07 luglio 2010

Tassa su tassa. E’ l’Italia che va?


Dice il tasso a un altro tasso, indicando uno stupendo esemplare di femmina della stessa specie: «Dì un po’, ma tu le paghi le tasse?». E’ una celebre illustrazione tratta dal Diariovitt di Jacovitti, il grande vignettista che riusciva a far sorridere la gente anche satireggiando su un argomento ostico come quello fiscale. Ed effettivamente è assai difficile, oggigiorno, trovare qualcuno disposto a ironizzare sullo spauracchio delle imposte. Questo territorio, almeno per gli italiani, rimane assolutamente verboten allo humour. Le gabelle infatti anno dopo anno sono diventate sempre più pesanti e numerose, tanto da indurre l’opinione pubblica a individuare nella leva fiscale uno strumento ingiustamente vessatorio, punitivo in particolar modo nei confronti di chi, come il popolo del reddito fisso, non può nascondere nulla all’ufficio esattoriale, venendo considerato alla stregua di “mucche da mungere” e favorendo il fugone oltralpe di un fiume di denaro non dichiarato.

E’ di questi giorni la notizia che la spesa pubblica italiana, durante lo scorso anno, ha sfiorato la barriera degli 800 miliardi di euro, attestandosi precisamente a 798.864 mld, risultando così in crescita per il terzo anno consecutivo, superando in percentuale oltre la metà del Pil nazionale. Il valore totale delle uscite, insomma, è tornato a incidere sul Pil italiano in misura analoga a quella registrata nel 1996, quando il rapporto spesa-Pil ammontava al 52,6%. In confronto agli altri nostri partner dell’Ue la partita in uscita dell’Italia in relazione al Pil è stata infatti più alta di 1,2 punti percentuali rispetto alla media dei paesi dell’Unione. Evidentemente nel portafogli dell’erario, alle nostre latitudini, hanno pesato, e molto, i costi degli ammortizzatori sociali elargiti dal governo per consentire alle famiglie di far fronte alla crisi che ha colpito i mercati finanziari, e quindi l’economia mondiale.

Sarà. Comunque, ammortizzatori o meno, anche “prima” del 2008 non è che vivessimo in un paradiso fiscale. Il fatto increscioso è che questa esagerata mole d’impieghi deve per forza di cose essere “finanziata”. E da chi? Ma da tutti noi, è ovvio. E come? Tramite la leva tributaria, of course. Tutto questo “generoso” scialo di risorse, cioè, si traduce, in soldoni, in una valanga di balzelli a nostro carico. Uno tsunami che opprime lo sfortunato contribuente del Bel Paese tanto pesantemente da offrire un formidabile assist al già nutrito popolo degli evasori, che individua appunto nell’evasione, piuttosto che un reato, una legittima difesa, seppure estrema, dalla smodata bulimia di Stato. Il si salvi chi può da parte dei furbacchioni che hanno trasferito all’estero i loro tesoretti ha preso la stura proprio da questa bramosia. Una bramosia tale che nel 2009 l’onere fiscale sul Pil ha registrato il 43,2%, facendo schizzare il nostro paese al V posto in Europa per voracità tributaria, in condominio con la Francia e subito dopo Austria, Belgio, Danimarca e Svezia, quando nel 2008 si era piazzato al settimo posto.

Insomma, paghiamo come la Svezia per avere servizi degni del Burundi. Si è trattato della peggiore performance dal 1997. Un esito, secondo l’Istat, dovuto a una flessione del Pil maggiore di quella fatta registrare dal «gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario, cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi di euro». Va sottolineato che nel novero delle “imposte straordinarie” vanno considerati i fiumi di cash affluiti in Italia dai forzieri esteri grazie allo scudo fiscale, calcolati in 5 miliardi di euro.

