellenza, e cioè la produzione di energia pulita senza alcuna emissione di radiazioni dannose. In altre parole, la realizzazione di un macchinario in grado di dissolvere la materia, intendendo con questa definizione qualunque tipo di sostanza fisica, producendo solo ed esclusivamente calore.

Una scoperta per caso

Come ogni giallo che si rispetti, l’intricata vicenda che si nasconde dietro la genesi di questa scoperta è stata svelata quasi per caso. Lo ha fatto un imprenditore genovese che una decina d’anni fa si è trovato ad avere rapporti di affari con la fondazione che nasconde e gestisce il segreto di quello che, per semplicità, chiameremo «il raggio della morte». E sì, perché la storia che stiamo per svelare nasce proprio da quello che, durante il fascismo, fu il mito per eccellenza: l’arma segreta che avrebbe rivoluzionato il corso della seconda guerra mondiale. Sembrava soltanto una fantasia, ma non lo era. In quegli anni si diceva che persino Guglielmo Marconi stesse lavorando alla realizzazione del «raggio della morte». La cosa era solo parzialmente vera. Secondo quanto Mussolini disse al giornalista Ivanoe Fossati durante una delle sue ultime interviste, Marconi inventò un apparecchio che emetteva un raggio elettromagnetico in grado di bloccare qualunque motore dotato di impianto elettrico.

Tale raggio, inoltre, mandava in corto circuito l’impianto stesso, provocandone l’incendio. Lo scienziato dette una dimostrazione, alla presenza del duce del fascismo, ad Acilia, sulla strada di Ostia, quando bloccò auto e camion che transitavano sulla strada. A Orbetello, invece, riuscì a incendiare due aerei che si trovavano ad oltre due chilometri di distanza. Tuttavia, dice sempre Mussolini, Marconi si fece prendere dagli scrupoli religiosi. Non voleva essere ricordato dai posteri come colui che aveva provocato la morte di migliaia di persone, bensì solo come l’inventore della radio. Per cui si confidò con Papa Pio XII, il quale gli consigliò di distruggere il progetto della sua invenzione. Cosa che Marconi si affretto a fare, mandando in bestia Mussolini e gerarchi. Poi, forse per il troppo stress che aveva accumulato in quella disputa, nel 1937 improvvisamente venne colpito da un infarto e morì a soli 63 anni.

La fine degli anni Trenta fu comunque molto prolifica da un punto di vista scientifico. Per qualche imperscrutabile gioco del destino, pare che la fantasia e la creatività degli italiani non fu soltanto all’origine della prima bomba nucleare realizzata negli Stati Uniti da Enrico Fermi e dai suoi colleghi di via Panisperna; altri scienziati, continuando gli studi sulla scissione dell’atomo, trovarono infatti il modo di «produrre ed emettere sino a notevoli distanze anti-atomi di qualsiasi elemento esistente sul nostro pianeta che, diretti contro una massa costituita da atomi della stessa natura ma di segno opposto, la disgregano ionizzandola senza provocare alcuna reazione nucleare, ma producendo egualmente una enorme quantità di energia pulita». Tanto per fare un esempio concreto, ionizzando un grammo di ferro si sviluppa un calore pari a 24 milioni di KWh, cioè oltre 20 miliardi di calorie, capaci di evaporare 40 milioni di litri d’acqua. Per ottenere un uguale numero di calorie, occorrerebbe bruciare 15mila barili di petrolio. Sembra quasi di leggere un racconto di fantascienza, ma è soltanto la pura e semplice realtà. Almeno quella che i documenti in possesso dell’imprenditore genovese Enrico M. Remondini dimostrano.

La testimonianza

«Tutto è cominciato – racconta Remondini – dal contatto che nel 1999 ho avuto con il dottor Renato Leonardi, direttore della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, con sede a Vaduz, capitale del Liechtenstein. Il mio compito era quello di stipulare contratti per lo smaltimento di rifiuti solidi tramite le Centrali termoelettriche polivalenti della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Non mi hanno detto dove queste centrali si trovassero, ma so per certo che esistono. Altrimenti non avrebbero fatto un contratto con me. In quel periodo, lavoravo con il mio collega, dottor Claudio Barbarisi. Per ogni contratto stipulato, la nostra percentuale sarebbe stata del 2 per cento. Tuttavia, per una clausola imposta dalla Fondazione stessa, il 10 per cento di questa commissione doveva essere destinata a favore di aiuti umanitari. Considerando che lo smaltimento di questi rifiuti avveniva in un modo pressoché perfetto, cioè con la ionizzazione della materia senza produzione di alcuna scoria, sembrava davvero il modo ottimale per ottenere il risultato voluto. Tuttavia, improvvisamente, e senza comunicarci il perché, la Fondazione ci fece sapere che le loro centrali non sarebbero più state operative. E fu inutile chiedere spiegazioni. Pur avendo un contratto firmato in tasca, non ci fu nulla da fare. Semplicemente chiusero i contatti».

