08 giugno 2011

Da Pound ad Auriti. Un’altra economia

L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.

LE PREMESSE RECENTI

A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.

LA QUESTIONE DEL SIGNORAGGIO BANCARIO

Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.

LE RISERVE BANCARIE

Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.

L’INTROMISSIONE DEI GRUPPI FINANZIARI

Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico, finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.

LE RISPOSTE

A questo antico problema, vari studiosi e pensatori fuori dal coro generale hanno cercato di trovare una soluzione; tra questi in primis Ezra Pound, seguito in tempi più recenti dall’italiano Giacinto Auriti. Per incredibile che possa sembrare, a proporre una soluzione “forte” ad un problema apparentemente inestricabile sarà, a partire dai primi anni del secolo un poeta e un uomo di lettere, legato ad uno dei movimenti d’avanguardia d’inizio secolo, rappresentato dal vorticismo di John Wyndham. Pound tratta di questo argomento nel canto XLV dei Cantos, ma anche negli scritti ABC dell’economia ed in Lavoro ed usura. Principio cardine che muove tutta la polemica poundiana è la lotta senza quartiere alla mercificazione dell’uomo. Il denaro è anzitutto, a detta di Pound, una convenzione sociale, non una merce. A fondamento della ricchezza dei popoli sta, in secondo luogo, il lavoro che non è una merce. Distribuire lavoro significa, quindi, distribuire ricchezza. In terzo luogo, lo Stato ha il pieno potere di disporre del credito, non ha quindi bisogno di indebitarsi con le banche private. Partendo da questi presupposti ideologici, Pound ritiene che lo Stato dovrebbe applicare su ogni banconota circolante una tassa pari ad 1/100 del valore nominale di quest’ultima, senza tassare i cittadini produttori. In tal modo allo Stato verrebbe garantito un reddito annuale pari al 12% della massa monetaria circolante, esente tra l’altro, da qualunque rischio di evasione fiscale. Le banche tornerebbero ad interpretare il ruolo per cui erano state inizialmente costituite, ovverosia quello di intermediari finanziari, poiché in caso contrario, continuando a detenere per sé il denaro, lo perderebbero in un tempo stimato in 100 mesi, perché corroso dalla tassazione. Non solo. In questo modo lo Stato potrebbe garantire un’adeguata emissione valutaria, ripristinando la propria sovranità monetaria. Della stessa impostazione sono le proposte formulate da Domenico De Simone, da Giuseppe Bellia, dall’associazione AFIMO e da Giacinto Auriti. Derivante dalle teorizzazioni di Clifford Hugh Douglas e Silvio Gesell, questa scuola di pensiero fa propria l’idea di spostare la tassazione dai redditi da lavoro e da consumo, direttamente ai redditi finanziari (creati dal risparmio, dalla speculazione finanziaria, etc.), liberando i cittadini-consumatori da una gabella che ne depaupera il potere d’acquisto. Non solo, a detta di questa scuola, mentre la tassazione sui redditi da lavoro e da consumo fa sì che lo Stato ricorra al debito pubblico per ripagare alle banche interessi che la leva fiscale da sola non può assolutamente coprire, tramite la fiscalità monetaria questo problema verrebbe ovviamente superato, agganciandolo tra l’altro, ad una proposta di reddito di cittadinanza. Queste proposte di sicuro interesse presentano però dei punti deboli. L’affermare che, per esempio la tassazione sui redditi da lavoro possa essere la causa principe dell’innalzamento dei costi di produzione e dell’inflazione, è pericolosamente semplicistica, perché non tiene conto di tutta una serie di fattori legati a tale problema, in primis l’intento volto alla mera speculazione ed all’arricchimento individuale che caratterizza il detentore del mezzo di produzione e che, rientrando nella sfera dell’umana istintualità, non può trovare correttivi in delle mere misure economiche, bensì in differenti indirizzi etici ed educativi. Non solo. Proviamo solo un momento ad immaginare cosa accadrebbe in un paese di grandi risparmiatori come l’Italia. Risparmio ed economia reale hanno qui da noi costituito da sempre una barriera a protezione dalla speculazione finanziaria pura. Lo stesso reddito di cittadinanza potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio: da forte misura di tutela sociale, a strumento capace di aumentare pericolosamente la spirale debitoria dello stato, dando nuovamente spazio a tutte le scuole di impostazione ultra liberista. Per questo motivo, la lotta al signoraggio bancario, la stessa proposta di fiscalità monetaria, nella giustezza della loro intuizione, debbono essere formulate e rapportate all’attuale contesto senza cedere alla facile tentazione dell’utopismo. Il processo per addivenire alla sovranità monetaria, non può non passare attraverso l’uscita dall’Euro o, quanto meno, dal suo accantonamento al ruolo subordinato di moneta per gli scambi con l’estero, o addirittura per le sole manovre di contabilità internazionale, laddove per gli scambi commerciali si potrebbe optare per un ritorno alla Lira. D’altronde l’esperienza di quanto avvenuto nel secolo 19° negli USA, dove più stati adottarono una doppia monetazione per favorire una più rapida crescita economica, dovrebbe servire da memoria e da incentivo per quanto qui proposto. Diciamo che la tassa sul circolante di poundiana memoria potrebbe costituire una valida soluzione, solo se accompagnata da provvedimenti di tipo strutturale, quali la nazionalizzazione di Bankitalia con il conseguente obbligo di devoluzione alla cosa pubblica dei naturali proventi del signoraggio. Questi provvedimenti però, necessiterebbero di un riaggiustamento i cui tempi e le cui modalità non lascerebbero sperare per una realizzazione nell’immediato. Molto più facile sarebbe, a tal punto, bypassare il problema, attraverso l’emanazione di un apposito decreto legge che imponga l’immediato versamento dei frutti del signoraggio bancario nelle casse dello Stato, senza passare per altre mani; il tutto attraverso l’istituzione di una commissione di vigilanza istituita ad hoc. Strumento principe per scelte del genere dovrebbe essere l’istituzione referendaria. In tal modo, verrebbe inequivocabilmente sancito il diritto popolare all’intervento diretto su questioni di importanza strategica, così sottratte alla sfera di competenza di un ceto politico, troppo spesso legato mani e piedi ai poteri forti della finanza, i cui interessi, come si può ben vedere, non collimano assolutamente con quelli della gente comune.

