22 dicembre 2011

I derivati Otc hanno rotto gli argini. Rischi di nuova crisi finanziaria


La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel suo ultimo rapporto trimestrale conferma l’impazzimento della finanza globale. I derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico.

Alla fine di giugno il valore nozionale totale degli Otc ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010!

In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari! Sono stati superati tutti i record.

Si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari.

La straordinaria crescita di tali titoli è avvenuta nonostante i tanti ottimistici impegni a riformare il sistema finanziario globale assunti dal mondo politico nei vari meeting internazionali dopo il crollo della Lehman Brothers.

Ora, mentre il Fmi paventa una recessione nel mondo cosiddetto avanzato, la Bce la dà per certa in Europa e l’Ocse parla di gravi rischi di una “crescita negativa”, le grandi banche internazionali, in primis quelle americane ed inglesi, ed il sistema bancario ombra da loro controllato, hanno dato una accelerata senza precedenti ai prodotti derivati.

La finanza speculativa si allarga a dismisura e l’economia reale e produttiva si contrae! C’è il rischio di un’altra crisi molto più devastante di quella che stiamo ancora vivendo

La Bri rivela che l’esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Sono contratti fatti un po’ in tutte le principali monete.

Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti suddetti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari.

Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante “effetto valanga” soprattutto sulle economie più deboli. Potrebbero esserci effetti negativi anche sulle monete in cui i contratti sono stati sottoscritti.

Certamente questa nuova ondata speculativa soddisfa gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Secondo l’Office of the Comptroller of the Currency (Occ), l’agenzia che regola e controlla il sistema bancario americano, nel terzo trimestre del 2011 le banche Usa hanno infatti registrato dei profitti enormi: 13, 1 miliardi di dollari con un aumento del 78% rispetto al trimestre precedente.

L’Occ tra l’altro dimostra che i derivati creati dalle banche americane sono poco meno di 250 trilioni di dollari, di cui l’87% in prodotti strutturati sui tassi di interesse.

Si ripropone la grande questione delle banche “too big to fail”, quelle troppo grandi per lasciarle fallire, che di fatto hanno determinato il sistema economico e finanziario e hanno ricattato il mondo politico. Nel frattempo esse hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario.

Infatti, se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche soltanto, la JP Morgan Chase, la City Group, la Bank of America e la Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale.

Dai preoccupanti dati esposti emerge con forza la necessità per l’Italia e per l’Europa non solo di adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20 dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere del sistema bancario finanziario speculativo.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

*Sottosegretario dell'Economia nel governo Prodi **Economista

21 dicembre 2011

Lo stato italiano, Berlusconi e l’ONU denunciati per una colossale truffa internazionale

La Repubblica Italiana, l’ex-premier Silvio Berlusconi, la nostra Guardia di Finanza, le Nazioni Unite ed il suo segretario Ban-Ki-Moon, l’ambasciatore italiano all’ONU Ragaglini, l’ambasciatrice italiana a Ginevra Laura Mirachian, il World Economic Forum (Davos), l’Office of International Treasury Control, ed altri personaggi più o meno conosciuti, collegati a “società segrete” di vario tipo, sono stati citati in giudizio da un cittadino americano per aver partecipato ad un complotto internazionale allo scopo di impossessarsi illegalmente di un pacchetto di Buoni del Tesoro, quasi tutti americani, per il valore nominale di 145,5 miliardi di dollari, con un valore attuale di mercato stimato intorno a 1 bilione (1000 miliardi) di dollari. Lira più lira meno.

La citazione in giudizio è stata depositata il 23 novembre scorso presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti dallo studio legale Bleakley Platt & Schmidt, che ha sede nello stato di New York, a nome di Neal F. Keenan, un cittadino americano residente in Bulgaria, che compare sia a titolo personale che in rappresentanza di un “gruppo di famiglie asiatiche” non meglio identificate, definite con il nome fittizio di “Dragon Family”.

La querela compare negli elenchi ufficiali di PACER (Public Access to Court Electronic Records), l’archivio elettronico dove è possibile consultare tutte le cause depositate presso le Corti Distrettuali e le Corti d’Appello degli Stati Uniti, ...