Remondini ancora oggi non conosce la ragione dell’improvviso voltafaccia. Ha provato a telefonare al direttore Leonardi, che tra l’altro vive a Lugano, ma non ha mai avuto una spiegazione per quello strano comportamento. Inutili anche le ricerche per vie traverse: l’unica cosa che è riuscito a sapere è che la Fondazione è stata messa in liquidazione. Per cui è ipotizzabile che i suoi segreti adesso siano stati trasferiti ad un’altra società di cui, ovviamente, si ignora persino il nome. Ciò significa che da qualche parte sulla terra oggi c’è qualcuno che nasconde il segreto più ambito del mondo: la produzione di energia pulita ad un costo prossimo allo zero. Nonostante questo imprevisto risvolto, in mano a Remondini sono rimasti diversi documenti strettamente riservati della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, per cui alla fine l’imprenditore si è deciso a rendere pubblico ciò che sa su questa misteriosa istituzione.

Per capire i retroscena di questa tanto mirabolante quanto scientificamente sconosciuta scoperta, occorre fare un salto indietro nel tempo e cercare di ricostruire, passo dopo passo, la cronologia dell’invenzione. Ad aiutarci è la relazione tecnico-scientifica che il 25 ottobre 1997 la Fondazione Internazionale Pace e Crescita ha fatto avere soltanto agli addetti ai lavori. Ogni foglio, infatti, è chiaramente marcato con la scritta «Riproduzione Vietata». Ma l’enormità di quanto viene rivelato in quello scritto giustifica ampiamente il non rispetto della riservatezza richiesta.

Il «raggio della morte», infatti, pur essendo stato concepito teoricamente negli anni Trenta, avrebbe trovato la sua base scientifica soltanto tra il 1958 e il 1960. Il condizionale è d’obbligo in quanto riportiamo delle notizie scritte, ma non confermate dalla scienza ufficiale. Non sappiamo da chi era composto il gruppo di scienziati che diede vita all’esperimento: i nomi non sono elencati. Sappiamo invece che vi furono diversi tentativi di realizzare una macchina che corrispondesse al modello teorico progettato, ma soltanto nel 1973 si arrivò ad avere una strumentazione in grado di «produrre campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti, in modo da colpire qualsiasi materia, ionizzandola a distanza ed in quantità predeterminate».

Ok dal governo Andreotti

Fu a quel punto che il governo italiano cominciò ad interessarsi ufficialmente a quegli esperimenti. E infatti l’allora governo Andreotti, prima di passare la mano a Mariano Rumor nel luglio del ‘73, incaricò il professor Ezio Clementel, allora presidente del Comitato per l’energia nucleare (Cnen), di analizzare gli effetti e la natura di quei campi magnetici a fascio. Clementel, trentino originario di Fai e titolare della cattedra di Fisica nucleare alla facoltà di Scienze dell’Università di Bologna, a quel tempo aveva 55 anni ed era uno dei più noti scienziati del panorama nazionale e internazionale. La sua responsabilità, in quella circostanza, era grande. Doveva infatti verificare se quel diabolico raggio avesse realmente la capacità di distruggere la materia ionizzandola in un’esplosione di calore. Anche perché non ci voleva molto a capire che, qualora l’esperimento fosse riuscito, si poteva fare a meno dell’energia nucleare e inaugurare una nuova stagione energetica non soltanto per l’Italia, ma per il mondo intero.