E meno male che lo scudo c’è, si potrebbe parafrasare, in quanto durante il 2009 la maggior parte delle voci d’entrata dell’erario hanno registrato invece una marcata flessione. Le imposte indirette infatti l’anno scorso sono calate del 4,2% dopo avere già perduto il 4,9 nel 2008. Quelle dirette sono affondate del 7,1% e i contributi sociali dello 0,5%. La contrazione delle dirette è da scrivere prevalentemente al collasso dell’Ires (-23%), mentre le indirette hanno accusato la picchiata dell’Iva (-6,7%) e dell’Irap (-13%). Molto più contenuto è stato il calo dei contributi sociali, che hanno risentito della sostanziale tenuta degli stipendi, un fenomeno da ascrivere al lievitare dell’ammontare medio pro capite, che è andato a compensare il marcato flop occupazionale. Ma la doccia fredda è nascosta là dove meno te l’aspetti. Vale a dire nelle valutazioni fornite dai commercialisti, secondo i quali, in quanto a pressione fiscale, l’Italia è sostanzialmente al top delle classifiche della rapina tributaria ai danni della collettività.

«Quello del 2009 è un record negativo assoluto», hanno sostenuto gli esperti del ramo. Lo scorso anno, infatti, per l’ufficio studi del Consiglio dei commercialisti, la pressione fiscale autentica, quella avvertita sulla propria pelle dalla cittadinanza tutta, era in realtà al 51,6%. «Un record negativo assoluto» rispetto al 50,8% del 2008. «Questo perché la componente di economia sommersa stimata in Italia è percentualmente più rilevante di quella di tutti gli altri paesi europei, esclusa la sola Grecia», ha concluso il presidente dei commercialisti Siciliotti. Economia sommersa sta per “nero”. Un deprecabile iceberg la cui superficie visibile è soltanto una parte infinitesimale della montagna celata sotto il mare dell’illecito. Un volume di “evaso” che avrebbe portato la reale pressione fiscale nel 2009 a un valore che più o meno oscillerebbe attorno al 52%. Una considerazione suffragata anche dalla Cgia di Mestre. «Se storniamo dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico, il Pil diminuisce – quindi si contrae anche il denominatore – e, pertanto, aumenta il risultato che emerge dal rapporto. Ovvero, la pressione fiscale», hanno sostenuto gli artigiani di Mestre.

Anche Confindustria ha lanciato l’allarme: «La pressione fiscale è un problema di cui parliamo da sempre. Oggi è ai massimi, quindi è un problema per la crescita», ha affermato Emma Marcegaglia. «Da tempo – ha ricordato la presidentessa degli industriali italiani – stiamo chiedendo al ministro Tremonti di aprire un tavolo sul fisco, come promesso».

Intanto, per l’Eurostat, l’Italia domina anche le classifiche dei paesi a più alto onere fiscale a carico del lavoro. Nel 2008, infatti, esso è stato pari al 42,8%: di gran lunga maggiore rispetto a quello della media Ue, pari al 34,2%. Solo le accise sui consumi da noi sono le più soft: 16,4% contro una media di Ue del 20,8%. Come si può facilmente constatare, siamo veramente ridotti a raschiare il fondo del barile. Un barile ormai disseccato dalle dissennate politiche erariali portate avanti negli anni spensierati dello sperpero facile e dello spreco istituzionalizzato.

Con l’avvento degli esecutivi a guida berlusconiana sembrava essere arrivati a un salutare rinsavimento. Insomma, pareva proprio che la deprecabile abitudine di tosare il parco buoi dei contribuenti impossibilitati ad evadere, come i salariati, gli stipendiati, la pubblica amministrazione, a vantaggio dei soliti noti, fosse sul punto di subire un salutare ripensamento. Invece, il default greco, il temuto crack spagnolo e portoghese, il collasso ungherese e romeno, lo sforamento irlandese, e inglese, e italiano, e francese hanno mandato tutto a ramengo. Le buone intenzioni del premier hanno insomma dovuto decampare davanti al pessimo esempio gestionale fornito in blocco dagli stati continentali, i quali, tranne forse la sola Germania, invece di essere una comunità di formiche s’è rivelata una masnada di cicale.

Cicale gelose delle proprie prerogative, dei propri privilegi, delle proprie autonomie, abituate a vivere al disopra delle loro possibilità ma prontissime a bussare alla porta di Bruxelles al primo cenno di bancarotta, quando per finanziare le loro (una volta) allegre economie sono state costrette a ricorrere agli usurai. L’esito fatale di tutta questa dispendiosa cuccagna sarà una severa politica di austerithy a livello continentale, con un nuovo giro di vite sul fronte delle gabelle.

