08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







lettaalfano
L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras 

07 maggio 2013

Tutta colpa degli italiani






 
Italiani di destra e sinistra, vi meritate tutto questo. Vi meritate un governo che non è nient’altro che un Monti bis, solo più furbesco (la ministra di colore, la Convenzione per riforme eterne incompiute, qualche taglietto ridicolo agli stipendi ministeriali) ma ugualmente scientifico nel perseguire la politica economica e sociale dettata dai mercati e dall’Eurocrazia (con la disgustosa retorica del “buon padre di famiglia” evocata dal premier Letta: come se non ricordassimo che fu proprio il suo maestro, Andreatta, l’autore della privatizzazione della Banca d’Italia, che diede la stura istituzionale al debito inestinguibile contrattato nella bisca dei titoli).

Ve la meritate, questa ennesima conferma sfacciata dell’assoluta identità di fondo dei partiti difensori della Repubblica oligarchica. Siete voi che siete andati ancora una volta a legittimare col vostro voto chi non può fare a meno dell’ammucchiata conservatrice, per mantenere il potere e le comode posizioni di privilegio personale e di casta, obbedienti ai padroni Usa e Ue, voi i responsabili oggettivi della cappa di pensiero unico, e ora, nuovamente, di governo unico che ci ritroviamo sulla testa.
Voi che, ragliando beatamente e beotamente gli inni della illusoria guerra elettorale, avete infilato la vostra brava scheda nell’urna, come al solito sperando che la vostra squadra del cuore vinca, ma non vince mai perché la partita è truccata in partenza (leggi elettorali inguardabili, interessi trasversali, patti per tutelarsi a vicenda). Vi fate sempre fregare, e così anche questa volta siete rimasti fregati.
Voi di sinistra che avete votato la coalizione Pd-Sel: complimentoni. Voi democratici ve le bevete proprio tutte, uscite dai gangheri per qualche giorno ma al dunque tornate nei ranghi, lobotomizzati dal mito fasullo, di origine democristiana e comunista, del Partito unica fonte di salvezza. Coprite con la menzogna della “responsabilità” l’acquiescenza pecorona a qualsiasi intruglio parlamentare, fino ad accettare la copula con Berlusconi che era la vostra bestia nera fino a ieri e oggi è diventato l’alleato senza alternative. Siete senza spina dorsale, senza dignità.
Voi sellini cercate di rifarvi una verginità passando all’opposizione, ma la vostra strada è una ed è obbligata: rimettervi assieme a ciò che sta immediatamente alla vostra destra, cioè il Pd o quel che ne resterà. Siete chiacchiere e distintivo.
Voi del PdL potete gongolare: il vostro beniamino e messia Berlusconi è rinato, smentendo tutti coloro, fra cui noi, che lo davano politicamente finito. Ma il berlusconismo è al capolinea, così come il leghismo, la cui carica di rivalsa anti-statale è stata scippata dal grillismo, più fresco e credibile anche se impreparato a farne un uso efficace. Vi crogiolate nel vedere questo vecchio marpione delinquenziale prendersi la sua rivincita e tornare a Palazzo Chigi per interposto Alfano, e tanto vi basta. Il vostro anti-sinistrismo viscerale e quarantottesco? Accantonato in un batter di tacchi, sull’attenti, perché Silvio ha sempre ragione.
Voi leghisti avete toccato il punto più basso della vostra parabola politica: attaccati con le unghie e coi denti alle tre regioni del Nord favoleggiando di una macroregione che mai vedrà la luce, ma che vi terrà buoni e creduloni dopo aver inseguito per decenni paradisi artificiali con nomi sempre nuovi (indipendenza, federalismo, Padania, devolution), avete votato Napolitano al Quirinale e state vivendo il vostro declino stando un po’ dentro e un po’ fuori, né in maggioranza né all’opposizione. Una italianissima e cialtronissima non belligeranza.
Sì, siete tutti voi i colpevoli, voi milioni di boccaloni. Alla fine torniamo sempre lì: agli àpoti di Prezzolini, quelli che non se la bevono. Ma mentre l’indimenticabile e purtroppo dimenticato Prezzo ne faceva motivo per uno scettico distacco dopo anni di battaglie giornalistiche e politiche da italiano inutile quale si sentiva, io penso che la repulsione anzitutto morale che suscitate deve farsi carburante di un’attiva rivolta esistenziale e politica. Compreso un netto, se si vuole aristocratico ma nient’affatto snobistico sentimento di distanza dall’italiano beone e beota che incarnate così bene. No, non è la riedizione della diversità antropologica di berlingueriana memoria, quella sì snob e antisociale (sia pur testimoniato da una militanza Pci che appunto fino a Berlinguer poteva dirsi di una serietà impeccabile), né tanto meno intolleranza livellatrice di ascendenza fascista. La differenza consapevole di cui sto parlando non è ostentato e sprezzante complesso di superiorità, perché voi, comportandovi come vi comportate, avete la colpa di tradire i vostri stessi interessi, che sono quelli dei molti contro i pochi, del popolo contro la cricca. Non siete “nemici di classe” come pensavano quei tardoni dei tardo-marxisti, né “antinazionali” da purgare e bandire dalla vita civile com’era prassi per i gorilla fascistoni.
Voi, plaudendo alla sceneggiata partitocratica, siete i peggiori nemici di voi stessi.

