29 luglio 2010

Wikileaks e le stragi ingestibili



civilian_target

Sul'onda delle rivelazioni clamorose di Wikileaks di questi giorni, riproponiamo un articolo pubblicato lo scorso 7 aprile dopo un altro massiccio "sgocciolamento" di notizie "scomode". Il pezzo cercava di ricordare perché le rivelazioni vanno inquadrate all'interno di determinate congiunture storiche che le rendono possibili. Il fatto che nel frattempo il «Washington Post» si sia anch'esso svegliato dal trentennale torpore è una conferma: sulle questioni militari, ai piani alti del mondo, c'è maretta.

La strage indiscriminata compiuta dal cielo sopra Baghdad non sembra perdersi nel grande e indistinto bagno di sangue mesopotamico. Stavolta si nota subito che quel che vediamo è insolito. Incontriamo da vicino il punto di vista sbrigativo e crudele degli occupanti statunitensi, sentiamo le loro parole irridenti mentre demoliscono ogni ipocrisia sulle “regole d'ingaggio”. Merito di Wikileaks, un sito che fa trapelare molte verità scomode, con una cadenza ormai così fitta da spingere il Pentagono a brigare per chiuderlo: il web è un fronte primario della lotta fra guerra e verità.

E mentre il giornalismo alla «Washington Post» vive ancora della rendita d'immagine del Watergate, uno scoop di oltre trent'anni fa, Wikileaks in tre anni di vita ha inanellato una serie impressionante di rivelazioni. In genere si tratta di dossier confidenziali ben documentati e sottoposti a preliminare verifica da parte di centinaia di collaboratori. Fra gli scoop: il ruolo della banca svizzera Julius Baer nel riciclaggio internazionale, il manuale delle procedure a Guantanamo, i negoziati segreti sul trattato dei diritti d'autore, i dettagli su Scientology, i retroscena del crac finanziario islandese, ecc. E ora lo "snuff movie" dell'invasione irachena.

Le fonti delle notizie trapelate sono i cosiddetti «whistleblowers». La parola non ne ha una che combaci nella nostra lingua. Letteralmente sarebbero coloro che fischiano e lanciano un allarme per via di una condotta illegale o minacciosa di un'organizzazione di cui fanno parte. Si tratta di funzionari, avvocati, impiegati, o anche semplici cittadini che si trovano fra le mani informazioni sensibili e decidono di farle conoscere. Nel farlo rivestono un ruolo misto fra “confidenti”, “obiettori di coscienza” e “attivisti politici”, mentre Wikileaks assicura loro un totale anonimato attraverso un sistema di codificazione dei dati. Una comunità di circa 800 giornalisti, informatici, matematici e attivisti cerca i riscontri alle informazioni e infine le pubblica sul sito.

Ovviamente siamo abbastanza grandicelli per comprendere come un tale sistema possa servire a certe cordate dei servizi segreti in lotta fra loro per guidare i meccanismi dell'informazione, con rivelazioni strategiche.

Anche il Watergate - che nell'interpretazione corrente è il trionfo del libero giornalismo anglosassone a guardia del potere – in realtà fu pilotato da “gole profonde” che davano voce a quella parte dell'establishment USA che voleva chiudere con la presidenza Nixon e la sua gestione della guerra del Vietnam. I funzionari che oggi sono così generosi di dossier a favore di Wikileaks sono espressione di una lotta di potere acuta, viste le difficoltà attuali sui fronti di guerra. Così come non è da sottovalutare la preoccupazione di militari che paventano l'ingestibile catastrofe etica della forza occupante, con soldati che dimenticano di non essere in un videogame, non usano la "forza minima necessaria" e attaccano chi soccorre i feriti. Così piovono dossier, denunce, filmati.

Il sito, con un modesto bilancio di 600mila dollari, addirittura non riesce a smaltire la tanta immondezza che gli viene riversata e raccontata in migliaia di files e schedature, tanto da scusarsene in homepage. Vagliare l'informazione costa tempo, denaro e risorse umane. Siamo esattamente agli antipodi di «Libero», il giornalismo emblema ormai planetario della notizia totalmente falsa.

Al di là degli usi strumentali possibili, questo porto franco dell'informazione, su cui transitano comunque documenti veri e verificati, preoccupa chi pianifica le guerre. Potremmo definirla una metarivelazione: Wikileaks il 5 aprile ha pubblicato un documento segreto proveniente da un'agenzia del Dipartimento della Difesa statunitense che indicava il sito come una «minaccia per la US Army». Nelle sue 32 pagine, dopo l'analisi sul rischio sicurezza addebitato a Wikileaks, il documento raccomandava di identificare e assicurare alla giustizia chi dà informazioni al sito, sputtanarlo con il massimo clamore, in modo da spezzare il rapporto di fiducia basato sul criptaggio promesso da Wikileaks.