Certo, l’alternativa, almeno dalle nostre parti, ci sarebbe, eccome. Basterebbe tagliare le spese superflue. Ma a giudicare dalle orecchie che dovrebbero recepire il messaggio, sono in tanti in Italia a dover ricorrere alla Maico. Tremonti, infatti, ci ha pure provato a proporre il machete contro i rami secchi dello stato e del parastato, secchi di prestazioni ma irroratissimi quanto a linfa vitale dissipata. I suoi colleghi di governo, invece, remando contro, gli hanno dapprima ipotizzato le cesoie per poi promettergli le forbicine e consegnargli in concreto le limette per le unghie. Il risultato è che le Province non si possono tagliare perché non lo vuole Bossi. Le Regioni non si possono alleggerire perché non lo vuole Formigoni. La Pubblica Amministrazione non si può snellire perché non lo vuole Fini. La Difesa non si può toccare sennò s’incazza La Russa. La cultura? Subito scendono sul piede di guerra nani, guitti, ballerine e guzzantine varie. La Sanità? Peggio di così…La scuola? Idem. I magistrati? E’ un golpe. I calciatori? Ma va là. Sono così bravi e competenti, in Sud Africa hanno dato tanto lustro alla Patria… Gli unici che corrono il rischio di essere soppressi sono i prefetti, in quanto non costano nulla, servono a molto e non godono di appoggi presso i poteri forti.

Così ci siamo ridotti a dissertare se il Grande Raccordo Anulare della Capitale sia a rischio pedaggio o meno. Naturalmente, a usare un po’ più di parsimonia nell’uso delle auto blu, delle scorte, dei rimborsi spese, insomma, a sfoltire il ginepraio di privilegi goduti, quelli della casta non ci pensano nemmeno. Perciò, per non incappare in una prospettiva greca, sempre più probabile vista l’aria che tira - “una fazzia una razzia” – toccherà rassegnarsi a versare almeno 24 miliardi di euro nel buco nero di Pantalone, secondo i dettami della manovra tremontiana, e risolversi a votare contro i partiti governativi alle prossime elezioni politiche.

Ma anche qui c’è poco da stare allegri. La parola d’ordine lanciata in questi giorni dagli scranni dell’opposizione infatti è “contromanovra”. Detta così suona alquanto bene, ma se uno si prendesse la briga di andare a leggersi con attenzione le sterminate lenzuolate stilate da Bersani & Co. Si avrebbero delle sconcertanti sorprese. Antonio Di Pietro infatti nelle sue elucubrazioni al mulino bianco propone maggiori introiti per 65 miliardi di euro tramite la reintroduzione dell’Ici e l’istituzione di un “redditometro a riscossione immediata”. Vale a dire: intanto paghi subito, e poi si vedrà. Insomma, Stalin, messo a paragone con Di Pietro, era un genio dell’economia di mercato.

Sorvolando pietosamente sull’aria fritta ventilata dai Soloni dell’Api rutelliana, il faldone elaborato dal Pd sollecita l’eliminazione della «protezione dai controlli fiscali per i 200.000 grandi evasori che hanno approfittato dello scudo a prezzi stracciati». Immaginatevi il fuggi fuggi generale verso i lidi esteri di tutti quelli che hanno riportato i loro tesoretti di nuovo all’interno dei confini patrii confidando nello scudo governativo. L’esodo riprenderebbe come prima e più forte di prima, con grave nocumento per le nostre casse. Insomma, sfoltito dell’enciclopedica messe di critiche sollevate contro la manovra governativa, di propositivo nel grimorio democratico c’è soltanto una striminzita paginetta di escamotage operativi tutti accuratamente privi d’indicazioni sulla copertura finanziaria. Sennò si sarebbe corso il rischio di proporre qualcosa di logico.

Naturalmente i vessilliferi del progresso propongono, in aggiunta a tutta questa futuristica dovizia di arzigogoli, l’abbandono del progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, tagli alla difesa, e l’ampliamento dell’accesso del fisco alle informazioni bancarie. Siamo alle solite. I nipotini di Orwell, orfani del Grande Fratello sovietico, sono sempre all’eterna, disperata ricerca di un sostituto. Non potendo più materialmente trasformare la società in un gulag, ripiegano per il Panoptikon di benthamiana memoria. Tutti sorvegliati e contenti. La privacy? Roba da evasori…

di Angelo Spaziano

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07 luglio 2010

Tassa su tassa. E’ l’Italia che va?