di Alessio Mannino

05 maggio 2013

Maschera e volto della politica italiana




MASCHERA E VOLTO DELLA POLITICA ITALIANA
Il ciclo politico iniziatosi con l’”operazione colorata” Mani Pulite si sta per compiere con un colpo di scena più apparente che reale, ovvero con il Governo del Presidente, garante degli interessi dei “mercati” e vera manina d’oltreoceano in versione tricolore, che ha benedetto l’alleanza tra Berlusconi – il “nano malefico” che voleva distruggere l’Europa, secondo l’”Economist” (il settimanale preferito dai “centro-sinistri” che considerano “populista” chiunque non riesca a guadagnare almeno 10000 euro al mese), e che “rappresenta”, in particolare, i propri interessi e quelli dei suoi compagni (e “compagne”) di merende – e Bersani, un politico di seconda categoria, “rappresentante” degli interessi del ceto medio “semicolto”, ma soprattutto di quelli della grande industria (decotta) e della finanza (fellona) tricolori, anche se probabilmente non li “rappresenta” bene come il suo rivale, il “giovane” sindaco di Firenze, quel Renzi che come Nanni Moretti pare sia sempre sul punto di affogare in un barattolo di nutella. Eppure si tratta solo del finale di una commedia dell’assurdo per il “popolo bue”, che evidentemente, dopo oltre vent’anni di teatrino politico di infimo ordine, lo si ritiene talmente rincitrullito da poter fargli ingoiare qualsiasi rospo. Infatti, quel che in realtà sta accadendo (perché in politica, se non sempre, quasi sempre l’apparenza inganna) è non opposto a quel che appare, ma un po’ più complesso di che quel che appare, giacché è l’intero che conta, se si vuol comprendere il senso delle singole parti).
 Non vogliamo certo sostenere che l’analisi della situazione in cui si trova il nostro Paese non debba tener conto della suddetta “operazione colorata” che diede origine ad uno nuovo corso politico, “simbolo” del quale si può considerare il noto incontro tra “gentiluomini” (o se si preferisce, il gentlemen’s agreement) a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992. Nondimeno, si deve tener presente che se i mezzi di cui si sono avvalsi e si avvalgano gli strateghi dei centri egemonici euroatlantisti (notare il plurale) sono stati e sono gli “agenti” che rappresentano i diversi gruppi d’interesse “indigeni”, tali “attori politici” (da Berlusconi a D’Alema, da Amato a Prodi e così via), anche se ben remunerati per i loro “servigi”, sono solo “strumenti”(spesso perfino inconsapevoli, esattamente come i gazzettieri al soldo dei diversi gruppi d’interesse in lotta tra di loro) di strategie geopolitiche il cui scopo non lo si deve certo confondere con i mezzi che si usano per raggiungerlo. Non ci vuole molto allora per capire qual è il “fine reale” che tali centri egemonici perseguono con tenacia e coerenza almeno dagli anni Settanta, ma che solo le “mani pulite” della magistratura italiana hanno reso assai meno difficile conseguire. Vediamo brevemente perché.
 L’Italia, nel secondo dopoguerra – vuoi per il ruolo di una solida e dinamica impresa pubblica, soprattutto nei settori strategici (Eni, Iri etc.), vuoi per una miriade di intraprendenti piccole e medie imprese, diffuse a macchia di leopardo in buona parte del territorio nazionale, vuoi per la presenza della Chiesa cattolica e di un forte partito comunista, assai ben organizzato e ben radicato nella struttura sociale- era uno Stato a sovranità limitata, ma con caratteristiche tali da renderlo “anomalo” rispetto agli altri Stati occidentali (ossia non conforme alla regola generale, alla norma, alla struttura tipica dell’Occidente), e da permettere alla classe dirigente italiana, o meglio ad alcuni membri di essa, di avere un certa libertà di manovra, anche a livello internazionale. Il tutto reso in qualche modo ancora più significativo dal fatto che la società italiana, pur conoscendo un massiccio fenomeno di migrazione interna negli anni Cinquanta e Sessanta (specialmente dal Sud al Nord, verso il triangolo industriale i cui vertici erano Torino Milano e Genova), era ancora contraddistinta da principi e valori di una cultura plurisecolare (e ancora legata al mondo contadino), e dal fatto che la grande industria a gestione pubblica coesisteva con un capitalismo di tipo sostanzialmente familiare e borghese, ossia con poche grande aziende private (benché assai diverse per quanto concerne il modo di intendere la funzione sociale del capitale, sì che non è un caso che oggi sia ancora presente la Fiat, ma non l’Olivetti). Un capitalismo pertanto differente da quello basato sui funzionari del capitale (e che era presente già da tempo in Occidente), dato che la particolare formazione sociale italiana comportava appunto che la maggior parte dei manager fossero al servizio non tanto del capitale quanto dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi e ideologici (non necessariamente in senso negativo), in grado di svolgere una funzione pubblica e strategica nettamente distinta da (benché, lo si deve riconoscere, non necessariamente contrapposta a) quella di interessi privati, nazionali o stranieri. Una differenza non da poco sia sul piano politico che su quello economico (Enrico Mattei docet).
 D’altronde, a partire dagli anni Settanta, con la fine del Gold Standard, il capitalismo occidentale dovendo far fronte alla crisi geopolitica del centro regolatore mondiale del capitalismo, cioè gli Stati Uniti, seppe reagire con una innovazione strategica (che traeva profitto dalla “rivoluzione tecnologica” nel campo dell’elettronica e in quello dell’informatica), incentrata sulla ridefinizione della potenza statunitense in chiave non solo politico-militare, ma anche in chiave finanziaria, e che doveva obbligare, nel giro di pochi anni, i singoli Stati a dipendere dalle decisioni del “mercato”, sfruttando in primo luogo le “disfunzioni” del Welfare State (clientelismo, assistenzialismo, inefficienza etc.), non allo scopo di “curarlo” ma di liquidarlo definitivamente. Un mutamento quindi che non avrebbe potuto non avere “pesanti” conseguenze per la struttura sociale ed economica italiana, qualora l’Italia non si fosse dotata rapidamente di una nuova “corazza” politico-economica, sfruttando quei margini di manovra di cui ancor godeva. Tuttavia, il sistema politico italiano già reso inefficiente dal diffondersi della corruzione e scosso dalla strategia della tensione, nonché dal terrorismo, rosso e nero, aveva enormi difficoltà a rinnovarsi. Tanto che fu il referendum sul divorzio a mostrare al Pci (che, convinto della necessità di un’alleanza con le masse popolari democristiane, temeva che tale referendum fosse un grave errore) che i tempi stavano cambiando anche in Italia e che il vento dell’Ovest avrebbe soffiato molto più forte, considerando pure le evidenti e non contingenti patologie che affliggevano il sistema sovietico. Cominciò così il lungo cammino del più grande e forte partito comunista occidentale verso Washington. Un percorso non “lineare”, né privo di difficoltà o di incertezze – sia per il caso Moro, sia per contrastare la politica del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), sia per non allarmare troppo la propria “base” – ma che venne a configurasi sempre più chiaramente come un passaggio  – accelerato ma non causato dal crollo dell’Unione Sovietica – dall’eurocomunismo all’euroatlantismo.
 Ragion per cui, negli anni Ottanta, da un lato, venne completamente a mancare quella spinta ideale che negli anni precedenti, nonostante tutto, era ancora presente anche in certi ambienti politici, non solo di sinistra o cattolici, e a consolidarsi un regime partitocratico imperniato sul (già menzionato) CAF, ma pure sulla partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” del Pci mentre continuava la sua ”lunga marcia” verso Ovest. Dall’altro, con la rinuncia al controllo politico del settore strategico nazionale e l’abbandono di un’idea di bene comune (e di giustizia sociale) condivisa da tutti gli strati della popolazione, in particolare dai ceti medio-bassi e popolari, si sancì il definitivo distacco di gran parte della intellighenzia italiana da ogni concezione socialista.  Un mutamento di “paradigma” politico-culturale favorito non poco dall’onda lunga del Sessantotto che spazzò via nel medesimo tempo la “vecchia” morale borghese e le strutture sociali e culturali ancora legate al mondo contadino – maunicamente al fine di “glorificare” una sorta di “fondamentalismo laico e liberista” (assai ben rappresentato dal quotidiano “La Repubblica”) che, in quanto “espressione” di un egualitarismo astratto e formale, “maschera” le reali e sostanziali diseguaglianze sociali ed economiche, promuovendo quella forma di individualismo, secondo cui lo Stato deve essere neutrale rispetto ai valori, mentre si deve lasciare che sia il “mercato” a decidere quali siano i valori fondanti di una società.
 Si badi però che ciò non significa che non fosse necessario modernizzare il sistema sociale italiano; anzi è vero l’opposto, giacché la modernizzazione del sistema italiano era ormai inevitabile. Il problema era come modernizzare. Un problema che la classe politica di allora non si pose nemmeno, tranne qualche lodevole eccezione, essendo interessata a chi doveva modernizzare – allorché fu palese, soprattutto dopo il risultato del referendum sul divorzio, che si doveva modernizzare – ma non a come si doveva modernizzare. Epperò, non è assurdo ipotizzare che la necessità di modernizzare il sistema sociale italiano, avrebbe potuto anche dare origine ad un corso politico diverso da quello neoliberista, evitando di svellere quelle “radici culturali” che di fatto erano a fondamento del “particolare sviluppo” del nostro Paese – una questione tutt’altro che irrilevante come dimostra il “fallimento” politico, e non solo politico, di una Unione Europea che, privilegiando una “demenziale” ottica economicistica, non tiene neanche conto delle differenze tra l’area mediterranea e quella baltica). Comunque sia, è innegabile che – allorquando si attuava una ristrutturazione della megamacchina capitalistica occidentale tramite le politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione del movimento dei capitali, che rendevano possibile ciò che si suole denominare – assai genericamente – mondializzazione o globalizzazione – “ignorando” il “soggetto (geo)politico che mondializza o globalizza) – la cultura politica italiana, anziché concentrarsi sulla funzione della politica della potenza capitalistica predominante e del conflitto (geo)politico, preferì rivolgere la propria attenzione alla “soggettività”, alla microfisica del potere, all’economia libidinale e così via (una “svolta” le cui coneguenze cominciano a vedersi solo oggi che la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta rivelando il suo volto (geo)politico).