Tanto per fare un esempio, questa tecnologia avrebbe permesso la realizzazione di nuovi e potentissimi motori a razzo che avrebbero letteralmente rivoluzionato la corsa allo spazio, permettendo la costruzione di gigantesche astronavi interplanetarie. Il professor Clementel ordinò quindi quattro prove di particolare complessità. La prima consisteva nel porre una lastra di plexiglass a 20 metri dall’uscita del fascio di raggi, collocare una lastra di acciaio inox a mezzo metro dietro la lastra di plexiglass e chiedere di perforare la lastra d’acciaio senza danneggiare quella di plexiglass. La seconda prova consisteva nel ripetere il primo esperimento, chiedendo però di perforare la lastra di plexiglass senza alterare la lastra d’acciaio. Il terzo esame era ancora più difficile: bisognava porre una serie di lastre d’acciaio a 10, 20 e 40 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo di bucare le lastre a partire dall’ultima, cioè quella posta a 40 metri. Nella quarta e ultima prova si doveva sistemare una pesante lastra di alluminio a 50 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo che venisse tagliata parallelamente al lato maggiore.

Ebbene, tutte e quattro le prove ebbero esito positivo e il professor Clementel, considerando che la durata dell’impulso dei raggi era minore di 0,1 secondi, valutò la potenza, ipotizzando la vaporizzazione del metallo, a 40.000 KW e la densità di potenza pari a 4.000 KW per centimetro quadrato. In realtà, venne spiegato a sperimentazione compiuta, l’impulso dei raggi aveva avuto la durata di un nano secondo e poteva ionizzare a distanza «forma e quantità predeterminate di qualsiasi materia». Tra l’altro all’esperimento aveva assistito anche il professor Piero Pasolini, illustre fisico e amico di un’altra celebrità scientifica qual è il professor Antonino Zichichi. In una sua relazione, Pasolini parlò di «campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti che sviluppano atomi di antimateria proiettati e focalizzati in zone di spazio ben determinate anche al di là di schemi di materiali vari, che essendo fuori fuoco si manifestano perfettamente trasparenti e del tutto indenni». In pratica, ma qui entriamo in una spiegazione scientifica un po’ più complessa, gli scienziati italiani che avevano realizzato quel macchinario, sarebbero riusciti ad applicare la teoria di Einstein sul campo unificato, e cioè identificare la matrice profonda ed unica di tutti i campi di interazione, da quello forte (nucleare) a quello gravitazionale. Altri fisici in tutto il mondo ci avevano provato, ma senza alcun risultato. Gli italiani, a quanto pare, c’erano riusciti.



L’insabbiamento

In un Paese normale (ma tutti sappiamo che il nostro non lo è) una simile scoperta sarebbe stata subito messa a frutto. Non ci vuole molta fantasia per capire le implicazioni industriali ed economiche che avrebbe portato. Anche perché, quella che a prima vista poteva sembrare un’arma di incredibile potenza, nell’uso civile poteva trasformarsi nel motore termico di una centrale che, a costi bassissimi, poteva produrre infinite quantità di energia elettrica. Perché, dunque, questa scoperta non è stata rivelata e utilizzata? La ragione non viene spiegata. Tutto quello che sappiamo è che i governi dell’epoca imposero il segreto sulla sperimentazione e che nessuno, almeno ufficialmente, ne venne a conoscenza. Del resto nel 1979 il professor Clementel morì prematuramente e si portò nella tomba il segreto dei suoi esperimenti.

Ma anche dietro Clementel si nasconde una vicenda piuttosto strana e misteriosa. Pare, infatti, che le sue idee non piacessero ai governanti dell’epoca. Non si sa esattamente quale fosse la materia del contendere, ma alla luce della straordinaria scoperta che aveva verificato, è facile immaginarlo. Forse lo scienziato voleva rendere pubblica la notizia, mentre i politici non ne volevano sapere. Chissà? Ebbene, qualcuno trovò il sistema per togliersi di torno quello scomodo presidente del Cnen. Infatti venne accertato che la firma di Clementel appariva su registri di esame all’Università di Trento, della quale all’epoca era il rettore, in una data in cui egli era in missione altrove. Sembrava quasi un errore, una svista. Ma gli costò il carcere, la carriera e infine la salute.