Dice il tasso a un altro tasso, indicando uno stupendo esemplare di femmina della stessa specie: «Dì un po’, ma tu le paghi le tasse?». E’ una celebre illustrazione tratta dal Diariovitt di Jacovitti, il grande vignettista che riusciva a far sorridere la gente anche satireggiando su un argomento ostico come quello fiscale. Ed effettivamente è assai difficile, oggigiorno, trovare qualcuno disposto a ironizzare sullo spauracchio delle imposte. Questo territorio, almeno per gli italiani, rimane assolutamente verboten allo humour. Le gabelle infatti anno dopo anno sono diventate sempre più pesanti e numerose, tanto da indurre l’opinione pubblica a individuare nella leva fiscale uno strumento ingiustamente vessatorio, punitivo in particolar modo nei confronti di chi, come il popolo del reddito fisso, non può nascondere nulla all’ufficio esattoriale, venendo considerato alla stregua di “mucche da mungere” e favorendo il fugone oltralpe di un fiume di denaro non dichiarato.

E’ di questi giorni la notizia che la spesa pubblica italiana, durante lo scorso anno, ha sfiorato la barriera degli 800 miliardi di euro, attestandosi precisamente a 798.864 mld, risultando così in crescita per il terzo anno consecutivo, superando in percentuale oltre la metà del Pil nazionale. Il valore totale delle uscite, insomma, è tornato a incidere sul Pil italiano in misura analoga a quella registrata nel 1996, quando il rapporto spesa-Pil ammontava al 52,6%. In confronto agli altri nostri partner dell’Ue la partita in uscita dell’Italia in relazione al Pil è stata infatti più alta di 1,2 punti percentuali rispetto alla media dei paesi dell’Unione. Evidentemente nel portafogli dell’erario, alle nostre latitudini, hanno pesato, e molto, i costi degli ammortizzatori sociali elargiti dal governo per consentire alle famiglie di far fronte alla crisi che ha colpito i mercati finanziari, e quindi l’economia mondiale.

Sarà. Comunque, ammortizzatori o meno, anche “prima” del 2008 non è che vivessimo in un paradiso fiscale. Il fatto increscioso è che questa esagerata mole d’impieghi deve per forza di cose essere “finanziata”. E da chi? Ma da tutti noi, è ovvio. E come? Tramite la leva tributaria, of course. Tutto questo “generoso” scialo di risorse, cioè, si traduce, in soldoni, in una valanga di balzelli a nostro carico. Uno tsunami che opprime lo sfortunato contribuente del Bel Paese tanto pesantemente da offrire un formidabile assist al già nutrito popolo degli evasori, che individua appunto nell’evasione, piuttosto che un reato, una legittima difesa, seppure estrema, dalla smodata bulimia di Stato. Il si salvi chi può da parte dei furbacchioni che hanno trasferito all’estero i loro tesoretti ha preso la stura proprio da questa bramosia. Una bramosia tale che nel 2009 l’onere fiscale sul Pil ha registrato il 43,2%, facendo schizzare il nostro paese al V posto in Europa per voracità tributaria, in condominio con la Francia e subito dopo Austria, Belgio, Danimarca e Svezia, quando nel 2008 si era piazzato al settimo posto.

Insomma, paghiamo come la Svezia per avere servizi degni del Burundi. Si è trattato della peggiore performance dal 1997. Un esito, secondo l’Istat, dovuto a una flessione del Pil maggiore di quella fatta registrare dal «gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario, cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi di euro». Va sottolineato che nel novero delle “imposte straordinarie” vanno considerati i fiumi di cash affluiti in Italia dai forzieri esteri grazie allo scudo fiscale, calcolati in 5 miliardi di euro.