... che si possono anche scaricare al costo di 8 centesimi a pagina. (David Wilcock, personaggio noto a chi si occupa di esopolitica, ha già svolto questa operazione, ed ha messo a disposizione la citazione completa in formato PDF, dopo aver dato la notizia alla radio americana e sulla rete).

Il sito Courthouse News, che si occupa di questioni di tipo legale, ha commentato il fatto con un articolo del 5 dicembre intitolato “Bizzarra querela da un bilione di dollari”, nel quale ne riassume sommariamente il contenuto, decisamente complesso e intricato, anche perchè riguarda eventi storici che risalgono a quasi un secolo fa.

Secondo Keenan [da qui in poi raccontiamo ciò che viene sostenuto nella querela, per cui evitiamo ogni volta di usare il condizionale o di dire “Keenen sostiene”], nel 2009 la Dragon Family gli affidò la gestione di un pacchetto di “strumenti finanziari” che comprendevano a) 249 titoli da 500 milioni di dollari ciascuno, emessi nel 1934 dalla Federal Reserve, per un valore nominale complessivo di 124,5 miliardi di dollari; b) due serie di titoli del governo giapponese, emesse nel 1983, per un valore di oltre 9,5 miliardi di dollari ciascuna, e c) un titolo unico da 1 miliardo di dollari, chiamato “Kennedy Bond”, emesso dal governo americano nel 1998.

Da cui il totale, appunto, di 145,5 miliardi di dollari. Questi strumenti finanziari erano stati affidati a Keenan dalla Dragon Family perchè facesse investimenti internazionali di vario tipo, finalizzati ad interventi di tipo umanitario su grande scala.

Naturalmente è il pacchetto di titoli della Fed del 1934 che richiama subito l’attenzione, non solo perchè rivela una storia veramente complessa alle sue spalle, ma perchè è sulla base del valore originale (125 miliardi di dollari) che vengono calcolati gli interessi accumulati fino ad oggi, che sono stimati in 968.000.000.000 (novecentosessantottomila) miliardi di dollari. Quasi un bilione, appunto.

Questi titoli furono emessi dalla Fed come ricevuta per le ingenti quantità di oro ed altri metalli preziosi che la Dragon Family aveva trasferito negli USA come misura precauzionale, temendo una invasione militare della Cina da parte del Giappone (cosa che poi è avvenuta, nel 1937).

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la Dragon Family chiese la restituzione dell’oro consegnato alla Fed, ma si trovarono di fronte ad una lunga serie di “intoppi legali” che di fatto gli impedirono di rientrare in possesso del prezioso metallo.

Cominciano così le peripezie di questo pacchetto di titoli, che ci avrebbero portato fino ad oggi.

Dal 1946 in poi, infatti, la storia si complica enormemente, introducendo una vera e propria ragnatela di collegamenti, fra dozzine di personaggi e di organizzazioni di livello mondiale, che è molto difficile da riassumere, e ancora più difficile da verificare.

Notiamo solo che fra queste organizzazioni compare anche il misterioso OTIC (Office of International Treasury Control), che è considerato una delle più grandi organizzazioni finanziarie nel mondo, e che sostiene di esser affiliato all’ONU e alla Fed, ma con cui sia l’ONU che la Fed negano ufficialmente di aver mai avuto a che fare.

Teniamo presente che non stiamo parlando della scomparsa di qualche dozzina di euro dal conto corrente di nostra cugina, ma di un sistema mondiale di finanza occulta che parte dal presunto trafugamento di tutte le riserve auree costodite ufficialmente a Fort Knox (c’era forse anche l’oro della Dragon Family?), e che coinvolge oggi bene o male tutte le più importanti organizzazioni finanziarie mondiali, all’interno di un “universo parallelo” in cui il traffico e il riciclaggio di titoli di stato “duplicati” – cioè sostanzialmente falsi – sarebbe all’ordine del giorno.

In ogni caso, riprendiamo la vicenda dal 2009, perchè è in quell’anno che i famosi titoli della Fed ricompaiono nella mani di Keenan per essere investiti in “operazioni su grande scala di tipo umanitario”.

Per svolgere questo compito Keenan era affiancato da un emissario di fiducia della Dragon Family, Akihiro Yamaguchi, che era già fisicamente in possesso dei titoli a partire dal 2006, e che aveva presentato lo stesso Keenan alla Dragon Family.