Lo scienziato capì l’antifona, e non disse mai più nulla su quel «raggio della morte» che gli era costato così tanto caro. A Clementel è dedicato il Centro ricerche energia dell’Enea a Bologna. C’è comunque da dire che già negli anni Ottanta qualcosa venne fuori riguardo un ipotetico «raggio della morte». Il primo a parlarne fu il giudice Carlo Palermo che dedicò centinaia di pagine al misterioso congegno, affermando che fu alla base di un intricato traffico d’armi. La storia coinvolse un ex colonnello del Sifar e del Sid, Massimo Pugliese, ma anche esponenti del governo americano (allora presieduto da Gerald Ford), i parlamentari Flaminio Piccoli (Dc) e Loris Fortuna (Psi), nonché una misteriosa società con sede proprio nel Liechtenstein, la Traspraesa. La vicenda durò dal 1973 al 1979, quando improvvisamente calò una cortina di silenzio su tutto quanto.

Erano comunque anni difficili. L’Italia navigava nel caos. Gli attentati delle Brigate rosse erano all’ordine del giorno, la società civile soffocava nel marasma, i servizi segreti di mezzo mondo operavano sul nostro territorio nazionale come se fosse una loro riserva di caccia. Il 16 marzo 1978 i brigatisti arrivarono al punto di rapire il presidente del Consiglio, Aldo Moro, uccidendo i cinque poliziotti della scorta in un indimenticabile attentato in via Fani, a Roma. E tutti ci ricordiamo come andò a finire. Tre anni dopo, il 13 maggio 1981, il terrorista turco Mehmet Ali Agca in piazza San Pietro ferì a colpi di pistola Giovanni Paolo II.

È in questo contesto, che il «raggio della morte» scomparve dalla scena. Del resto, ammesso che la scoperta avesse avuto una consistenza reale, chi sarebbe stato in grado di gestire e controllare gli effetti di una rivoluzione industriale e finanziaria che di fatto avrebbe cambiato il mondo? Non ci vuole molto, infatti, ad immaginare quanti interessi quell’invenzione avrebbe danneggiato se soltanto fosse stata resa pubblica. In pratica, tutte le multinazionali operanti nel campo del petrolio e dell’energia nucleare avrebbero dovuto chiudere i battenti o trasformare da un giorno all’altro la loro produzione. Sarebbe veramente impossibile ipotizzare una cifra per quantificare il disastro economico che la nuova scoperta italiana avrebbe portato.

Ma queste sono solo ipotesi. Ciò che invece risulta riguarda la decisione presa dagli autori della scoperta. Infatti, dopo anni di traversie e inutili tentativi per far riconoscere ufficialmente la loro invenzione, probabilmente temendo per la loro vita e per il futuro della loro strumentazione, questi scienziati consegnarono il frutto del loro lavoro alla Fondazione Internazionale Pace e Crescita, che l’11 aprile 1996 venne costituita apposta, verosimilmente con il diretto appoggio logistico-finanziario del Vaticano, a Vaduz, ben al di fuori dei confini italiani. In quel momento il capitale sociale era di appena 30mila franchi svizzeri (circa 20mila Euro). «Sembra anche a noi – si legge nella relazione introduttiva alle attività della Fondazione – che sia meglio costruire anziché distruggere, non importa quanto possa essere difficile, anche se per farlo occorrono molto più coraggio e pazienza, assai più fantasia e sacrificio».

A prescindere dal fatto che non si trova traccia ufficiale di questa fantomatica Fondazione, se non la notizia (in tedesco) che il primo luglio del 2002 è stata messa in liquidazione, parrebbe che a suo tempo l’organizzazione fosse stata costituita in primo luogo per evitare che un’invenzione di quella portata fosse utilizzata solo per fini militari. Del resto anche i missili balistici (con quello che costano) diventerebbero ben poca cosa se gli eserciti potessero disporre di un macchinario che, per distruggere un obiettivo strategico, necessiterebbe soltanto di un sistema di puntamento d’arma. Secondo voci non confermate, la decisione degli scienziati italiani sarebbe maturata dopo una serie di minacce che avevano ricevuto negli ambienti della capitale. Ad un certo punto si parla pure di un attentato con una bomba, sempre a Roma.

Si dice che, per evitare ulteriori brutte sorprese, quegli scienziati si appellarono direttamente a Papa Giovanni Paolo II e la macchina che produce il «raggio della morte» venisse nascosta per qualche tempo in Vaticano. Da qui la decisione di istituire la fondazione e di far emigrare tutti i protagonisti della vicenda nel più tranquillo Liechtenstein. In queste circostanze, forse non fu un caso che proprio il 30 marzo 1979 il Papa ricevette in Vaticano il Consiglio di presidenza della Società Europea di Fisica, riconoscendo, per la prima volta nella storia della Chiesa, in Galileo Galilei (1564-1642) lo scopritore della Logica del Creato. Comunque sia, da quel momento in poi, la parola d’ordine è stata mantenere il silenzio assoluto.