Julian Assange, uno dei responsabili del portale delle soffiate, è tuttavia fiducioso: «ci sono tanti amici che ci vogliono bene» nel cuore dell'intelligence. Tanto che finora «nessuna fonte è stata rivelata dal momento della creazione del sito», nel dicembre 2006.

Se non interverrà il pugno di ferro, altre rivelazioni e immagini cruente seguiranno, come ad esempio i filmati dell'attacco aereo USA in Afghanistan del 7 maggio 2009, che uccise 97 civili.

La frontiera del nuovo giornalismo passerà anche su questi video.

di Pino Cabras

28 luglio 2010

Ungheria. Ue e Fmi invocano la ”lesa maestà”…









Un oltraggio inqualificabile. Anzi: un delitto di Lesa Maestà.
E’ più o meno questo, come riferisce il paludato – però, soltanto a volte – The Times, il sentimento di fastidio e, di più, di irritazione, verso Budapest che aleggia da qualche giorno a Bruxelles e a Washington. Figuriamoci.
Come i lettori di Rinascita sanno, il primo ministro magiaro, Viktor Orbán, si è permesso di rinviare al mittente, pensate voi…, le nuove Direttive Lacrime e Sangue, la terapia d’urto sociale immaginata per rendere più “austero” il bilancio pubblico ungherese.
Un vero e proprio affronto.
I monetaristi lamentano un tale attacco e lo descrivono come “irresponsabilità fiscale”.
Invece di “tagliare” servizi pubblici, assistenza sociale e benessere, la minuscola Ungheria si è permessa di dire “no” alle sagge proposte di “austerità” immaginate per lei dai banksters dell’Ue e del Fmi. Rischiando addirittura la non “concessione” del rimanente terzo di aiuti (20 miliardi di euro in tutto) che le due istituzioni usuraie avevano stanziato a suo tempo per “liberalizzare”, “privatizzare”, “strangolare il fiorino e la società magiara.
Chi legge Rinascita, dicevamo, queste cose le sa da una settimana. Quella che invece è una novità è il tono del “Times”. L’opinionista Adam LeBor, infatti, nel descrivere l’evento, nell’edizione di ieri, sembra aver letto il nostro povero quotidiano. LeBor non lesina infatti due o tre sintomatici aggettivi qualificativi-dispregiativi per descrivere la supponenza dell’Ue o del Fmi verso le sovranità nazionali dei singoli Stati.
E ricorda pure che Commissione Ue, Fmi, agenzie di rating e quant’altro (Bce inclusa, anche se non è nominata) sono organismi “non eletti” dai popoli – ergo: non… democratici – al soldo della globalizzazione finanziaria.
Chi legge Rinascita sa anche che il Parlamento di Budapest è oggi per due terzi rappresentato dalla destra (il Fidesz: una sorta di ex An) e da un folto gruppo nazionalista – lo Jobbik – che è diventato la vera opposizione (o comunque la spina nel fianco) al partito di maggioranza di Orbán.
Chi legge Rinascita ha anche preso ben nota che, invece di procedere a tagli di pensioni, stipendi o ad aumenti di imposte sui redditi dei cittadini e dei produttori, il governo magiaro ha deciso di tassare, ahiahiahi.., le banche. Lo 0,5 dell’attivo dichiarato dagli istituti bancari al 31 dicembre 2009, andrà a finire nelle casse dello Stato.
Come scrive l’anomalo Adam LeBor, i mutui a tassi variabili che, introdotti dalle banche, hanno invaso l’Ungheria nel nome della “globalizzazione”, data un’unità di misura 100.000 (euro) sono ora lievitati a 140.000, con poche possibilità di essere coperti dai contraenti.
E sempre come scrive l’opinionista del Times “nel 1956 gli ungheresi si sollevarono contro la tirannia sovietica, sperando di innescare una reazione a catena… chissà se sollevandosi contro i despoti del capitalismo ci riusciranno”.
Auguri al popolo ungherese.
di Ugo Gaudenzi -

Fiat. Dove sbaglia Giorgio Bocca?







Nell’ultimo numero de “l’Espresso”, intitolando “dove sbaglia Marchionne”, Giorgio Bocca appare spiazzato e smarrito di fronte alla nuova strategia americana e ricattatoria della FIAT, inaccettabile da gente come lui che ha visto i rapporti industriali e la democrazia in eterno “progress”, e ora si trova con la logica della globalizzazione e una democrazia trasformata in dittatura da chi possiede i media.
La illusione di vedere un capitalismo regionale e civile traspare tutta da questa frase di Bocca: “Marchionne è certamente un manager intelligente, come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile”.
Si dà il caso che un manager pagato dagli azionisti Fiat ha come missione quella di aumentare i profitti, e se ne sbatte della crescita civile, dunque se in Serbia o in Polonia produce di più con meno costi la scelta è obbligata.

E’ la globalizzazione, che è stata accettata dagli industriali e dalla politica, che detta le leggi delle delocalizzazioni, del libero movimento dei capitali, e in questo regime è impossibile dare regole alla economia, né pretendere sensibilità, scrupoli o patriottismi per la crescita civile italiana.
La logica oggi in atto, quella del mercato che premia chi produce a costi minori, nel medio periodo è letale per i paesi cosiddetti avanzati e, se oggi contano ancora e tengono certi segmenti di tecnologia avanzata, presto le economie cinesi, indiane, coreane, brasiliane, ecc., vinceranno anche in quei settore e qui lasceranno solo disoccupazione o una occupazione decurtata di diritti, nociva alla salute, con ritmi di lavoro alti e poco riposo, niente sindacati né politica, salari bassi.

Quando si arriverà a questo bisognerà scegliere e decidere se questa maledetta globalizzazione ci conviene, ci fa vivere meglio, o se opportuno uscirne, riconvertire l’economia per i consumi interni, impedire ai capitali qualunque trasmigrazione, creare l’autosufficienza energetica con il sole, creare l’autosufficienza alimentare con una agricoltura tutta biologica, abolire l’esercito e le enormi spese militari, creare una guardia civile di sola difesa, uscire dall’Europa.
Caro Bocca, se tu misurassi l’etica civile degli industriali attraverso il metodo con cui smaltiscono i rifiuti delle loro produzioni, affidandoli a camorristi o mafiosi che li disperdono nell’ambiente con malati e morti, saresti un po’ meno ottimista e ci aiuteresti a passare ad una economia delle REGOLE, della legalità, del rispetto assoluto dell’ambiente e della salute delle persone.
di Paolo De Gregorio

29 luglio 2010

Wikileaks e le stragi ingestibili



civilian_target

Sul'onda delle rivelazioni clamorose di Wikileaks di questi giorni, riproponiamo un articolo pubblicato lo scorso 7 aprile dopo un altro massiccio "sgocciolamento" di notizie "scomode". Il pezzo cercava di ricordare perché le rivelazioni vanno inquadrate all'interno di determinate congiunture storiche che le rendono possibili. Il fatto che nel frattempo il «Washington Post» si sia anch'esso svegliato dal trentennale torpore è una conferma: sulle questioni militari, ai piani alti del mondo, c'è maretta.

La strage indiscriminata compiuta dal cielo sopra Baghdad non sembra perdersi nel grande e indistinto bagno di sangue mesopotamico. Stavolta si nota subito che quel che vediamo è insolito. Incontriamo da vicino il punto di vista sbrigativo e crudele degli occupanti statunitensi, sentiamo le loro parole irridenti mentre demoliscono ogni ipocrisia sulle “regole d'ingaggio”. Merito di Wikileaks, un sito che fa trapelare molte verità scomode, con una cadenza ormai così fitta da spingere il Pentagono a brigare per chiuderlo: il web è un fronte primario della lotta fra guerra e verità.

E mentre il giornalismo alla «Washington Post» vive ancora della rendita d'immagine del Watergate, uno scoop di oltre trent'anni fa, Wikileaks in tre anni di vita ha inanellato una serie impressionante di rivelazioni. In genere si tratta di dossier confidenziali ben documentati e sottoposti a preliminare verifica da parte di centinaia di collaboratori. Fra gli scoop: il ruolo della banca svizzera Julius Baer nel riciclaggio internazionale, il manuale delle procedure a Guantanamo, i negoziati segreti sul trattato dei diritti d'autore, i dettagli su Scientology, i retroscena del crac finanziario islandese, ecc. E ora lo "snuff movie" dell'invasione irachena.

Le fonti delle notizie trapelate sono i cosiddetti «whistleblowers». La parola non ne ha una che combaci nella nostra lingua. Letteralmente sarebbero coloro che fischiano e lanciano un allarme per via di una condotta illegale o minacciosa di un'organizzazione di cui fanno parte. Si tratta di funzionari, avvocati, impiegati, o anche semplici cittadini che si trovano fra le mani informazioni sensibili e decidono di farle conoscere. Nel farlo rivestono un ruolo misto fra “confidenti”, “obiettori di coscienza” e “attivisti politici”, mentre Wikileaks assicura loro un totale anonimato attraverso un sistema di codificazione dei dati. Una comunità di circa 800 giornalisti, informatici, matematici e attivisti cerca i riscontri alle informazioni e infine le pubblica sul sito.

Ovviamente siamo abbastanza grandicelli per comprendere come un tale sistema possa servire a certe cordate dei servizi segreti in lotta fra loro per guidare i meccanismi dell'informazione, con rivelazioni strategiche.

Anche il Watergate - che nell'interpretazione corrente è il trionfo del libero giornalismo anglosassone a guardia del potere – in realtà fu pilotato da “gole profonde” che davano voce a quella parte dell'establishment USA che voleva chiudere con la presidenza Nixon e la sua gestione della guerra del Vietnam. I funzionari che oggi sono così generosi di dossier a favore di Wikileaks sono espressione di una lotta di potere acuta, viste le difficoltà attuali sui fronti di guerra. Così come non è da sottovalutare la preoccupazione di militari che paventano l'ingestibile catastrofe etica della forza occupante, con soldati che dimenticano di non essere in un videogame, non usano la "forza minima necessaria" e attaccano chi soccorre i feriti. Così piovono dossier, denunce, filmati.

Il sito, con un modesto bilancio di 600mila dollari, addirittura non riesce a smaltire la tanta immondezza che gli viene riversata e raccontata in migliaia di files e schedature, tanto da scusarsene in homepage. Vagliare l'informazione costa tempo, denaro e risorse umane. Siamo esattamente agli antipodi di «Libero», il giornalismo emblema ormai planetario della notizia totalmente falsa.

Al di là degli usi strumentali possibili, questo porto franco dell'informazione, su cui transitano comunque documenti veri e verificati, preoccupa chi pianifica le guerre. Potremmo definirla una metarivelazione: Wikileaks il 5 aprile ha pubblicato un documento segreto proveniente da un'agenzia del Dipartimento della Difesa statunitense che indicava il sito come una «minaccia per la US Army». Nelle sue 32 pagine, dopo l'analisi sul rischio sicurezza addebitato a Wikileaks, il documento raccomandava di identificare e assicurare alla giustizia chi dà informazioni al sito, sputtanarlo con il massimo clamore, in modo da spezzare il rapporto di fiducia basato sul criptaggio promesso da Wikileaks.

Julian Assange, uno dei responsabili del portale delle soffiate, è tuttavia fiducioso: «ci sono tanti amici che ci vogliono bene» nel cuore dell'intelligence. Tanto che finora «nessuna fonte è stata rivelata dal momento della creazione del sito», nel dicembre 2006.

Se non interverrà il pugno di ferro, altre rivelazioni e immagini cruente seguiranno, come ad esempio i filmati dell'attacco aereo USA in Afghanistan del 7 maggio 2009, che uccise 97 civili.

La frontiera del nuovo giornalismo passerà anche su questi video.

di Pino Cabras

28 luglio 2010

Ungheria. Ue e Fmi invocano la ”lesa maestà”…









Un oltraggio inqualificabile. Anzi: un delitto di Lesa Maestà.
E’ più o meno questo, come riferisce il paludato – però, soltanto a volte – The Times, il sentimento di fastidio e, di più, di irritazione, verso Budapest che aleggia da qualche giorno a Bruxelles e a Washington. Figuriamoci.
Come i lettori di Rinascita sanno, il primo ministro magiaro, Viktor Orbán, si è permesso di rinviare al mittente, pensate voi…, le nuove Direttive Lacrime e Sangue, la terapia d’urto sociale immaginata per rendere più “austero” il bilancio pubblico ungherese.
Un vero e proprio affronto.
I monetaristi lamentano un tale attacco e lo descrivono come “irresponsabilità fiscale”.
Invece di “tagliare” servizi pubblici, assistenza sociale e benessere, la minuscola Ungheria si è permessa di dire “no” alle sagge proposte di “austerità” immaginate per lei dai banksters dell’Ue e del Fmi. Rischiando addirittura la non “concessione” del rimanente terzo di aiuti (20 miliardi di euro in tutto) che le due istituzioni usuraie avevano stanziato a suo tempo per “liberalizzare”, “privatizzare”, “strangolare il fiorino e la società magiara.
Chi legge Rinascita, dicevamo, queste cose le sa da una settimana. Quella che invece è una novità è il tono del “Times”. L’opinionista Adam LeBor, infatti, nel descrivere l’evento, nell’edizione di ieri, sembra aver letto il nostro povero quotidiano. LeBor non lesina infatti due o tre sintomatici aggettivi qualificativi-dispregiativi per descrivere la supponenza dell’Ue o del Fmi verso le sovranità nazionali dei singoli Stati.
E ricorda pure che Commissione Ue, Fmi, agenzie di rating e quant’altro (Bce inclusa, anche se non è nominata) sono organismi “non eletti” dai popoli – ergo: non… democratici – al soldo della globalizzazione finanziaria.
Chi legge Rinascita sa anche che il Parlamento di Budapest è oggi per due terzi rappresentato dalla destra (il Fidesz: una sorta di ex An) e da un folto gruppo nazionalista – lo Jobbik – che è diventato la vera opposizione (o comunque la spina nel fianco) al partito di maggioranza di Orbán.
Chi legge Rinascita ha anche preso ben nota che, invece di procedere a tagli di pensioni, stipendi o ad aumenti di imposte sui redditi dei cittadini e dei produttori, il governo magiaro ha deciso di tassare, ahiahiahi.., le banche. Lo 0,5 dell’attivo dichiarato dagli istituti bancari al 31 dicembre 2009, andrà a finire nelle casse dello Stato.
Come scrive l’anomalo Adam LeBor, i mutui a tassi variabili che, introdotti dalle banche, hanno invaso l’Ungheria nel nome della “globalizzazione”, data un’unità di misura 100.000 (euro) sono ora lievitati a 140.000, con poche possibilità di essere coperti dai contraenti.
E sempre come scrive l’opinionista del Times “nel 1956 gli ungheresi si sollevarono contro la tirannia sovietica, sperando di innescare una reazione a catena… chissà se sollevandosi contro i despoti del capitalismo ci riusciranno”.
Auguri al popolo ungherese.
di Ugo Gaudenzi -

Fiat. Dove sbaglia Giorgio Bocca?







Nell’ultimo numero de “l’Espresso”, intitolando “dove sbaglia Marchionne”, Giorgio Bocca appare spiazzato e smarrito di fronte alla nuova strategia americana e ricattatoria della FIAT, inaccettabile da gente come lui che ha visto i rapporti industriali e la democrazia in eterno “progress”, e ora si trova con la logica della globalizzazione e una democrazia trasformata in dittatura da chi possiede i media.
La illusione di vedere un capitalismo regionale e civile traspare tutta da questa frase di Bocca: “Marchionne è certamente un manager intelligente, come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile”.
Si dà il caso che un manager pagato dagli azionisti Fiat ha come missione quella di aumentare i profitti, e se ne sbatte della crescita civile, dunque se in Serbia o in Polonia produce di più con meno costi la scelta è obbligata.

E’ la globalizzazione, che è stata accettata dagli industriali e dalla politica, che detta le leggi delle delocalizzazioni, del libero movimento dei capitali, e in questo regime è impossibile dare regole alla economia, né pretendere sensibilità, scrupoli o patriottismi per la crescita civile italiana.
La logica oggi in atto, quella del mercato che premia chi produce a costi minori, nel medio periodo è letale per i paesi cosiddetti avanzati e, se oggi contano ancora e tengono certi segmenti di tecnologia avanzata, presto le economie cinesi, indiane, coreane, brasiliane, ecc., vinceranno anche in quei settore e qui lasceranno solo disoccupazione o una occupazione decurtata di diritti, nociva alla salute, con ritmi di lavoro alti e poco riposo, niente sindacati né politica, salari bassi.

Quando si arriverà a questo bisognerà scegliere e decidere se questa maledetta globalizzazione ci conviene, ci fa vivere meglio, o se opportuno uscirne, riconvertire l’economia per i consumi interni, impedire ai capitali qualunque trasmigrazione, creare l’autosufficienza energetica con il sole, creare l’autosufficienza alimentare con una agricoltura tutta biologica, abolire l’esercito e le enormi spese militari, creare una guardia civile di sola difesa, uscire dall’Europa.
Caro Bocca, se tu misurassi l’etica civile degli industriali attraverso il metodo con cui smaltiscono i rifiuti delle loro produzioni, affidandoli a camorristi o mafiosi che li disperdono nell’ambiente con malati e morti, saresti un po’ meno ottimista e ci aiuteresti a passare ad una economia delle REGOLE, della legalità, del rispetto assoluto dell’ambiente e della salute delle persone.
di Paolo De Gregorio