Yamaguchi e Keenan passarono alcuni mesi in Svizzera, valutando le diverse possibilità di investimento che gli venivano proposte dalle banche locali per conto dei loro clienti in tutto il mondo.

Verso la fine di maggio sembrava che finalmente si stesse per concludere un accordo con un gruppo finanziario che viene definito nella querela come “il gruppo dei turchi”. Ma il 3 di giugno accadde un fatto imprevisto: due cittadini giapponesi furono arrestati al confine di Chiasso dalla Guardia di Finanza, mentre cercavano di trasferire in Svizzera un pacchetto di titoli di stato americani nascosti nel doppiofondo della valigia.

Curiosamente, il pacchetto conteneva 249 titoli della Federal Reserve del 1934 da mezzo miliardo di dollari ciascuno, e 10 “Kennedy Bonds” da 1 miliardo ciascuno, per un valore nominale complessivo di 134,5 miliardi di dollari.

La notizia clamorosa stava per rimbalzare sulle testate di tutto il mondo, ma gli americani si affrettarono a far sapere che quei titoli erano falsi, e la cosa si spense sul nascere. I due giapponesi furono rilasciati, e i loro nomi non furono mai comunicati ufficialmente (Keenan sostiene che uno dei due fosse proprio Yamaguchi).

Diversi tentativi fatti da giornalisti americani per saperne qualcosa di più finirono nel nulla: l’ambasciata giapponese non dava nessuna conferma del fatto, la Guardia di Finanza non aveva informazioni aggiuntive da offrire, e il tesoro americano minimizzava la cosa, confermando che i titoli fossero “sicuramente falsi”.

Naturalmente, ci credettero soltanto Topolino e i Sette Nani, ma questo fu sufficiente a tranquillizzare il pubblico americano, mentre la vera storia riprendeva a dipanarsi dietro le quinte.

Lo stato italiano, “tramite Berlusconi”, contattò il governo cinese, offrendo la restituzione dei titoli in cambio del 40% del loro valore nominale, cioè la cifra corrispondente alla penale da pagare in caso di esportazione clandestina di denaro. Ma la trattativa si arenò quando i cinesi pretesero in cambio che l’Italia saldasse il suo debito complessivo contratto fino a quel giorno con la nazione cinese, che naturalmente ammontava ad una cifra ben superiore a quella che stavano trattando.

Nel frattempo Keenan veniva avvicinato da Leo Zagami, un noto massone italiano che si presentò come membro dei “Vatican Illuminati” e come leader di una “fazione secessionista” dei Massoni con sede a Montecarlo, il quale gli disse di avere informazioni utili per rientrare in possesso dei titoli rubati. Zagami presentò a Keenan un certo Daniele Dal Bosco, che diceva di agire a nome dell’OITC. Dal Bosco disse a Keenan che i titoli sarebbero stati investiti in un modo decisamente più efficace attraverso certe organizzazioni umanitarie dell’ONU a cui erano collegati, e suggerì che la loro tutela venisse trasferita temporaneamente al “suo gruppo”, per maggiore sicurezza (fino a quel momento il titolare unico era Keenan).

Dal Bosco informò anche Keenan che la Guardia di Finanza Italiana era disposta a restituire i titoli per il 10% del valore nominale, ma Keenan rispose che la Dragon Family non era interessata a pagare un solo centesimo per qualcosa che già possedeva legalmente da oltre 70 anni.

Nelle settimane seguenti il “gruppo” di Dal Bosco cominciò a materializzarsi intorno a Keenan, e qui la faccenda si complica ulteriormente, con l’entrata in scena di diversi personaggi, che vanno da agenti dei servizi segreti bulgari ad un certo Giancarlo Bruno, direttore delle operazione finanziarie del World Economic Forum di Davos, che diceva di essere anche un “consigliere finanziario del Vaticano” e “tesoriere dei Massoni”. Bruno sosteneva che il buon fine dell’operazione fosse garantito fin dall’inizio, in quanto avevano già stipulato gli accordi preliminari con i loro contatti alle Nazioni Unite. Le ultime perplessità di Keenan scomparvero dopo una telefonata da parte di Laura Mirachian, la rappresentante permanente per l’Italia alle Organizzazioni Internazionali di Ginevra, che confermava che ”siamo tutti protetti dall’alto”, che “nessuno, compreso Keenan, ha motivo di temere ripercussioni di alcun tipo”, e che “la nostra gente a New York ha già avuto l’approvazione da parte di Ban-Ki-Moon, anche se ovviamente negheranno tutto se interpellati al riguardo”.