di Umberto Bianchi

06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino

05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei

08 giugno 2011

Da Pound ad Auriti. Un’altra economia

L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.

LE PREMESSE RECENTI

A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.

LA QUESTIONE DEL SIGNORAGGIO BANCARIO

Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.

LE RISERVE BANCARIE

Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.

L’INTROMISSIONE DEI GRUPPI FINANZIARI

Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico, finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.

LE RISPOSTE

A questo antico problema, vari studiosi e pensatori fuori dal coro generale hanno cercato di trovare una soluzione; tra questi in primis Ezra Pound, seguito in tempi più recenti dall’italiano Giacinto Auriti. Per incredibile che possa sembrare, a proporre una soluzione “forte” ad un problema apparentemente inestricabile sarà, a partire dai primi anni del secolo un poeta e un uomo di lettere, legato ad uno dei movimenti d’avanguardia d’inizio secolo, rappresentato dal vorticismo di John Wyndham. Pound tratta di questo argomento nel canto XLV dei Cantos, ma anche negli scritti ABC dell’economia ed in Lavoro ed usura. Principio cardine che muove tutta la polemica poundiana è la lotta senza quartiere alla mercificazione dell’uomo. Il denaro è anzitutto, a detta di Pound, una convenzione sociale, non una merce. A fondamento della ricchezza dei popoli sta, in secondo luogo, il lavoro che non è una merce. Distribuire lavoro significa, quindi, distribuire ricchezza. In terzo luogo, lo Stato ha il pieno potere di disporre del credito, non ha quindi bisogno di indebitarsi con le banche private. Partendo da questi presupposti ideologici, Pound ritiene che lo Stato dovrebbe applicare su ogni banconota circolante una tassa pari ad 1/100 del valore nominale di quest’ultima, senza tassare i cittadini produttori. In tal modo allo Stato verrebbe garantito un reddito annuale pari al 12% della massa monetaria circolante, esente tra l’altro, da qualunque rischio di evasione fiscale. Le banche tornerebbero ad interpretare il ruolo per cui erano state inizialmente costituite, ovverosia quello di intermediari finanziari, poiché in caso contrario, continuando a detenere per sé il denaro, lo perderebbero in un tempo stimato in 100 mesi, perché corroso dalla tassazione. Non solo. In questo modo lo Stato potrebbe garantire un’adeguata emissione valutaria, ripristinando la propria sovranità monetaria. Della stessa impostazione sono le proposte formulate da Domenico De Simone, da Giuseppe Bellia, dall’associazione AFIMO e da Giacinto Auriti. Derivante dalle teorizzazioni di Clifford Hugh Douglas e Silvio Gesell, questa scuola di pensiero fa propria l’idea di spostare la tassazione dai redditi da lavoro e da consumo, direttamente ai redditi finanziari (creati dal risparmio, dalla speculazione finanziaria, etc.), liberando i cittadini-consumatori da una gabella che ne depaupera il potere d’acquisto. Non solo, a detta di questa scuola, mentre la tassazione sui redditi da lavoro e da consumo fa sì che lo Stato ricorra al debito pubblico per ripagare alle banche interessi che la leva fiscale da sola non può assolutamente coprire, tramite la fiscalità monetaria questo problema verrebbe ovviamente superato, agganciandolo tra