 Non sorprende quindi che, proprio quando era necessario avere un “classe politica” capace di “giocare la carta” della ”peculiarità” del sistema italiano in un contesto geopolitico del tutto diverso da quello che aveva contrassegnato fino ad allora il secondo dopoguerra, con la vicenda di Mani Pulite si siano venute a creare le condizioni per poter smantellare la nostra unica macchina da guerra che – sebbene non fosse del tutto “gioiosa” e fosse pure da ammodernare – sarebbe stata indubbiamente in grado di difendere l’interesse generale se comandata da abili condottieri. Sicché, si può ritenere che, in un certo senso, la stessa “operazione colorata” Mani Pulite sia stata generata, per così dire, dalla “marcia delle cose” più che dalla volontà dei singoli attori (geo)politici (e con ciò si elimina pure, in radice, qualsiasi “complottismo” da bar dello sport), consentendo ai diversi gruppi politici “locali” (invero bande di mercenari al servizio di potentati stranieri tutti filo-atlantisti) di lottare tra di loro per aggiudicarsi l’“osso migliore”, mentre venivano gettate le fondamenta della nuova Nato e della nuova Unione Europea, (una ”ristrutturazione” assolutamente necessaria dopo il crollo del Muro e la riunificazione della Germania).
Facile dunque comprendere il “fine reale” dei centri egemonici atlantisti adesso che il loro disegno si è quasi completamente realizzato: se la Nato è il braccio violento della legge del “mercato occidentale” e l’Unione Europea, dopo l’introduzione dell’euro (anche allo scopo di saldare la Germania all’Atlantico), è uno zombie geopolitico alla mercé dei “mercati”, lo Stato italiano si è definitivamente (o quasi) trasformato (senza che nessuno dei diversi schieramenti in lotta tra di loro vi si sia mai opposto, al di là di alcuni giri di valzer con Putin e Gheddafi da parte del “nano” – in senso politico, s’intende – di Arcore) in un funzionario del capitale euroatlantista che deve svolgere bene i compiti (assai importanti, al contrario di quanto pensano parecchi italiani “ingenui”) assegnatigli dai “mercati”. D’altra parte, dovrebbe essere manifesto a chiunque che se negli anni Novanta il debito pubblico (cresciuto a dismisura dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro) fu usato per (s)vendere il nostro settore strategico ai potentati stranieri, ancora una volta i “mercati” possono far leva sul debito pubblico per trarre il massimo profitto dalla situazione originatasi dopo lo tsunami finanziario del 2008 (e costato all’Italia, secondo lo stesso Draghi, il 5% del Pil). Il che per i centri egemonici euroatlantisti e i loro zelanti servitori (politici, gazzettieri e intellettuali) è “cosa buona e giusta”, ma non per quei “molti” ormai quasi del tutto privi di diritti sociali ed economici. Ma anche il teatrino della politica italiana, del resto, non può più nascondere il fatto che il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono, in realtà, due “effetti di superficie” della medesima “struttura profonda”.
Naturalmente vi sono molte altre questioni di cui si dovrebbe tener conto per spiegare il rapporto tra siffatta “struttura profonda” ed suoi “effetti di superficie”, passati e presenti. Lo scopo di questa breve nota, tuttavia, è solo quello di mostrare, sia pure a grande linee, alcune delle ragioni (geo)politiche, onde capire meglio la tendenza fondamentale della politica italiana adesso che il nostro Paese si trova nella morsa di una gravissima crisi economica (e la “pressione” dei “mercati” e dei loro “agenti” sui ceti medio-bassi e popolari ha raggiunto livelli intollerabili). Anche noi ci rendiamo però perfettamente conto che un’analisi approfondita non deve limitarsi ad alcune considerazioni a volo d’uccello su una fase storica così difficile e densa di eventi, alcuni dei quali perfino di portata epocale. Sotto questo punto di vista, di “lavoro” ve n’è certo ancora molto da fare, e a maggior ragione lo si deve fare per interpretare bene i “singoli particolari”. Ma non è tanto l’aspetto meramente storico che rileva e nemmeno (anche se può sembrare blasfemo considerando la crisi che colpisce milioni di italiani) quello meramente economico, quanto piuttosto evidenziare i lineamenti fondamentali della strategia di quei “centri di potenza” che hanno messo in ginocchio lo Stato italiano trasformandolo in un funzionario del capitale euroatlantista. Sarebbe dunque necessario liberarsi al più presto di schemi concettuali obsoleti e/o “politicamente corretti”, nonché di ogni forma di economicismo, marxista o liberista che sia, e ciò proprio per interpretare correttamente il rapporto tra il Politico – inteso come funzione strategica per “regolare” i conflitti tra (sub)dominanti o tra (sub)dominanti e “dominati” – e l’Economico (secondo la “lezione” di Gianfranco La Grassa, i cui scritti sono di gran lunga i migliori su questo delicato argomento). Vale a dire che è essenziale comprendere la funzione dello Stato alla luce della supremazia del Politico, giacché oggi più che mai la vera “posta in gioco” è la (ri)conquista dello Stato, se si vuole delineare una prospettiva opposta a quella dell’euroatlantismo, sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello culturale e socio-economico.
di Fabio Falchi 