Le macchine del futuro

Qualcosa, però, nel tempo è cambiata. Lo prova il fatto che la Fondazione Internazionale Pace e Crescita non si sarebbe limitata a proteggere gli scienziati cristiani in fuga, ma nel periodo tra il 1996 e il 1999 avrebbe proceduto a realizzare per conto suo diverse complesse apparecchiature che sfruttano il principio del «raggio della morte». Secondo la loro documentazione, infatti, è stata prodotta una serie di macchinari della linea Zavbo pronti ad essere adibiti per più scopi. L’elenco comprende le Srsu/Tep (smaltimento dei rifiuti solidi urbani), Srlo/Tep (smaltimento dei rifiuti liquidi organici), Srtp/Tep (smaltimento dei rifiuti tossici), Srrz/Tep (smaltimento delle scorie radioattive), Rcc (compattazione rocce instabili), Rcz (distruzione rocce pericolose), Rcg (scavo gallerie nella roccia), Cls (attuazione leghe speciali), Cen (produzione energia pulita). A quest’ultimo riguardo, nella documentazione fornita da Remondini si trovano anche i piani per costruire centrali termoelettriche per produrre energia elettrica a bassissimo costo, smaltendo rifiuti. C’è tutto, dalle dimensioni all’ampiezza del terreno necessario, come si costruisce la torre di ionizzazione e quante persone devono lavorare (53 unità) nella struttura. Un’intera centrale si può fare in 18 mesi e potrà smaltire fino a 500 metri cubi di rifiuti al giorno, producendo energia elettrica con due turbine Ansaldo.

C’è anche un quadro economico (in milioni di dollari americani) per calcolare i costi di costruzione. Nel 1999 si prevedeva che una centrale di questo tipo sarebbe costata 100milioni di dollari. Una peculiarità di queste centrali è che il loro aspetto è assolutamente fuorviante. Infatti, sempre guardando i loro progetti, si nota che all’esterno appaiono soltanto come un paio di basse palazzine per uffici, circondate da un ampio giardino con alberi e fiori. La torre di ionizzazione, dove avviene il processo termico, è infatti completamente interrata per una profondità di 15 metri. In pratica, un pozzo di spesso cemento armato completamente occultato alla vista. In altre parole, queste centrali potrebbero essere ovunque e nessuno ne saprebbe niente.

Da notare che, secondo le ricerche compiute dalla International Company Profile di Londra, una società del Wilmington Group Pic, leader nel mondo per le informazioni sul credito e quotata alla Borsa di Londra, la Fondazione Internazionale Pace e Crescita, fin dal giorno della sua registrazione a Vaduz, non ha mai compiuto alcun tipo di operazione finanziaria nel Liechtenstein, né si conosce alcun dettaglio del suo stato patrimoniale o finanziario, in quanto la legge di quel Paese non prevede che le Fondazioni presentino pubblicamente i propri bilanci o i nomi dei propri fondatori. Si conosce l’indirizzo della sede legale, ma si ignora quale sia stato quello della sede operativa e il tipo di attività che la Fondazione ha svolto al di fuori dei confini del Liechtenstein.

Ovviamente mistero assoluto su quanto sia accaduto dopo il primo luglio del 2002 quando, per chissà quali ragioni, ma tutto lascia supporre che la sicurezza non sia stata estranea alla decisione, la Fondazione ufficialmente ha chiuso i battenti. Ancora più strabiliante è l’elenco dei clienti, o presunti tali, fornito a Remondini. In tutto 24 nomi tra i quali spiccano i maggiori gruppi siderurgici europei, le amministrazioni di due Regioni italiane e persino due governi: uno europeo e uno africano. Da notare che, in una lettera inviata dalla Fondazione a Remondini, si parla di proseguire con i contatti all’estero, ma non sul territorio nazionale «a causa delle problematiche in Italia». Ma di quali «problematiche» si parla? E, soprattutto, com’è che una scoperta di questo tipo viene utilizzata quasi sottobanco per realizzare cose egregie (pensiamo soltanto alla produzione di energia elettrica e allo smaltimento di scorie radioattive), mentre ufficialmente non se ne sa niente di niente?
recensione

07 luglio 2010

Tassa su tassa. E’ l’Italia che va?