l’altro, ad una proposta di reddito di cittadinanza. Queste proposte di sicuro interesse presentano però dei punti deboli. L’affermare che, per esempio la tassazione sui redditi da lavoro possa essere la causa principe dell’innalzamento dei costi di produzione e dell’inflazione, è pericolosamente semplicistica, perché non tiene conto di tutta una serie di fattori legati a tale problema, in primis l’intento volto alla mera speculazione ed all’arricchimento individuale che caratterizza il detentore del mezzo di produzione e che, rientrando nella sfera dell’umana istintualità, non può trovare correttivi in delle mere misure economiche, bensì in differenti indirizzi etici ed educativi. Non solo. Proviamo solo un momento ad immaginare cosa accadrebbe in un paese di grandi risparmiatori come l’Italia. Risparmio ed economia reale hanno qui da noi costituito da sempre una barriera a protezione dalla speculazione finanziaria pura. Lo stesso reddito di cittadinanza potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio: da forte misura di tutela sociale, a strumento capace di aumentare pericolosamente la spirale debitoria dello stato, dando nuovamente spazio a tutte le scuole di impostazione ultra liberista. Per questo motivo, la lotta al signoraggio bancario, la stessa proposta di fiscalità monetaria, nella giustezza della loro intuizione, debbono essere formulate e rapportate all’attuale contesto senza cedere alla facile tentazione dell’utopismo. Il processo per addivenire alla sovranità monetaria, non può non passare attraverso l’uscita dall’Euro o, quanto meno, dal suo accantonamento al ruolo subordinato di moneta per gli scambi con l’estero, o addirittura per le sole manovre di contabilità internazionale, laddove per gli scambi commerciali si potrebbe optare per un ritorno alla Lira. D’altronde l’esperienza di quanto avvenuto nel secolo 19° negli USA, dove più stati adottarono una doppia monetazione per favorire una più rapida crescita economica, dovrebbe servire da memoria e da incentivo per quanto qui proposto. Diciamo che la tassa sul circolante di poundiana memoria potrebbe costituire una valida soluzione, solo se accompagnata da provvedimenti di tipo strutturale, quali la nazionalizzazione di Bankitalia con il conseguente obbligo di devoluzione alla cosa pubblica dei naturali proventi del signoraggio. Questi provvedimenti però, necessiterebbero di un riaggiustamento i cui tempi e le cui modalità non lascerebbero sperare per una realizzazione nell’immediato. Molto più facile sarebbe, a tal punto, bypassare il problema, attraverso l’emanazione di un apposito decreto legge che imponga l’immediato versamento dei frutti del signoraggio bancario nelle casse dello Stato, senza passare per altre mani; il tutto attraverso l’istituzione di una commissione di vigilanza istituita ad hoc. Strumento principe per scelte del genere dovrebbe essere l’istituzione referendaria. In tal modo, verrebbe inequivocabilmente sancito il diritto popolare all’intervento diretto su questioni di importanza strategica, così sottratte alla sfera di competenza di un ceto politico, troppo spesso legato mani e piedi ai poteri forti della finanza, i cui interessi, come si può ben vedere, non collimano assolutamente con quelli della gente comune.

di Umberto Bianchi

06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino

05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei