11 maggio 2013

Gli Stati Uniti sull'orlo del collasso economico




GLI STATI UNITI SULL’ORLO DEL COLLASSO ECONOMICO
Negli scorsi anni, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino in cui si stabiliva la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. Nonostante il più che cospicui vantaggi garantiti da questi accordi, gli alti rappresentanti cinesi, non paghi dei risultati ottenuti, hanno perseguito con ostinazione i loro sempre più ambiziosi obiettivi riuscendo infine a compiere il vero salto di qualità.
Il scorso 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. In primo luogo, questa mossa non può che rappresentare un indice estremamente affidabile della sfiducia che le due potenze asiatiche nutrono nei riguardi delle classi dirigenti degli Stati Uniti e dei Paesi europei, giudicate incapaci di escogitare soluzioni valide per migliorare o quantomeno attenuare le drammatiche condizioni in cui versano le loro rispettive economie.
Ma ponendo la questione su di un livello di indagine più elevato, appare con chiarezza il fatto che anche il Giappone, che in passato ha sempre sostenuto gli Stati Uniti, sta rivedendo le proprie posizioni internazionali avvicinandosi al novero delle nazioni che intendono superare il sistema economico mondiale incardinato sul dollaro. Nel corso delle ultime riunioni del G20, si è infatti manifestata una profonda spaccatura in seno al fronte delle potenze che vi prendono parte, in cui gli Stati Unti si sono posti alla testa del gruppo dei “conservatori”, che mira da sempre a mantenere il dollaro come moneta di riferimento internazionale, mentre la Cina si è presentata in rappresentanza dei “rivoluzionari”, che ambiscono ad adottare un differente modello che rispecchi i rapporti di forza internazionali nel futuro mondo multipolare che è attualmente in fase di strutturazione (nonostante i rapporti demografici ed economici, gli Stati Uniti detengono infatti oltre il 17% dei diritti di voto in seno al Fondo Monetario Internazionale, mentre quelli spettanti alla Cina non arrivano al 5%).
Gli Stati Uniti possono ancora contare sull’appoggio della Gran Bretagna ma stanno perdendo il Giappone, che cambiando campo ed aderendo quindi alla compagine formata da Cina, Russia, India, Brasile e Argentina, andrebbe a rafforzare in misura piuttosto consistente il fronte “rivoluzionario”.
Il che rimanda ad un problema non certo secondario, in quanto Cina e Giappone sono le principali nazioni ad acquistare i Buoni del Tesoro emessi da Washington e che detengono da sole qualcosa come 2.073,6 miliardi di dollari di debito statunitense (1.137 la Cina e 936,6 il Giappone) che attualmente supera quota 4.500 miliardi. La Cina, in altre parole, ha incamerato riserve di dollari talmente immani da investire Pechino del ruolo di arbitro dell’economia statunitense, che a questo punto riesce a sopravvivere solo ed esclusivamente attraverso la vendita dei Buoni del Tesoro.
Azioni eccessivamente spregiudicate si rivelerebbero però tremendamente controproducenti per Pechino, poiché finirebbero per provocare la drastica reazione di Washington, che chiuderebbe il mercato statunitense alle merci cinesi e congelerebbe il patrimonio cinese espresso in dollari.
Alla consapevolezza di ciò da parte dei dirigenti di Pechino si devono queste mosse tattiche di basso profilo, attraverso cui la Cina cerca di intaccare il sistema economico vigente e di sbarazzarsi lentamente delle proprie abnormi riserve di valuta statunitense. Promuovendo l’adozione dello yuan nell’ambito degli innumerevoli accordi bilaterali siglati con altri Paesi, Pechino mira inoltre a contrarre la domanda internazionale di dollari provocando un progressivo disinteresse dei mercati internazionali nei riguardi dei Buoni erogati dal Tesoro statunitense.
Tale disinteresse renderebbe vano ogni tentativo del Tesoro statunitense di piazzare le proprie emissioni e nel giro di pochi mesi Washington potrebbe accorgersi di aver stampato una quantità di cartamoneta sproporzionata alle richieste dei mercati internazionali, cosa che attiverebbe la micidiale morsa inflazionistica. In questo contesto il dollaro potrebbe svalutarsi eccezionalmente, costringendo le banche centrali a liberarsi il più in fretta possibile della valuta statunitense. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, accadde verso la fine degli anni Sessanta, quando gli Stati Uniti stamparono una quantità talmente esorbitante di cartamoneta – nel tentativo di stabilizzare la preoccupante situazione economica venutasi a creare in seguito alla crescita dei cosiddetti “debiti gemelli” (disavanzo pubblico e disavanzo delle partite correnti) causata dalle spese connesse alla disastrosa guerra del Vietnam – da indurre i mercati internazionali a dubitare della reale capacità di Washington di convertire in oro la marea di banconote stampate.
Allora il Generale Charles De Gaulle annunciò pubblicamente l’avvio della conversione in oro di tutte riserve francesi di dollari e Giappone e Paesi arabi, più in sordina, fecero lo stesso.
Ciò produsse il classico effetto domino, che spinse numerosi Paesi ad arricchire le proprie riserve auree intensificando, di conseguenza, la domanda internazionale d’oro. Sempre a causa dei timori suscitati dai disastrati conti statunitensi, si verificò una brusca impennata degli investimenti internazionali nella moneta allora ritenuta più solida, ovvero il marco tedesco.
Conformemente alla visione tedesca dell’economia (che resiste ancora oggi), il governo di Bonn e i dirigenti della Bundesbank introdussero numerose misure volte a limitare la possibilità del sistema bancario tedesco di contrarre debiti con l’estero, ma ciò non placò le sollecitazioni al rialzo del marco, dovute al massiccio afflusso di dollari (circa 4 miliardi di dollari nel solo primo trimestre del 1971) detenuti al di fuori degli Stati Uniti dalle grandi banche internazionali. Questi esorbitanti afflussi di dollari funsero da preludio all’attesa rivalutazione del marco, che minacciava a quel punto di acquisire credenziali sufficienti per sostituire egregiamente il dollaro quale valuta di riferimento internazionale.
Negli Stati Uniti, intanto, il governo decise di adottare un calmiere dei prezzi e di bloccare i salari (un’eresia nella patria del liberismo) per frenare l’inarrestabile crescita inflazionistica ma le reiterate pressioni esercitate dai grandi gruppi industriali e dai sindacati non produssero altro che l’istituzione di norme protezionistiche ultramoderate dall’impatto pressoché nullo sul sistema produttivo statunitense. L’obiettivo primario di Richard Nixon era infatti quello di salvaguardare il ruolo di moneta internazionale di riferimento di cui era titolare il dollaro, e tale obiettivo non poteva essere conseguito attraverso politiche che avrebbero prodotto risultati utili solo nel medio e lungo periodo.
Il 15 agosto nel 1971, Nixon rese nota la soluzione escogitata per far fronte al problema, ovvero la decisione di ripudiare unilateralmente, con un colpo di spugna, gli accordi di Bretton Woods sottoscritti nel 1944, che prevedevano la convertibilità della valuta statunitense in oro alla quota fissa di 35 dollari all’oncia. Nel dicembre dello stesso anno vennero stabilite alcune parità centrali e i margini massimi (2,25%) di fluttuazione tra le valute, ma due anni dopo Stati Uniti, Canada, Giappone, Svezia e i Paesi della CEE decisero di abbandonare il vincolo fisso del tasso di cambio, inaugurando l’epoca dei “cambi fluttuanti”. Il dollaro si svalutò del 40% ma lo shock petrolifero del 1973 “suggerito” dalla Chase Manhattan Bank del gruppo Rockefeller, orchestrato nel corso della riunione del Club Bilderberg del maggio dello stesso anno a Saltsjoebaden in Svezia e messo in atto da Richard Nixon, Henry Kissinger e lo Shah di Persia Reza Pahlevi, produsse un apprezzamento del greggio pari al 400%, puntellando la posizione dominante della valuta statunitense e consolidando il meccanismo dei “petro-dollari” attraverso cui gli Stati Uniti hanno potuto alimentare la loro economia fino ad oggi.
A fare le spese di questa scelta fu l’intero apparato industriale statunitense – che subì direttamente l’incremento sensazionale del prezzo del petrolio – con particolare riferimento al settore automobilistico, in cui la General Motors si vide costretta a licenziare circa 8 milioni di dipendenti che ancora oggi non sono stati riassorbiti.
Richard Nixon era un politico abile e spregiudicato, e seppe operare una scelta incomprensibile a molti suoi contemporanei (come quasi tutte le sue scelte) per permettere alla popolazione statunitense di vivere al di sopra dei propri mezzi a spese del resto del mondo, composto da Paesi che per interi decenni hanno esportato manufatti negli Stati Uniti in cambio di cartamoneta stampata ex nihilo dalla Federal Reserve e che attualmente non sembrano più disposti ad alimentare questo sistema parassitario.
Basterà dunque un ulteriore shock a salvare l’economia americana e, quindi, a procrastinare la fine del declinante assetto unipolare a guida statunitense?
di Giacomo Gabellini 

10 maggio 2013

Che fare dell'Euro?




Quasi un’introduzione Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana, tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario di Berlinguer. Si può fare.
E soprattutto si deve fare.
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
1. L’Europa indiscutibileUn partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva, la dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
2. Un gioco truccatoInvece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
3. Un’osservazione di GramsciDunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La questione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
4. Il mito dell’Europa anti-UsaSi esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
5. Il mito dell’Europa sovranazionaleMolte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare tra i diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
6. Deflazione, Bce, stabilitàLa scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci.
Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo.
Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
7. L’euro aggrava gli squilibriA quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
di Mimmo Porcaro

08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







lettaalfano
L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras 

11 maggio 2013

Gli Stati Uniti sull'orlo del collasso economico




GLI STATI UNITI SULL’ORLO DEL COLLASSO ECONOMICO
Negli scorsi anni, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino in cui si stabiliva la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. Nonostante il più che cospicui vantaggi garantiti da questi accordi, gli alti rappresentanti cinesi, non paghi dei risultati ottenuti, hanno perseguito con ostinazione i loro sempre più ambiziosi obiettivi riuscendo infine a compiere il vero salto di qualità.
Il scorso 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. In primo luogo, questa mossa non può che rappresentare un indice estremamente affidabile della sfiducia che le due potenze asiatiche nutrono nei riguardi delle classi dirigenti degli Stati Uniti e dei Paesi europei, giudicate incapaci di escogitare soluzioni valide per migliorare o quantomeno attenuare le drammatiche condizioni in cui versano le loro rispettive economie.
Ma ponendo la questione su di un livello di indagine più elevato, appare con chiarezza il fatto che anche il Giappone, che in passato ha sempre sostenuto gli Stati Uniti, sta rivedendo le proprie posizioni internazionali avvicinandosi al novero delle nazioni che intendono superare il sistema economico mondiale incardinato sul dollaro. Nel corso delle ultime riunioni del G20, si è infatti manifestata una profonda spaccatura in seno al fronte delle potenze che vi prendono parte, in cui gli Stati Unti si sono posti alla testa del gruppo dei “conservatori”, che mira da sempre a mantenere il dollaro come moneta di riferimento internazionale, mentre la Cina si è presentata in rappresentanza dei “rivoluzionari”, che ambiscono ad adottare un differente modello che rispecchi i rapporti di forza internazionali nel futuro mondo multipolare che è attualmente in fase di strutturazione (nonostante i rapporti demografici ed economici, gli Stati Uniti detengono infatti oltre il 17% dei diritti di voto in seno al Fondo Monetario Internazionale, mentre quelli spettanti alla Cina non arrivano al 5%).
Gli Stati Uniti possono ancora contare sull’appoggio della Gran Bretagna ma stanno perdendo il Giappone, che cambiando campo ed aderendo quindi alla compagine formata da Cina, Russia, India, Brasile e Argentina, andrebbe a rafforzare in misura piuttosto consistente il fronte “rivoluzionario”.
Il che rimanda ad un problema non certo secondario, in quanto Cina e Giappone sono le principali nazioni ad acquistare i Buoni del Tesoro emessi da Washington e che detengono da sole qualcosa come 2.073,6 miliardi di dollari di debito statunitense (1.137 la Cina e 936,6 il Giappone) che attualmente supera quota 4.500 miliardi. La Cina, in altre parole, ha incamerato riserve di dollari talmente immani da investire Pechino del ruolo di arbitro dell’economia statunitense, che a questo punto riesce a sopravvivere solo ed esclusivamente attraverso la vendita dei Buoni del Tesoro.
Azioni eccessivamente spregiudicate si rivelerebbero però tremendamente controproducenti per Pechino, poiché finirebbero per provocare la drastica reazione di Washington, che chiuderebbe il mercato statunitense alle merci cinesi e congelerebbe il patrimonio cinese espresso in dollari.
Alla consapevolezza di ciò da parte dei dirigenti di Pechino si devono queste mosse tattiche di basso profilo, attraverso cui la Cina cerca di intaccare il sistema economico vigente e di sbarazzarsi lentamente delle proprie abnormi riserve di valuta statunitense. Promuovendo l’adozione dello yuan nell’ambito degli innumerevoli accordi bilaterali siglati con altri Paesi, Pechino mira inoltre a contrarre la domanda internazionale di dollari provocando un progressivo disinteresse dei mercati internazionali nei riguardi dei Buoni erogati dal Tesoro statunitense.
Tale disinteresse renderebbe vano ogni tentativo del Tesoro statunitense di piazzare le proprie emissioni e nel giro di pochi mesi Washington potrebbe accorgersi di aver stampato una quantità di cartamoneta sproporzionata alle richieste dei mercati internazionali, cosa che attiverebbe la micidiale morsa inflazionistica. In questo contesto il dollaro potrebbe svalutarsi eccezionalmente, costringendo le banche centrali a liberarsi il più in fretta possibile della valuta statunitense. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, accadde verso la fine degli anni Sessanta, quando gli Stati Uniti stamparono una quantità talmente esorbitante di cartamoneta – nel tentativo di stabilizzare la preoccupante situazione economica venutasi a creare in seguito alla crescita dei cosiddetti “debiti gemelli” (disavanzo pubblico e disavanzo delle partite correnti) causata dalle spese connesse alla disastrosa guerra del Vietnam – da indurre i mercati internazionali a dubitare della reale capacità di Washington di convertire in oro la marea di banconote stampate.
Allora il Generale Charles De Gaulle annunciò pubblicamente l’avvio della conversione in oro di tutte riserve francesi di dollari e Giappone e Paesi arabi, più in sordina, fecero lo stesso.
Ciò produsse il classico effetto domino, che spinse numerosi Paesi ad arricchire le proprie riserve auree intensificando, di conseguenza, la domanda internazionale d’oro. Sempre a causa dei timori suscitati dai disastrati conti statunitensi, si verificò una brusca impennata degli investimenti internazionali nella moneta allora ritenuta più solida, ovvero il marco tedesco.
Conformemente alla visione tedesca dell’economia (che resiste ancora oggi), il governo di Bonn e i dirigenti della Bundesbank introdussero numerose misure volte a limitare la possibilità del sistema bancario tedesco di contrarre debiti con l’estero, ma ciò non placò le sollecitazioni al rialzo del marco, dovute al massiccio afflusso di dollari (circa 4 miliardi di dollari nel solo primo trimestre del 1971) detenuti al di fuori degli Stati Uniti dalle grandi banche internazionali. Questi esorbitanti afflussi di dollari funsero da preludio all’attesa rivalutazione del marco, che minacciava a quel punto di acquisire credenziali sufficienti per sostituire egregiamente il dollaro quale valuta di riferimento internazionale.
Negli Stati Uniti, intanto, il governo decise di adottare un calmiere dei prezzi e di bloccare i salari (un’eresia nella patria del liberismo) per frenare l’inarrestabile crescita inflazionistica ma le reiterate pressioni esercitate dai grandi gruppi industriali e dai sindacati non produssero altro che l’istituzione di norme protezionistiche ultramoderate dall’impatto pressoché nullo sul sistema produttivo statunitense. L’obiettivo primario di Richard Nixon era infatti quello di salvaguardare il ruolo di moneta internazionale di riferimento di cui era titolare il dollaro, e tale obiettivo non poteva essere conseguito attraverso politiche che avrebbero prodotto risultati utili solo nel medio e lungo periodo.
Il 15 agosto nel 1971, Nixon rese nota la soluzione escogitata per far fronte al problema, ovvero la decisione di ripudiare unilateralmente, con un colpo di spugna, gli accordi di Bretton Woods sottoscritti nel 1944, che prevedevano la convertibilità della valuta statunitense in oro alla quota fissa di 35 dollari all’oncia. Nel dicembre dello stesso anno vennero stabilite alcune parità centrali e i margini massimi (2,25%) di fluttuazione tra le valute, ma due anni dopo Stati Uniti, Canada, Giappone, Svezia e i Paesi della CEE decisero di abbandonare il vincolo fisso del tasso di cambio, inaugurando l’epoca dei “cambi fluttuanti”. Il dollaro si svalutò del 40% ma lo shock petrolifero del 1973 “suggerito” dalla Chase Manhattan Bank del gruppo Rockefeller, orchestrato nel corso della riunione del Club Bilderberg del maggio dello stesso anno a Saltsjoebaden in Svezia e messo in atto da Richard Nixon, Henry Kissinger e lo Shah di Persia Reza Pahlevi, produsse un apprezzamento del greggio pari al 400%, puntellando la posizione dominante della valuta statunitense e consolidando il meccanismo dei “petro-dollari” attraverso cui gli Stati Uniti hanno potuto alimentare la loro economia fino ad oggi.
A fare le spese di questa scelta fu l’intero apparato industriale statunitense – che subì direttamente l’incremento sensazionale del prezzo del petrolio – con particolare riferimento al settore automobilistico, in cui la General Motors si vide costretta a licenziare circa 8 milioni di dipendenti che ancora oggi non sono stati riassorbiti.
Richard Nixon era un politico abile e spregiudicato, e seppe operare una scelta incomprensibile a molti suoi contemporanei (come quasi tutte le sue scelte) per permettere alla popolazione statunitense di vivere al di sopra dei propri mezzi a spese del resto del mondo, composto da Paesi che per interi decenni hanno esportato manufatti negli Stati Uniti in cambio di cartamoneta stampata ex nihilo dalla Federal Reserve e che attualmente non sembrano più disposti ad alimentare questo sistema parassitario.
Basterà dunque un ulteriore shock a salvare l’economia americana e, quindi, a procrastinare la fine del declinante assetto unipolare a guida statunitense?
di Giacomo Gabellini 

10 maggio 2013

Che fare dell'Euro?




Quasi un’introduzione Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana, tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario di Berlinguer. Si può fare.
E soprattutto si deve fare.
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
1. L’Europa indiscutibileUn partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva, la dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
2. Un gioco truccatoInvece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
3. Un’osservazione di GramsciDunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La questione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
4. Il mito dell’Europa anti-UsaSi esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
5. Il mito dell’Europa sovranazionaleMolte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare tra i diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
6. Deflazione, Bce, stabilitàLa scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci.
Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo.
Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
7. L’euro aggrava gli squilibriA quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
di Mimmo Porcaro

08 maggio 2013

Letta, la tela atlantica







lettaalfano
L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.
di Pino Cabras