E meno male che lo scudo c’è, si potrebbe parafrasare, in quanto durante il 2009 la maggior parte delle voci d’entrata dell’erario hanno registrato invece una marcata flessione. Le imposte indirette infatti l’anno scorso sono calate del 4,2% dopo avere già perduto il 4,9 nel 2008. Quelle dirette sono affondate del 7,1% e i contributi sociali dello 0,5%. La contrazione delle dirette è da scrivere prevalentemente al collasso dell’Ires (-23%), mentre le indirette hanno accusato la picchiata dell’Iva (-6,7%) e dell’Irap (-13%). Molto più contenuto è stato il calo dei contributi sociali, che hanno risentito della sostanziale tenuta degli stipendi, un fenomeno da ascrivere al lievitare dell’ammontare medio pro capite, che è andato a compensare il marcato flop occupazionale. Ma la doccia fredda è nascosta là dove meno te l’aspetti. Vale a dire nelle valutazioni fornite dai commercialisti, secondo i quali, in quanto a pressione fiscale, l’Italia è sostanzialmente al top delle classifiche della rapina tributaria ai danni della collettività.

«Quello del 2009 è un record negativo assoluto», hanno sostenuto gli esperti del ramo. Lo scorso anno, infatti, per l’ufficio studi del Consiglio dei commercialisti, la pressione fiscale autentica, quella avvertita sulla propria pelle dalla cittadinanza tutta, era in realtà al 51,6%. «Un record negativo assoluto» rispetto al 50,8% del 2008. «Questo perché la componente di economia sommersa stimata in Italia è percentualmente più rilevante di quella di tutti gli altri paesi europei, esclusa la sola Grecia», ha concluso il presidente dei commercialisti Siciliotti. Economia sommersa sta per “nero”. Un deprecabile iceberg la cui superficie visibile è soltanto una parte infinitesimale della montagna celata sotto il mare dell’illecito. Un volume di “evaso” che avrebbe portato la reale pressione fiscale nel 2009 a un valore che più o meno oscillerebbe attorno al 52%. Una considerazione suffragata anche dalla Cgia di Mestre. «Se storniamo dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico, il Pil diminuisce – quindi si contrae anche il denominatore – e, pertanto, aumenta il risultato che emerge dal rapporto. Ovvero, la pressione fiscale», hanno sostenuto gli artigiani di Mestre.

Anche Confindustria ha lanciato l’allarme: «La pressione fiscale è un problema di cui parliamo da sempre. Oggi è ai massimi, quindi è un problema per la crescita», ha affermato Emma Marcegaglia. «Da tempo – ha ricordato la presidentessa degli industriali italiani – stiamo chiedendo al ministro Tremonti di aprire un tavolo sul fisco, come promesso».

Intanto, per l’Eurostat, l’Italia domina anche le classifiche dei paesi a più alto onere fiscale a carico del lavoro. Nel 2008, infatti, esso è stato pari al 42,8%: di gran lunga maggiore rispetto a quello della media Ue, pari al 34,2%. Solo le accise sui consumi da noi sono le più soft: 16,4% contro una media di Ue del 20,8%. Come si può facilmente constatare, siamo veramente ridotti a raschiare il fondo del barile. Un barile ormai disseccato dalle dissennate politiche erariali portate avanti negli anni spensierati dello sperpero facile e dello spreco istituzionalizzato.

Con l’avvento degli esecutivi a guida berlusconiana sembrava essere arrivati a un salutare rinsavimento. Insomma, pareva proprio che la deprecabile abitudine di tosare il parco buoi dei contribuenti impossibilitati ad evadere, come i salariati, gli stipendiati, la pubblica amministrazione, a vantaggio dei soliti noti, fosse sul punto di subire un salutare ripensamento. Invece, il default greco, il temuto crack spagnolo e portoghese, il collasso ungherese e romeno, lo sforamento irlandese, e inglese, e italiano, e francese hanno mandato tutto a ramengo. Le buone intenzioni del premier hanno insomma dovuto decampare davanti al pessimo esempio gestionale fornito in blocco dagli stati continentali, i quali, tranne forse la sola Germania, invece di essere una comunità di formiche s’è rivelata una masnada di cicale.

Cicale gelose delle proprie prerogative, dei propri privilegi, delle proprie autonomie, abituate a vivere al disopra delle loro possibilità ma prontissime a bussare alla porta di Bruxelles al primo cenno di bancarotta, quando per finanziare le loro (una volta) allegre economie sono state costrette a ricorrere agli usurai. L’esito fatale di tutta questa dispendiosa cuccagna sarà una severa politica di austerithy a livello continentale, con un nuovo giro di vite sul fronte delle gabelle.