Insomma, per farla breve, Keenan si convinse di essere in ottime mani, e firmò la cessione temporanea dei titoli a Dal Bosco, il quale si impegnava alla restituzione incondizionata dei medesimi in qualunque momento. Inutile dire che da quel giorno in poi dei titoli non si è mai più saputo nulla.

Dopo aver cercato inutilmente di rientrarne in possesso, Keenan avrebbe quindi deciso di presentare la sua querela contro tutte le entità coinvolte, “per aver cospirato nella sottrazione illegale dei titoli di proprietà della Dragon Family di cui era il responsabile”.

Qui ovviamente si apre un tale ventaglio di ipotesi e di possibilità, per spiegare cosa possa essere realmente accaduto, a cui solo la fantasia può mettere un limite. Oltretutto, non possiamo nemmeno stabilire fino a che punto le accuse da parte di Keenan siano sostanziate e fino a che punto possano essere il frutto di una sua invenzione.

Di fatto, sappiamo solo che la querela esiste, e che i suoi contenuti sono sostanzialmente quelli che abbiamo descritto. A ben altri l’onere eventuale di accertare cosa ci sia di vero e cosa no in tutta questa faccenda.

Noi possiamo solo concludere notando un fatto curioso: mentre centinaia di miliardi di dollari sembrano muoversi disinvoltamente nell’oscurità, a nostra totale insaputa, gli italiani sono impegnati a litigare fra loro come galline impazzite per decidere se sia meglio ridurre le pensioni di un altro milione di euro all’anno, oppure tagliare lo stesso milione di euro dai salari della classe operaia.

Se la sensazione di venire perennemente fregati non arrivasse direttamente dal “giallo di Chiasso”, arriva certamente da questo genere di considerazioni.

Massimo Mazzucco

Nota: La querela che sta al centro di questo articolo è di pubblico dominio, e come tale Luogocomune si riserva il diritto di citarne i contenuti, senza necessariamente implicare che i fatti descritti siano avvenuti veramente, nè che i personaggi e le organizzazioni citate siano stati effettivamente coinvolti nella vicenda descritta.

20 dicembre 2011

Crisi: e alla fine arrivò la grande depressione


Era una bella consolazione. Pensare che comunque la si guardasse la crisi attuale nulla avesse a che fare con la "grande depressione degli anni ‘30" in qualche modo rincuorava anche i più pessimisti. L'avesse detto un anticapitalista qualunque che quello scenario era nuovamente all'orizzonte avrebbe fatto lo stesso rumore della nascita di un filo d'erba, ma il sentirlo affermare da Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, fa saltare i timpani come un allarme tsunami mondiale. Anche perché pure Mario Draghi ha confermato la frenata della crescita mondiale, dimostrata ampiamente da quanto sta accadendo in Cina. Dopo tre anni di chiacchiere, dunque, la crisi è a doppia W e la prospettiva di risalita neppure si vede. Una crisi finanziaria che ha fatto saltare governi e tolto milioni di posti di lavoro, allargato la forbice tra ricchi e poveri, relegato l'ecologia a un di più da affrontare chissà quando e non intaccando minimamente il modello di sviluppo. Nonostante di sviluppo non se ne veda neanche l'ombra.

Per dire queste cose non servono gli economisti, perché le capiamo anche noi che non lo siamo e dunque più che sugli strumenti tecnici necessari per tentare di rimediare a questa situazione, ne facciamo una questione politica/sociologica. E diciamo che metaforicamente per curare da una depressione servirebbe uno psicologo, mentre ci si sta rivolgendo a uno psichiatra con qualche disturbo. Perché quando una strada che si è seguita è terminata contro un muro, il prendere la rincorsa per picchiare ancor più forte contro lo stesso significa avere dei problemi seri. Ma il medico, a questo punto, può far poco perché dà sempre la stessa ricetta, e qui un anti-depressivo non basta. Serve un confronto almeno con chi questa crisi la sta subendo davvero, quel 99% che pur con tutte le sue incongruenze paga una crisi di cui al massimo può essere corresponsabile dal punto di vista di non aver capito per tempo che cosa stesse capitando, oppure di aver scelto dei pessimi rappresentanti dei veri interessi comuni.

