L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.
LE PREMESSE RECENTI
A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.
LA QUESTIONE DEL SIGNORAGGIO BANCARIO
Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.
LE RISERVE BANCARIE
Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.
L’INTROMISSIONE DEI GRUPPI FINANZIARI
Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico, finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.
LE RISPOSTE
A questo antico problema, vari studiosi e pensatori fuori dal coro generale hanno cercato di trovare una soluzione; tra questi in primis Ezra Pound, seguito in tempi più recenti dall’italiano Giacinto Auriti. Per incredibile che possa sembrare, a proporre una soluzione “forte” ad un problema apparentemente inestricabile sarà, a partire dai primi anni del secolo un poeta e un uomo di lettere, legato ad uno dei movimenti d’avanguardia d’inizio secolo, rappresentato dal vorticismo di John Wyndham. Pound tratta di questo argomento nel canto XLV dei Cantos, ma anche negli scritti ABC dell’economia ed in Lavoro ed usura. Principio cardine che muove tutta la polemica poundiana è la lotta senza quartiere alla mercificazione dell’uomo. Il denaro è anzitutto, a detta di Pound, una convenzione sociale, non una merce. A fondamento della ricchezza dei popoli sta, in secondo luogo, il lavoro che non è una merce. Distribuire lavoro significa, quindi, distribuire ricchezza. In terzo luogo, lo Stato ha il pieno potere di disporre del credito, non ha quindi bisogno di indebitarsi con le banche private. Partendo da questi presupposti ideologici, Pound ritiene che lo Stato dovrebbe applicare su ogni banconota circolante una tassa pari ad 1/100 del valore nominale di quest’ultima, senza tassare i cittadini produttori. In tal modo allo Stato verrebbe garantito un reddito annuale pari al 12% della massa monetaria circolante, esente tra l’altro, da qualunque rischio di evasione fiscale. Le banche tornerebbero ad interpretare il ruolo per cui erano state inizialmente costituite, ovverosia quello di intermediari finanziari, poiché in caso contrario, continuando a detenere per sé il denaro, lo perderebbero in un tempo stimato in 100 mesi, perché corroso dalla tassazione. Non solo. In questo modo lo Stato potrebbe garantire un’adeguata emissione valutaria, ripristinando la propria sovranità monetaria. Della stessa impostazione sono le proposte formulate da Domenico De Simone, da Giuseppe Bellia, dall’associazione AFIMO e da Giacinto Auriti. Derivante dalle teorizzazioni di Clifford Hugh Douglas e Silvio Gesell, questa scuola di pensiero fa propria l’idea di spostare la tassazione dai redditi da lavoro e da consumo, direttamente ai redditi finanziari (creati dal risparmio, dalla speculazione finanziaria, etc.), liberando i cittadini-consumatori da una gabella che ne depaupera il potere d’acquisto. Non solo, a detta di questa scuola, mentre la tassazione sui redditi da lavoro e da consumo fa sì che lo Stato ricorra al debito pubblico per ripagare alle banche interessi che la leva fiscale da sola non può assolutamente coprire, tramite la fiscalità monetaria questo problema verrebbe ovviamente superato, agganciandolo tra l’altro, ad una proposta di reddito di cittadinanza. Queste proposte di sicuro interesse presentano però dei punti deboli. L’affermare che, per esempio la tassazione sui redditi da lavoro possa essere la causa principe dell’innalzamento dei costi di produzione e dell’inflazione, è pericolosamente semplicistica, perché non tiene conto di tutta una serie di fattori legati a tale problema, in primis l’intento volto alla mera speculazione ed all’arricchimento individuale che caratterizza il detentore del mezzo di produzione e che, rientrando nella sfera dell’umana istintualità, non può trovare correttivi in delle mere misure economiche, bensì in differenti indirizzi etici ed educativi. Non solo. Proviamo solo un momento ad immaginare cosa accadrebbe in un paese di grandi risparmiatori come l’Italia. Risparmio ed economia reale hanno qui da noi costituito da sempre una barriera a protezione dalla speculazione finanziaria pura. Lo stesso reddito di cittadinanza potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio: da forte misura di tutela sociale, a strumento capace di aumentare pericolosamente la spirale debitoria dello stato, dando nuovamente spazio a tutte le scuole di impostazione ultra liberista. Per questo motivo, la lotta al signoraggio bancario, la stessa proposta di fiscalità monetaria, nella giustezza della loro intuizione, debbono essere formulate e rapportate all’attuale contesto senza cedere alla facile tentazione dell’utopismo. Il processo per addivenire alla sovranità monetaria, non può non passare attraverso l’uscita dall’Euro o, quanto meno, dal suo accantonamento al ruolo subordinato di moneta per gli scambi con l’estero, o addirittura per le sole manovre di contabilità internazionale, laddove per gli scambi commerciali si potrebbe optare per un ritorno alla Lira. D’altronde l’esperienza di quanto avvenuto nel secolo 19° negli USA, dove più stati adottarono una doppia monetazione per favorire una più rapida crescita economica, dovrebbe servire da memoria e da incentivo per quanto qui proposto. Diciamo che la tassa sul circolante di poundiana memoria potrebbe costituire una valida soluzione, solo se accompagnata da provvedimenti di tipo strutturale, quali la nazionalizzazione di Bankitalia con il conseguente obbligo di devoluzione alla cosa pubblica dei naturali proventi del signoraggio. Questi provvedimenti però, necessiterebbero di un riaggiustamento i cui tempi e le cui modalità non lascerebbero sperare per una realizzazione nell’immediato. Molto più facile sarebbe, a tal punto, bypassare il problema, attraverso l’emanazione di un apposito decreto legge che imponga l’immediato versamento dei frutti del signoraggio bancario nelle casse dello Stato, senza passare per altre mani; il tutto attraverso l’istituzione di una commissione di vigilanza istituita ad hoc. Strumento principe per scelte del genere dovrebbe essere l’istituzione referendaria. In tal modo, verrebbe inequivocabilmente sancito il diritto popolare all’intervento diretto su questioni di importanza strategica, così sottratte alla sfera di competenza di un ceto politico, troppo spesso legato mani e piedi ai poteri forti della finanza, i cui interessi, come si può ben vedere, non collimano assolutamente con quelli della gente comune.
di Umberto Bianchi
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