Dice il tasso a un altro tasso, indicando uno stupendo esemplare di femmina della stessa specie: «Dì un po’, ma tu le paghi le tasse?». E’ una celebre illustrazione tratta dal Diariovitt di Jacovitti, il grande vignettista che riusciva a far sorridere la gente anche satireggiando su un argomento ostico come quello fiscale. Ed effettivamente è assai difficile, oggigiorno, trovare qualcuno disposto a ironizzare sullo spauracchio delle imposte. Questo territorio, almeno per gli italiani, rimane assolutamente verboten allo humour. Le gabelle infatti anno dopo anno sono diventate sempre più pesanti e numerose, tanto da indurre l’opinione pubblica a individuare nella leva fiscale uno strumento ingiustamente vessatorio, punitivo in particolar modo nei confronti di chi, come il popolo del reddito fisso, non può nascondere nulla all’ufficio esattoriale, venendo considerato alla stregua di “mucche da mungere” e favorendo il fugone oltralpe di un fiume di denaro non dichiarato.

E’ di questi giorni la notizia che la spesa pubblica italiana, durante lo scorso anno, ha sfiorato la barriera degli 800 miliardi di euro, attestandosi precisamente a 798.864 mld, risultando così in crescita per il terzo anno consecutivo, superando in percentuale oltre la metà del Pil nazionale. Il valore totale delle uscite, insomma, è tornato a incidere sul Pil italiano in misura analoga a quella registrata nel 1996, quando il rapporto spesa-Pil ammontava al 52,6%. In confronto agli altri nostri partner dell’Ue la partita in uscita dell’Italia in relazione al Pil è stata infatti più alta di 1,2 punti percentuali rispetto alla media dei paesi dell’Unione. Evidentemente nel portafogli dell’erario, alle nostre latitudini, hanno pesato, e molto, i costi degli ammortizzatori sociali elargiti dal governo per consentire alle famiglie di far fronte alla crisi che ha colpito i mercati finanziari, e quindi l’economia mondiale.

Sarà. Comunque, ammortizzatori o meno, anche “prima” del 2008 non è che vivessimo in un paradiso fiscale. Il fatto increscioso è che questa esagerata mole d’impieghi deve per forza di cose essere “finanziata”. E da chi? Ma da tutti noi, è ovvio. E come? Tramite la leva tributaria, of course. Tutto questo “generoso” scialo di risorse, cioè, si traduce, in soldoni, in una valanga di balzelli a nostro carico. Uno tsunami che opprime lo sfortunato contribuente del Bel Paese tanto pesantemente da offrire un formidabile assist al già nutrito popolo degli evasori, che individua appunto nell’evasione, piuttosto che un reato, una legittima difesa, seppure estrema, dalla smodata bulimia di Stato. Il si salvi chi può da parte dei furbacchioni che hanno trasferito all’estero i loro tesoretti ha preso la stura proprio da questa bramosia. Una bramosia tale che nel 2009 l’onere fiscale sul Pil ha registrato il 43,2%, facendo schizzare il nostro paese al V posto in Europa per voracità tributaria, in condominio con la Francia e subito dopo Austria, Belgio, Danimarca e Svezia, quando nel 2008 si era piazzato al settimo posto.

Insomma, paghiamo come la Svezia per avere servizi degni del Burundi. Si è trattato della peggiore performance dal 1997. Un esito, secondo l’Istat, dovuto a una flessione del Pil maggiore di quella fatta registrare dal «gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario, cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi di euro». Va sottolineato che nel novero delle “imposte straordinarie” vanno considerati i fiumi di cash affluiti in Italia dai forzieri esteri grazie allo scudo fiscale, calcolati in 5 miliardi di euro.

E meno male che lo scudo c’è, si potrebbe parafrasare, in quanto durante il 2009 la maggior parte delle voci d’entrata dell’erario hanno registrato invece una marcata flessione. Le imposte indirette infatti l’anno scorso sono calate del 4,2% dopo avere già perduto il 4,9 nel 2008. Quelle dirette sono affondate del 7,1% e i contributi sociali dello 0,5%. La contrazione delle dirette è da scrivere prevalentemente al collasso dell’Ires (-23%), mentre le indirette hanno accusato la picchiata dell’Iva (-6,7%) e dell’Irap (-13%). Molto più contenuto è stato il calo dei contributi sociali, che hanno risentito della sostanziale tenuta degli stipendi, un fenomeno da ascrivere al lievitare dell’ammontare medio pro capite, che è andato a compensare il marcato flop occupazionale. Ma la doccia fredda è nascosta là dove meno te l’aspetti. Vale a dire nelle valutazioni fornite dai commercialisti, secondo i quali, in quanto a pressione fiscale, l’Italia è sostanzialmente al top delle classifiche della rapina tributaria ai danni della collettività.

«Quello del 2009 è un record negativo assoluto», hanno sostenuto gli esperti del ramo. Lo scorso anno, infatti, per l’ufficio studi del Consiglio dei commercialisti, la pressione fiscale autentica, quella avvertita sulla propria pelle dalla cittadinanza tutta, era in realtà al 51,6%. «Un record negativo assoluto» rispetto al 50,8% del 2008. «Questo perché la componente di economia sommersa stimata in Italia è percentualmente più rilevante di quella di tutti gli altri paesi europei, esclusa la sola Grecia», ha concluso il presidente dei commercialisti Siciliotti. Economia sommersa sta per “nero”. Un deprecabile iceberg la cui superficie visibile è soltanto una parte infinitesimale della montagna celata sotto il mare dell’illecito. Un volume di “evaso” che avrebbe portato la reale pressione fiscale nel 2009 a un valore che più o meno oscillerebbe attorno al 52%. Una considerazione suffragata anche dalla Cgia di Mestre. «Se storniamo dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico, il Pil diminuisce – quindi si contrae anche il denominatore – e, pertanto, aumenta il risultato che emerge dal rapporto. Ovvero, la pressione fiscale», hanno sostenuto gli artigiani di Mestre.

Anche Confindustria ha lanciato l’allarme: «La pressione fiscale è un problema di cui parliamo da sempre. Oggi è ai massimi, quindi è un problema per la crescita», ha affermato Emma Marcegaglia. «Da tempo – ha ricordato la presidentessa degli industriali italiani – stiamo chiedendo al ministro Tremonti di aprire un tavolo sul fisco, come promesso».

Intanto, per l’Eurostat, l’Italia domina anche le classifiche dei paesi a più alto onere fiscale a carico del lavoro. Nel 2008, infatti, esso è stato pari al 42,8%: di gran lunga maggiore rispetto a quello della media Ue, pari al 34,2%. Solo le accise sui consumi da noi sono le più soft: 16,4% contro una media di Ue del 20,8%. Come si può facilmente constatare, siamo veramente ridotti a raschiare il fondo del barile. Un barile ormai disseccato dalle dissennate politiche erariali portate avanti negli anni spensierati dello sperpero facile e dello spreco istituzionalizzato.

Con l’avvento degli esecutivi a guida berlusconiana sembrava essere arrivati a un salutare rinsavimento. Insomma, pareva proprio che la deprecabile abitudine di tosare il parco buoi dei contribuenti impossibilitati ad evadere, come i salariati, gli stipendiati, la pubblica amministrazione, a vantaggio dei soliti noti, fosse sul punto di subire un salutare ripensamento. Invece, il default greco, il temuto crack spagnolo e portoghese, il collasso ungherese e romeno, lo sforamento irlandese, e inglese, e italiano, e francese hanno mandato tutto a ramengo. Le buone intenzioni del premier hanno insomma dovuto decampare davanti al pessimo esempio gestionale fornito in blocco dagli stati continentali, i quali, tranne forse la sola Germania, invece di essere una comunità di formiche s’è rivelata una masnada di cicale.

Cicale gelose delle proprie prerogative, dei propri privilegi, delle proprie autonomie, abituate a vivere al disopra delle loro possibilità ma prontissime a bussare alla porta di Bruxelles al primo cenno di bancarotta, quando per finanziare le loro (una volta) allegre economie sono state costrette a ricorrere agli usurai. L’esito fatale di tutta questa dispendiosa cuccagna sarà una severa politica di austerithy a livello continentale, con un nuovo giro di vite sul fronte delle gabelle.

Certo, l’alternativa, almeno dalle nostre parti, ci sarebbe, eccome. Basterebbe tagliare le spese superflue. Ma a giudicare dalle orecchie che dovrebbero recepire il messaggio, sono in tanti in Italia a dover ricorrere alla Maico. Tremonti, infatti, ci ha pure provato a proporre il machete contro i rami secchi dello stato e del parastato, secchi di prestazioni ma irroratissimi quanto a linfa vitale dissipata. I suoi colleghi di governo, invece, remando contro, gli hanno dapprima ipotizzato le cesoie per poi promettergli le forbicine e consegnargli in concreto le limette per le unghie. Il risultato è che le Province non si possono tagliare perché non lo vuole Bossi. Le Regioni non si possono alleggerire perché non lo vuole Formigoni. La Pubblica Amministrazione non si può snellire perché non lo vuole Fini. La Difesa non si può toccare sennò s’incazza La Russa. La cultura? Subito scendono sul piede di guerra nani, guitti, ballerine e guzzantine varie. La Sanità? Peggio di così…La scuola? Idem. I magistrati? E’ un golpe. I calciatori? Ma va là. Sono così bravi e competenti, in Sud Africa hanno dato tanto lustro alla Patria… Gli unici che corrono il rischio di essere soppressi sono i prefetti, in quanto non costano nulla, servono a molto e non godono di appoggi presso i poteri forti.

Così ci siamo ridotti a dissertare se il Grande Raccordo Anulare della Capitale sia a rischio pedaggio o meno. Naturalmente, a usare un po’ più di parsimonia nell’uso delle auto blu, delle scorte, dei rimborsi spese, insomma, a sfoltire il ginepraio di privilegi goduti, quelli della casta non ci pensano nemmeno. Perciò, per non incappare in una prospettiva greca, sempre più probabile vista l’aria che tira - “una fazzia una razzia” – toccherà rassegnarsi a versare almeno 24 miliardi di euro nel buco nero di Pantalone, secondo i dettami della manovra tremontiana, e risolversi a votare contro i partiti governativi alle prossime elezioni politiche.

Ma anche qui c’è poco da stare allegri. La parola d’ordine lanciata in questi giorni dagli scranni dell’opposizione infatti è “contromanovra”. Detta così suona alquanto bene, ma se uno si prendesse la briga di andare a leggersi con attenzione le sterminate lenzuolate stilate da Bersani & Co. Si avrebbero delle sconcertanti sorprese. Antonio Di Pietro infatti nelle sue elucubrazioni al mulino bianco propone maggiori introiti per 65 miliardi di euro tramite la reintroduzione dell’Ici e l’istituzione di un “redditometro a riscossione immediata”. Vale a dire: intanto paghi subito, e poi si vedrà. Insomma, Stalin, messo a paragone con Di Pietro, era un genio dell’economia di mercato.

Sorvolando pietosamente sull’aria fritta ventilata dai Soloni dell’Api rutelliana, il faldone elaborato dal Pd sollecita l’eliminazione della «protezione dai controlli fiscali per i 200.000 grandi evasori che hanno approfittato dello scudo a prezzi stracciati». Immaginatevi il fuggi fuggi generale verso i lidi esteri di tutti quelli che hanno riportato i loro tesoretti di nuovo all’interno dei confini patrii confidando nello scudo governativo. L’esodo riprenderebbe come prima e più forte di prima, con grave nocumento per le nostre casse. Insomma, sfoltito dell’enciclopedica messe di critiche sollevate contro la manovra governativa, di propositivo nel grimorio democratico c’è soltanto una striminzita paginetta di escamotage operativi tutti accuratamente privi d’indicazioni sulla copertura finanziaria. Sennò si sarebbe corso il rischio di proporre qualcosa di logico.

Naturalmente i vessilliferi del progresso propongono, in aggiunta a tutta questa futuristica dovizia di arzigogoli, l’abbandono del progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, tagli alla difesa, e l’ampliamento dell’accesso del fisco alle informazioni bancarie. Siamo alle solite. I nipotini di Orwell, orfani del Grande Fratello sovietico, sono sempre all’eterna, disperata ricerca di un sostituto. Non potendo più materialmente trasformare la società in un gulag, ripiegano per il Panoptikon di benthamiana memoria. Tutti sorvegliati e contenti. La privacy? Roba da evasori…

di Angelo Spaziano