Semplificando al massimo il male, oggi - come dice Gordon Gekko in Wall Street 2, concedeteci una citazione cinefila e non altissima - è il "prestito" ("un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno. È sistemico, maligno ed è globale, come il cancro"). Che poi diventa debito. Ci hanno convinto che potevamo indebitarci e che anzi era un bene farlo per far funzionare l'economia, e la finanza ha cavalcato questa idea urbe et orbi. Replicandola su ogni cosa che si muovesse o che si sarebbe potuta muovere o che invece sarebbe crollata. Rischiando su tutto perché opera tramite banche con soldi non suoi.

«Questa crisi ha messo a nudo le crepe della nostra società - scrive l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo "Bancarotta" - fra il mondo della finanza di Wall Street e l'economia reale di Main Street, fra l'America dei ricchi e il resto della nostra società (dove siamo anche noi da quest'altra parte dell'Oceano, non lo dice Stiglitz ma è evidente, ndr). Mentre le persone sui gradini più in alto della scala sociale hanno vissuto molto bene in questi ultimi trent'anni, il reddito della maggior parte degli americani ha ristagnato o è diminuito. Le conseguenze sono state nascoste; ai ceti bassi - e anche a quelli medi - è stato detto di continuare a consumare come se i redditi fossero in aumento; le persone sono state incoraggiate a vivere al di sopra delle loro possibilità, ricorrendo a prestiti resi possibili dalla bolla».

Il guaio, aggiungiamo noi, è che la stessa cosa hanno fatto i governi! Anche loro hanno vissuto indebitandosi e scommettendo sulla finanza come panacea di ogni male, persino i comuni, con il risultato che quando hanno stabilito che eravamo potenzialmente insolventi, gli investitori ci hanno chiuso i rubinetti come fanno le banche. Anche certamente per colpa di un governo, il precedente, totalmente non credibile, ma come si vede per la finanza - che deve sempre trovare un capro espiatorio per togliersi da ogni responsabilità - ora giudica quasi tutti i governi europei non credibili. «Il settore finanziario - come dice sempre Stiglitz - è restio a farsi carico dei propri fallimenti». Tant'è, aggiungiamo noi, che quando l'Ue al super-summit ha deciso di dare una strizzatina alla finanza, la Gran Bretagna se ne è fuggita a gambe levate...

La crisi, dunque, è sistemica. Questo - e veniamo alle questioni italiane - dovrebbe saperlo bene un uomo come Mario Monti che infatti cerca di ridare credibilità al Paese, anche questa condizione necessaria almeno per avere voce in capitolo qualora qualcuno anche da questo Paese avesse voglia di provare a cambiare le cose. Ma di fronte a tutto questo davvero non possiamo tacere su una topica che sta prendendo anche questo Governo, ovvero pensare che un contributo arrivi rendendo ancor più precario il lavoro (articolo 18) e allungando le pensioni fino a 70 anni.

L'avvitamento è andato in scena involontariamente, crediamo, sul Corriere della Sera di ieri. A domanda pertinente di Enrico Marro al ministro Fornero sul fatto che lei creda davvero che «le imprese terranno le persone fino a 70 anni» (tema da noi sollevato fin dall'inizio, vedi link) lei ha risposto così: «qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d'impresa sfociano in prepensionamenti. Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l'anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all'età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo. Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata. E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani. Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».

C'è del vero, ma quello che fa uscire gli occhi dalla orbite è che questa manovra è stata avallata almeno a parole da Confindustria, come se appunto anche loro riconoscessero l'anomalia: peccato che accanto all'intervista ci sia proprio un pezzo su Confindustria che avrebbe delle resistenze, e su che cosa? «La riforma delle pensioni costringe le imprese a tenere i lavoratori più a lungo in servizio, in prospettiva fino a 70 anni, facendo saltare i piani di molte di esse che speravano in un alleggerimento degli organici che le avrebbe aiutate a superare la crisi». Inoltre c'è da dire anche che gli ammortizzatori "avanzati" e gli scaloni pensionistici che si propongono sono quelli europei di Paesi con servizi ai cittadini (soprattutto donne ed anziani) molto più avanzati dei nostri, ma la ricetta del mercato del lavoro è quella americana, con salari e diritti dei lavoratori più vicini a quelli cinesi che a quelli tedeschi.

Come si vede su questo tema ci avvitiamo completamente perché è il modello che è sbagliato, perché l'individuo non è più al centro di questo modello, men che meno l'ambiente e la redistribuizione delle ricchezze attraverso anche un welfare di qualità, un'idea morta e sepolta. Una cura a questo modello equivale a doparlo, qui serve un cambio radicale fondando lo sviluppo sulla sostenibilità ambientale e sociale e riducendo tutti i debiti, specialmente quelli con le risorse del pianeta; un cambio dato dal confronto e ripulito dalle distorsioni tecnologiche che ammazzano la democrazia.

di Alessandro Farulli

19 dicembre 2011

Monti, rigore senza crescita: l’Europa si suicida in Italia




L’Islanda ha dichiarato il default e ha rotto i patti. Sfortuntamente, l’Italia è un paese molto più grande: difficile rompere i patti, perché dipenderebbe da noi il futuro dell’Unione Europea. Non si vuole finire, tra un anno, peggio di oggi? Allora Monti non dovrebbe incontrarsi prima di tutto con la Merkel e con Sarkozy, ma con Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Dovrebbe andare a Bruxelles e dire: scusate, noi vogliamo rinegoziare tutto. Dobbiamo stracciare il Trattato di Maastricht e ricominciare un processo costituente europeo con la partecipazione dei popoli europei, e a questo punto ridiscutiamo tutto: il meccanismo di finanziamento degli Stati, questo debito sovrano, è una grande truffa. Siccome siamo decisivi, l’Europa dovrebbe ascoltarci. Se noi andiamo a finire dove ci vogliono mandare, i tedeschi dove vanno a venderli i loro prodotti? Di fatto, sono dei suicidi senza saperlo.

Questa che viene tentata da Monti è una manovra senza destino: perché non ci sarà crescita, come scopriremo tra un anno, un anno e mezzo. Quello che Giulietto Chiesastanno facendo è un rifinanziamento delle banche internazionali. Nuova immissione di debito: stanno immettendo una nuova, gigantesca valanga di denaro virtuale per tenere in piedi le banche. Non regge: è saltato nel 2007, salterà di nuovo nel 2012, 2013. Monti e Draghi stanno facendo il gioco della grandefinanza americana. Chi ha aperto questa grande crisi non è l’Europa, sono gli Stati Uniti. Tutto è cominciato con la crisi dei subprime, cioè dei mutui “facili”. Loro hanno creato questa gigantesca bolla di debito impagabile. Non mi fido di loro e delle loro 9 super-banche, perché loro sono i protagonisti di questo disastro. Monti e Draghi, i due Mario, sono i loro missi dominici: hanno preso il governo della Grecia, dell’Italia e della Banca Centrale Europea. Lo dico apertamente: di loro non mi fido.

La crisi è diventata molto grave e non è manovrata: ormai sfugge al controllo anche dei grandi potentati del mondo. E poi siamo molto ingannati, parliamoci chiaro: io non credo a una sola parola che è stata detta fino ad ora sulla crescita. In un editoriale, Eugenio Scalfari ha scritto che nella cartuccera di Monti ci sono due pallottole: il rigore e la crescita. In realtà ne ha una sola, perché la crescita non ci sarà. Il governo ci sta dicendo: adesso vi toccherà una dose da cavallo di sacrifici, dopodiché ci sarà la crescita. E qui casca l’asino, perché tutti i dati dicono che l’Europa non crescerà, e a lungo: siamo di fronte a un decennio di non-crescita. La Germania è dato allo 0,8%, cioè alla stagnazione. E se presenti agli italiani un programma che significa compressione del tenore di vita, riduzione dei salari, delle pensioni e della spesa sociale, tu avrai una situazione diEugenio Scalfarirecessione drammatica. Domanda: come fai a proporre agli italiani un programma di risanamento che prevede la recessione? C’è qualcosa che non funziona: qualcuno qui trucca le carte.

Costituitosi il 17 dicembre a Roma, il comitato No-Debito dice: noi questo debito non lo dobbiamo pagare, perché è un debito iniquo, illegale, che va totalmente rinegoziato. So bene che questa situazione deriva da diverse ragioni; non è tutta colpa della speculazione, ma anche della cattiva gestione delle finanze da parte delle classi dirigenti italiane. Ma le cifre sono chiare: 750 miliardi del nostro debito sono frutto della speculazione finanziaria internazionale. Se nel Trattato di Maastricht e in altri trattati europei, scrivi che – per finanziarsi – gli Stati devono fare ricorso obbligatoriamente al mercato finanziario internazionale, e se quel mercato è truccato, vuol dire che tu sei col cappio alla gola. E allora: se qualcuno ha truccato le cifre, per quale ragione dovrei pagare queste cifre truccate?

Quando so che Standard & Poor’s, che è quella che ci dà i voti, insieme a Moody’s e alle altre agenzie di rating è nelle mani delle grandi banche di investimento americane, come faccio a fidarmi del loro giudizio? Una delle cose che chiederei a Monti è questa: voglio sapere chi sono i nostri creditori. Vorrei un audit, cioè sedute pubbliche in cui una commissione di persone competenti ci dica esattamente nomi, cognomi e indirizzi di coloro che hanno nelle mani il nostro debito: a quel punto, potremmo decidere cosa èMario Montigiusto e cosa non è giusto pagare. Io sono assolutamente convinto che i 4/5 del nostro debito non solo legali: vanno rimessi in discussione.

In realtà siamo stati trasformati tutti in consumatori collettivi, in una situazione in cui il paradosso principale è che tutti ormai sono abituati a concepire la loro vita in termini di consumo, quando il consumo dovrà essere ridotto. Monti e la Goldman Sachs si sbagliano: l’Occidente non crescerà più. E’ finita, siamo arrivati ai limiti dello sviluppo. Mi baso sulle più importanti previsioni, come quelle elaborate molti anni fa dal Club di Roma: tutti i fattori principali che hanno costituito la crescita delle società occidentali negli ultimi due secoli stanno finendo, e finiranno la qui alla metà di questo secolo, forse anche prima. Allora, la necessità che abbiamo di fronte è questa: rieducare milioni di persone a una vita diversa da quella che hanno fatto fino ad ora. Non voglio fare allarmismo: una vita più sobria, con meno consumi, sarebbe una vita migliore: con meno inquinamento e meno malattie.

I ragazzi delle scuole sono perfettamente in grado di capire, solo che bisogna che qualcuno glielo dica. Una delle ragioni di questa “macchina dei sogni”, è che l’agenda viene fatta lontano da noi, ai piani alti della torre, tra persone che sanno come stanno le cose; i giornalisti dovrebbero essere i primi a difenderci, ma spesso non sono informati. Eppure dovrebbero essere decisivi in questa operazione. Quella che sta arrivando è una crisi multipla, quella finanziaria è solo la ciliegina sulla torta. In realtà c’è la crisi energetica, c’è la crisi dell’acqua, la crisi del clima. Stiamo arrivando molto in fretta a una fase di gravi modificazioni della nostra vita. Bisogna quindi fare in modo che molte persone, in un colpo solo, siano raggiunte da questo nuovo messaggio: ci vuole un impegno radicalmente nuovo del sistema dei media.

di Giorgio Cattaneo

(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nell’intervista televisiva realizzata il 12 dicembre da “Antenna Sud”).

18 dicembre 2011

Avanzando verso il precipizio





Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate.

Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”.

Mentre i delegati si riuniscono a Durban, un rapporto su alcuni recenti sondaggi realizzati dal Consiglio delle Relazioni Estere e dal Programma sull’Approccio Politico Internazionale (PIPA) rivela che “i cittadini di tutto il mondo e degli Stati Uniti chiedono che i governi diano una priorità maggiore ai problemi del riscaldamento globale e che appoggino con forza azioni multilaterali per soddisfare questa necessità”.

La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”.

Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.”

Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani.

Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia.