08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







lettaalfano
L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras 

07 maggio 2013

Tutta colpa degli italiani






 
Italiani di destra e sinistra, vi meritate tutto questo. Vi meritate un governo che non è nient’altro che un Monti bis, solo più furbesco (la ministra di colore, la Convenzione per riforme eterne incompiute, qualche taglietto ridicolo agli stipendi ministeriali) ma ugualmente scientifico nel perseguire la politica economica e sociale dettata dai mercati e dall’Eurocrazia (con la disgustosa retorica del “buon padre di famiglia” evocata dal premier Letta: come se non ricordassimo che fu proprio il suo maestro, Andreatta, l’autore della privatizzazione della Banca d’Italia, che diede la stura istituzionale al debito inestinguibile contrattato nella bisca dei titoli).

Ve la meritate, questa ennesima conferma sfacciata dell’assoluta identità di fondo dei partiti difensori della Repubblica oligarchica. Siete voi che siete andati ancora una volta a legittimare col vostro voto chi non può fare a meno dell’ammucchiata conservatrice, per mantenere il potere e le comode posizioni di privilegio personale e di casta, obbedienti ai padroni Usa e Ue, voi i responsabili oggettivi della cappa di pensiero unico, e ora, nuovamente, di governo unico che ci ritroviamo sulla testa.
Voi che, ragliando beatamente e beotamente gli inni della illusoria guerra elettorale, avete infilato la vostra brava scheda nell’urna, come al solito sperando che la vostra squadra del cuore vinca, ma non vince mai perché la partita è truccata in partenza (leggi elettorali inguardabili, interessi trasversali, patti per tutelarsi a vicenda). Vi fate sempre fregare, e così anche questa volta siete rimasti fregati.
Voi di sinistra che avete votato la coalizione Pd-Sel: complimentoni. Voi democratici ve le bevete proprio tutte, uscite dai gangheri per qualche giorno ma al dunque tornate nei ranghi, lobotomizzati dal mito fasullo, di origine democristiana e comunista, del Partito unica fonte di salvezza. Coprite con la menzogna della “responsabilità” l’acquiescenza pecorona a qualsiasi intruglio parlamentare, fino ad accettare la copula con Berlusconi che era la vostra bestia nera fino a ieri e oggi è diventato l’alleato senza alternative. Siete senza spina dorsale, senza dignità.
Voi sellini cercate di rifarvi una verginità passando all’opposizione, ma la vostra strada è una ed è obbligata: rimettervi assieme a ciò che sta immediatamente alla vostra destra, cioè il Pd o quel che ne resterà. Siete chiacchiere e distintivo.
Voi del PdL potete gongolare: il vostro beniamino e messia Berlusconi è rinato, smentendo tutti coloro, fra cui noi, che lo davano politicamente finito. Ma il berlusconismo è al capolinea, così come il leghismo, la cui carica di rivalsa anti-statale è stata scippata dal grillismo, più fresco e credibile anche se impreparato a farne un uso efficace. Vi crogiolate nel vedere questo vecchio marpione delinquenziale prendersi la sua rivincita e tornare a Palazzo Chigi per interposto Alfano, e tanto vi basta. Il vostro anti-sinistrismo viscerale e quarantottesco? Accantonato in un batter di tacchi, sull’attenti, perché Silvio ha sempre ragione.
Voi leghisti avete toccato il punto più basso della vostra parabola politica: attaccati con le unghie e coi denti alle tre regioni del Nord favoleggiando di una macroregione che mai vedrà la luce, ma che vi terrà buoni e creduloni dopo aver inseguito per decenni paradisi artificiali con nomi sempre nuovi (indipendenza, federalismo, Padania, devolution), avete votato Napolitano al Quirinale e state vivendo il vostro declino stando un po’ dentro e un po’ fuori, né in maggioranza né all’opposizione. Una italianissima e cialtronissima non belligeranza.
Sì, siete tutti voi i colpevoli, voi milioni di boccaloni. Alla fine torniamo sempre lì: agli àpoti di Prezzolini, quelli che non se la bevono. Ma mentre l’indimenticabile e purtroppo dimenticato Prezzo ne faceva motivo per uno scettico distacco dopo anni di battaglie giornalistiche e politiche da italiano inutile quale si sentiva, io penso che la repulsione anzitutto morale che suscitate deve farsi carburante di un’attiva rivolta esistenziale e politica. Compreso un netto, se si vuole aristocratico ma nient’affatto snobistico sentimento di distanza dall’italiano beone e beota che incarnate così bene. No, non è la riedizione della diversità antropologica di berlingueriana memoria, quella sì snob e antisociale (sia pur testimoniato da una militanza Pci che appunto fino a Berlinguer poteva dirsi di una serietà impeccabile), né tanto meno intolleranza livellatrice di ascendenza fascista. La differenza consapevole di cui sto parlando non è ostentato e sprezzante complesso di superiorità, perché voi, comportandovi come vi comportate, avete la colpa di tradire i vostri stessi interessi, che sono quelli dei molti contro i pochi, del popolo contro la cricca. Non siete “nemici di classe” come pensavano quei tardoni dei tardo-marxisti, né “antinazionali” da purgare e bandire dalla vita civile com’era prassi per i gorilla fascistoni.
Voi, plaudendo alla sceneggiata partitocratica, siete i peggiori nemici di voi stessi.

di Alessio Mannino

05 maggio 2013

Maschera e volto della politica italiana




MASCHERA E VOLTO DELLA POLITICA ITALIANA
Il ciclo politico iniziatosi con l’”operazione colorata” Mani Pulite si sta per compiere con un colpo di scena più apparente che reale, ovvero con il Governo del Presidente, garante degli interessi dei “mercati” e vera manina d’oltreoceano in versione tricolore, che ha benedetto l’alleanza tra Berlusconi – il “nano malefico” che voleva distruggere l’Europa, secondo l’”Economist” (il settimanale preferito dai “centro-sinistri” che considerano “populista” chiunque non riesca a guadagnare almeno 10000 euro al mese), e che “rappresenta”, in particolare, i propri interessi e quelli dei suoi compagni (e “compagne”) di merende – e Bersani, un politico di seconda categoria, “rappresentante” degli interessi del ceto medio “semicolto”, ma soprattutto di quelli della grande industria (decotta) e della finanza (fellona) tricolori, anche se probabilmente non li “rappresenta” bene come il suo rivale, il “giovane” sindaco di Firenze, quel Renzi che come Nanni Moretti pare sia sempre sul punto di affogare in un barattolo di nutella. Eppure si tratta solo del finale di una commedia dell’assurdo per il “popolo bue”, che evidentemente, dopo oltre vent’anni di teatrino politico di infimo ordine, lo si ritiene talmente rincitrullito da poter fargli ingoiare qualsiasi rospo. Infatti, quel che in realtà sta accadendo (perché in politica, se non sempre, quasi sempre l’apparenza inganna) è non opposto a quel che appare, ma un po’ più complesso di che quel che appare, giacché è l’intero che conta, se si vuol comprendere il senso delle singole parti).
 Non vogliamo certo sostenere che l’analisi della situazione in cui si trova il nostro Paese non debba tener conto della suddetta “operazione colorata” che diede origine ad uno nuovo corso politico, “simbolo” del quale si può considerare il noto incontro tra “gentiluomini” (o se si preferisce, il gentlemen’s agreement) a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992. Nondimeno, si deve tener presente che se i mezzi di cui si sono avvalsi e si avvalgano gli strateghi dei centri egemonici euroatlantisti (notare il plurale) sono stati e sono gli “agenti” che rappresentano i diversi gruppi d’interesse “indigeni”, tali “attori politici” (da Berlusconi a D’Alema, da Amato a Prodi e così via), anche se ben remunerati per i loro “servigi”, sono solo “strumenti”(spesso perfino inconsapevoli, esattamente come i gazzettieri al soldo dei diversi gruppi d’interesse in lotta tra di loro) di strategie geopolitiche il cui scopo non lo si deve certo confondere con i mezzi che si usano per raggiungerlo. Non ci vuole molto allora per capire qual è il “fine reale” che tali centri egemonici perseguono con tenacia e coerenza almeno dagli anni Settanta, ma che solo le “mani pulite” della magistratura italiana hanno reso assai meno difficile conseguire. Vediamo brevemente perché.
 L’Italia, nel secondo dopoguerra – vuoi per il ruolo di una solida e dinamica impresa pubblica, soprattutto nei settori strategici (Eni, Iri etc.), vuoi per una miriade di intraprendenti piccole e medie imprese, diffuse a macchia di leopardo in buona parte del territorio nazionale, vuoi per la presenza della Chiesa cattolica e di un forte partito comunista, assai ben organizzato e ben radicato nella struttura sociale- era uno Stato a sovranità limitata, ma con caratteristiche tali da renderlo “anomalo” rispetto agli altri Stati occidentali (ossia non conforme alla regola generale, alla norma, alla struttura tipica dell’Occidente), e da permettere alla classe dirigente italiana, o meglio ad alcuni membri di essa, di avere un certa libertà di manovra, anche a livello internazionale. Il tutto reso in qualche modo ancora più significativo dal fatto che la società italiana, pur conoscendo un massiccio fenomeno di migrazione interna negli anni Cinquanta e Sessanta (specialmente dal Sud al Nord, verso il triangolo industriale i cui vertici erano Torino Milano e Genova), era ancora contraddistinta da principi e valori di una cultura plurisecolare (e ancora legata al mondo contadino), e dal fatto che la grande industria a gestione pubblica coesisteva con un capitalismo di tipo sostanzialmente familiare e borghese, ossia con poche grande aziende private (benché assai diverse per quanto concerne il modo di intendere la funzione sociale del capitale, sì che non è un caso che oggi sia ancora presente la Fiat, ma non l’Olivetti). Un capitalismo pertanto differente da quello basato sui funzionari del capitale (e che era presente già da tempo in Occidente), dato che la particolare formazione sociale italiana comportava appunto che la maggior parte dei manager fossero al servizio non tanto del capitale quanto dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi e ideologici (non necessariamente in senso negativo), in grado di svolgere una funzione pubblica e strategica nettamente distinta da (benché, lo si deve riconoscere, non necessariamente contrapposta a) quella di interessi privati, nazionali o stranieri. Una differenza non da poco sia sul piano politico che su quello economico (Enrico Mattei docet).