Certo, l’alternativa, almeno dalle nostre parti, ci sarebbe, eccome. Basterebbe tagliare le spese superflue. Ma a giudicare dalle orecchie che dovrebbero recepire il messaggio, sono in tanti in Italia a dover ricorrere alla Maico. Tremonti, infatti, ci ha pure provato a proporre il machete contro i rami secchi dello stato e del parastato, secchi di prestazioni ma irroratissimi quanto a linfa vitale dissipata. I suoi colleghi di governo, invece, remando contro, gli hanno dapprima ipotizzato le cesoie per poi promettergli le forbicine e consegnargli in concreto le limette per le unghie. Il risultato è che le Province non si possono tagliare perché non lo vuole Bossi. Le Regioni non si possono alleggerire perché non lo vuole Formigoni. La Pubblica Amministrazione non si può snellire perché non lo vuole Fini. La Difesa non si può toccare sennò s’incazza La Russa. La cultura? Subito scendono sul piede di guerra nani, guitti, ballerine e guzzantine varie. La Sanità? Peggio di così…La scuola? Idem. I magistrati? E’ un golpe. I calciatori? Ma va là. Sono così bravi e competenti, in Sud Africa hanno dato tanto lustro alla Patria… Gli unici che corrono il rischio di essere soppressi sono i prefetti, in quanto non costano nulla, servono a molto e non godono di appoggi presso i poteri forti.

Così ci siamo ridotti a dissertare se il Grande Raccordo Anulare della Capitale sia a rischio pedaggio o meno. Naturalmente, a usare un po’ più di parsimonia nell’uso delle auto blu, delle scorte, dei rimborsi spese, insomma, a sfoltire il ginepraio di privilegi goduti, quelli della casta non ci pensano nemmeno. Perciò, per non incappare in una prospettiva greca, sempre più probabile vista l’aria che tira - “una fazzia una razzia” – toccherà rassegnarsi a versare almeno 24 miliardi di euro nel buco nero di Pantalone, secondo i dettami della manovra tremontiana, e risolversi a votare contro i partiti governativi alle prossime elezioni politiche.

Ma anche qui c’è poco da stare allegri. La parola d’ordine lanciata in questi giorni dagli scranni dell’opposizione infatti è “contromanovra”. Detta così suona alquanto bene, ma se uno si prendesse la briga di andare a leggersi con attenzione le sterminate lenzuolate stilate da Bersani & Co. Si avrebbero delle sconcertanti sorprese. Antonio Di Pietro infatti nelle sue elucubrazioni al mulino bianco propone maggiori introiti per 65 miliardi di euro tramite la reintroduzione dell’Ici e l’istituzione di un “redditometro a riscossione immediata”. Vale a dire: intanto paghi subito, e poi si vedrà. Insomma, Stalin, messo a paragone con Di Pietro, era un genio dell’economia di mercato.

Sorvolando pietosamente sull’aria fritta ventilata dai Soloni dell’Api rutelliana, il faldone elaborato dal Pd sollecita l’eliminazione della «protezione dai controlli fiscali per i 200.000 grandi evasori che hanno approfittato dello scudo a prezzi stracciati». Immaginatevi il fuggi fuggi generale verso i lidi esteri di tutti quelli che hanno riportato i loro tesoretti di nuovo all’interno dei confini patrii confidando nello scudo governativo. L’esodo riprenderebbe come prima e più forte di prima, con grave nocumento per le nostre casse. Insomma, sfoltito dell’enciclopedica messe di critiche sollevate contro la manovra governativa, di propositivo nel grimorio democratico c’è soltanto una striminzita paginetta di escamotage operativi tutti accuratamente privi d’indicazioni sulla copertura finanziaria. Sennò si sarebbe corso il rischio di proporre qualcosa di logico.

Naturalmente i vessilliferi del progresso propongono, in aggiunta a tutta questa futuristica dovizia di arzigogoli, l’abbandono del progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, tagli alla difesa, e l’ampliamento dell’accesso del fisco alle informazioni bancarie. Siamo alle solite. I nipotini di Orwell, orfani del Grande Fratello sovietico, sono sempre all’eterna, disperata ricerca di un sostituto. Non potendo più materialmente trasformare la società in un gulag, ripiegano per il Panoptikon di benthamiana memoria. Tutti sorvegliati e contenti. La privacy? Roba da evasori…

di Angelo Spaziano

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