 D’altronde, a partire dagli anni Settanta, con la fine del Gold Standard, il capitalismo occidentale dovendo far fronte alla crisi geopolitica del centro regolatore mondiale del capitalismo, cioè gli Stati Uniti, seppe reagire con una innovazione strategica (che traeva profitto dalla “rivoluzione tecnologica” nel campo dell’elettronica e in quello dell’informatica), incentrata sulla ridefinizione della potenza statunitense in chiave non solo politico-militare, ma anche in chiave finanziaria, e che doveva obbligare, nel giro di pochi anni, i singoli Stati a dipendere dalle decisioni del “mercato”, sfruttando in primo luogo le “disfunzioni” del Welfare State (clientelismo, assistenzialismo, inefficienza etc.), non allo scopo di “curarlo” ma di liquidarlo definitivamente. Un mutamento quindi che non avrebbe potuto non avere “pesanti” conseguenze per la struttura sociale ed economica italiana, qualora l’Italia non si fosse dotata rapidamente di una nuova “corazza” politico-economica, sfruttando quei margini di manovra di cui ancor godeva. Tuttavia, il sistema politico italiano già reso inefficiente dal diffondersi della corruzione e scosso dalla strategia della tensione, nonché dal terrorismo, rosso e nero, aveva enormi difficoltà a rinnovarsi. Tanto che fu il referendum sul divorzio a mostrare al Pci (che, convinto della necessità di un’alleanza con le masse popolari democristiane, temeva che tale referendum fosse un grave errore) che i tempi stavano cambiando anche in Italia e che il vento dell’Ovest avrebbe soffiato molto più forte, considerando pure le evidenti e non contingenti patologie che affliggevano il sistema sovietico. Cominciò così il lungo cammino del più grande e forte partito comunista occidentale verso Washington. Un percorso non “lineare”, né privo di difficoltà o di incertezze – sia per il caso Moro, sia per contrastare la politica del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), sia per non allarmare troppo la propria “base” – ma che venne a configurasi sempre più chiaramente come un passaggio  – accelerato ma non causato dal crollo dell’Unione Sovietica – dall’eurocomunismo all’euroatlantismo.
 Ragion per cui, negli anni Ottanta, da un lato, venne completamente a mancare quella spinta ideale che negli anni precedenti, nonostante tutto, era ancora presente anche in certi ambienti politici, non solo di sinistra o cattolici, e a consolidarsi un regime partitocratico imperniato sul (già menzionato) CAF, ma pure sulla partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” del Pci mentre continuava la sua ”lunga marcia” verso Ovest. Dall’altro, con la rinuncia al controllo politico del settore strategico nazionale e l’abbandono di un’idea di bene comune (e di giustizia sociale) condivisa da tutti gli strati della popolazione, in particolare dai ceti medio-bassi e popolari, si sancì il definitivo distacco di gran parte della intellighenzia italiana da ogni concezione socialista.  Un mutamento di “paradigma” politico-culturale favorito non poco dall’onda lunga del Sessantotto che spazzò via nel medesimo tempo la “vecchia” morale borghese e le strutture sociali e culturali ancora legate al mondo contadino – maunicamente al fine di “glorificare” una sorta di “fondamentalismo laico e liberista” (assai ben rappresentato dal quotidiano “La Repubblica”) che, in quanto “espressione” di un egualitarismo astratto e formale, “maschera” le reali e sostanziali diseguaglianze sociali ed economiche, promuovendo quella forma di individualismo, secondo cui lo Stato deve essere neutrale rispetto ai valori, mentre si deve lasciare che sia il “mercato” a decidere quali siano i valori fondanti di una società.
 Si badi però che ciò non significa che non fosse necessario modernizzare il sistema sociale italiano; anzi è vero l’opposto, giacché la modernizzazione del sistema italiano era ormai inevitabile. Il problema era come modernizzare. Un problema che la classe politica di allora non si pose nemmeno, tranne qualche lodevole eccezione, essendo interessata a chi doveva modernizzare – allorché fu palese, soprattutto dopo il risultato del referendum sul divorzio, che si doveva modernizzare – ma non a come si doveva modernizzare. Epperò, non è assurdo ipotizzare che la necessità di modernizzare il sistema sociale italiano, avrebbe potuto anche dare origine ad un corso politico diverso da quello neoliberista, evitando di svellere quelle “radici culturali” che di fatto erano a fondamento del “particolare sviluppo” del nostro Paese – una questione tutt’altro che irrilevante come dimostra il “fallimento” politico, e non solo politico, di una Unione Europea che, privilegiando una “demenziale” ottica economicistica, non tiene neanche conto delle differenze tra l’area mediterranea e quella baltica). Comunque sia, è innegabile che – allorquando si attuava una ristrutturazione della megamacchina capitalistica occidentale tramite le politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione del movimento dei capitali, che rendevano possibile ciò che si suole denominare – assai genericamente – mondializzazione o globalizzazione – “ignorando” il “soggetto (geo)politico che mondializza o globalizza) – la cultura politica italiana, anziché concentrarsi sulla funzione della politica della potenza capitalistica predominante e del conflitto (geo)politico, preferì rivolgere la propria attenzione alla “soggettività”, alla microfisica del potere, all’economia libidinale e così via (una “svolta” le cui coneguenze cominciano a vedersi solo oggi che la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta rivelando il suo volto (geo)politico).
 Non sorprende quindi che, proprio quando era necessario avere un “classe politica” capace di “giocare la carta” della ”peculiarità” del sistema italiano in un contesto geopolitico del tutto diverso da quello che aveva contrassegnato fino ad allora il secondo dopoguerra, con la vicenda di Mani Pulite si siano venute a creare le condizioni per poter smantellare la nostra unica macchina da guerra che – sebbene non fosse del tutto “gioiosa” e fosse pure da ammodernare – sarebbe stata indubbiamente in grado di difendere l’interesse generale se comandata da abili condottieri. Sicché, si può ritenere che, in un certo senso, la stessa “operazione colorata” Mani Pulite sia stata generata, per così dire, dalla “marcia delle cose” più che dalla volontà dei singoli attori (geo)politici (e con ciò si elimina pure, in radice, qualsiasi “complottismo” da bar dello sport), consentendo ai diversi gruppi politici “locali” (invero bande di mercenari al servizio di potentati stranieri tutti filo-atlantisti) di lottare tra di loro per aggiudicarsi l’“osso migliore”, mentre venivano gettate le fondamenta della nuova Nato e della nuova Unione Europea, (una ”ristrutturazione” assolutamente necessaria dopo il crollo del Muro e la riunificazione della Germania).
Facile dunque comprendere il “fine reale” dei centri egemonici atlantisti adesso che il loro disegno si è quasi completamente realizzato: se la Nato è il braccio violento della legge del “mercato occidentale” e l’Unione Europea, dopo l’introduzione dell’euro (anche allo scopo di saldare la Germania all’Atlantico), è uno zombie geopolitico alla mercé dei “mercati”, lo Stato italiano si è definitivamente (o quasi) trasformato (senza che nessuno dei diversi schieramenti in lotta tra di loro vi si sia mai opposto, al di là di alcuni giri di valzer con Putin e Gheddafi da parte del “nano” – in senso politico, s’intende – di Arcore) in un funzionario del capitale euroatlantista che deve svolgere bene i compiti (assai importanti, al contrario di quanto pensano parecchi italiani “ingenui”) assegnatigli dai “mercati”. D’altra parte, dovrebbe essere manifesto a chiunque che se negli anni Novanta il debito pubblico (cresciuto a dismisura dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro) fu usato per (s)vendere il nostro settore strategico ai potentati stranieri, ancora una volta i “mercati” possono far leva sul debito pubblico per trarre il massimo profitto dalla situazione originatasi dopo lo tsunami finanziario del 2008 (e costato all’Italia, secondo lo stesso Draghi, il 5% del Pil). Il che per i centri egemonici euroatlantisti e i loro zelanti servitori (politici, gazzettieri e intellettuali) è “cosa buona e giusta”, ma non per quei “molti” ormai quasi del tutto privi di diritti sociali ed economici. Ma anche il teatrino della politica italiana, del resto, non può più nascondere il fatto che il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono, in realtà, due “effetti di superficie” della medesima “struttura profonda”.
Naturalmente vi sono molte altre questioni di cui si dovrebbe tener conto per spiegare il rapporto tra siffatta “struttura profonda” ed suoi “effetti di superficie”, passati e presenti. Lo scopo di questa breve nota, tuttavia, è solo quello di mostrare, sia pure a grande linee, alcune delle ragioni (geo)politiche, onde capire meglio la tendenza fondamentale della politica italiana adesso che il nostro Paese si trova nella morsa di una gravissima crisi economica (e la “pressione” dei “mercati” e dei loro “agenti” sui ceti medio-bassi e popolari ha raggiunto livelli intollerabili). Anche noi ci rendiamo però perfettamente conto che un’analisi approfondita non deve limitarsi ad alcune considerazioni a volo d’uccello su una fase storica così difficile e densa di eventi, alcuni dei quali perfino di portata epocale. Sotto questo punto di vista, di “lavoro” ve n’è certo ancora molto da fare, e a maggior ragione lo si deve fare per interpretare bene i “singoli particolari”. Ma non è tanto l’aspetto meramente storico che rileva e nemmeno (anche se può sembrare blasfemo considerando la crisi che colpisce milioni di italiani) quello meramente economico, quanto piuttosto evidenziare i lineamenti fondamentali della strategia di quei “centri di potenza” che hanno messo in ginocchio lo Stato italiano trasformandolo in un funzionario del capitale euroatlantista. Sarebbe dunque necessario liberarsi al più presto di schemi concettuali obsoleti e/o “politicamente corretti”, nonché di ogni forma di economicismo, marxista o liberista che sia, e ciò proprio per interpretare correttamente il rapporto tra il Politico – inteso come funzione strategica per “regolare” i conflitti tra (sub)dominanti o tra (sub)dominanti e “dominati” – e l’Economico (secondo la “lezione” di Gianfranco La Grassa, i cui scritti sono di gran lunga i migliori su questo delicato argomento). Vale a dire che è essenziale comprendere la funzione dello Stato alla luce della supremazia del Politico, giacché oggi più che mai la vera “posta in gioco” è la (ri)conquista dello Stato, se si vuole delineare una prospettiva opposta a quella dell’euroatlantismo, sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello culturale e socio-economico.
di Fabio Falchi