“L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza.

Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti.

Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.”

A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio.

Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili.

L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza.

L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.”

Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico.

John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti.

Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America.

Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”.

In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente.

Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale.

Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia.

Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale.

di Noam Chomsky

17 dicembre 2011

Democrazia e debito






Il Libro V della Politica di Aristotele descrive il ciclo eterno della transizione che vede le oligarchie trasformarsi in aristocrazie ereditarie, che finiscono per essere rovesciate da tiranni o sviluppare rivalità interne quando alcune famiglie decidono di "far entrare il popolo nell’arena politica" per poter arrivare a una democrazia, da cui riemerge una nuova oligarchia, seguita da una aristocrazia, e poi da una democrazia, e così via nel corso della storia.

Il debito è stato il principale motore di questi cambiamenti, sempre con nuovi colpi di scena e trasformazioni. Si polarizza ricchezza per creare una classe creditrice, la cui guida oligarchica finisce quando nuovi dirigenti (i "tiranni" di Aristotele) ottengono l'appoggio popolare, cancellando i debiti e ridistribuendo la proprietà o l’usufrutto dei terreni a favore dello Stato.

Fin dal Rinascimento, però, i banchieri hanno spostato il loro sostegno politico verso le democrazie. Tale azione non trova il suo fondamento nel sostegno a convinzioni politiche egualitarie e liberali, quanto nel desiderio di assicurare una maggiore sicurezza ai loro prestiti. Come James Steuart spiegò nel 1767, i prestiti alle case regnanti erano un affare privato, più che debiti davvero pubblici. Perché i debiti di un sovrano divenissero vincolanti per l'intera nazione, i rappresentanti eletti avrebbero dovuto applicare tasse per pagare le spese dovute agli interessi.

Offrendo ai contribuenti questo legame col governo, le democrazie olandesi e britanniche fornirono ai creditori una modalità di pagamento molto più sicura rispetto a quando i debiti dei re e dei prìncipi si estinguevano assieme a loro. Ma le recenti proteste sul debito avutesi in vari paesi - dall'Islanda alla Grecia e alla Spagna - suggeriscono che i creditori stanno avendo sempre meno sicurezza dalle democrazie. Chiedono austerità fiscale e anche svendite finalizzate alla privatizzazione.

Questo significa trasformare la finanza internazionale in una nuova modalità di attacco militare. Il suo obiettivo è lo stesso perseguito dalle campagne militari del passato: l’appropriazione di terre e risorse minerarie, infrastrutture comuni e anche tributi supplementari. Nel frattempo, le democrazie hanno chiesto agli elettori di esprimersi attraverso un referendum sulla possibilità di pagare i creditori con la vendita di beni pubblici e aumentare le tasse per imporre la disoccupazione, la diminuzione dei salari e la depressione economica. L'alternativa è quella di negoziare i debiti o addirittura annullarli, e di riaffermare il controllo regolamentare sul settore finanziario.

Nel vicino Oriente i governanti annullavano i debiti per preservare l’equilibrio economico

Gli interessi di mora sulle anticipazioni di beni o di denaro non sono stati creati per polarizzare le economie. Vennero introdotti all'inizio del terzo millennio a. C. nell’ambito di un accordo contrattuale tra sacerdoti e burocrati sumeri con i mercanti e gli imprenditori che lavoravano con l’amministrazione reale, e l'interesse al 20 per cento (che raddoppia il capitale in cinque anni) sarebbe dovuto corrispondere in modo congruo ai rendimenti per i viaggi commerciali a lunga distanza o per gli affitti di terreni e altri beni pubblici quali laboratori, barche e fabbriche di birra.

Quando questa pratica fu privatizzata dai percettori di tariffe e affitti, la "divina regalità" protesse i debitori agrari. Le leggi di Hammurabi (1750 a.C. circa) cancellavano i debiti nei periodi di inondazione o siccità. Tutti i governanti della dinastia babilonese festeggiavano il loro primo anno al trono cancellando i debiti agrari e facendone tabula rasa. La restituzione dei diritti sui terreni o sulle colture e l’affrancamento dalla schiavitù erano tesi a "ristabilire l'ordine" in uno stato ideale "originale" di equilibrio. Questa pratica sopravviveva nell'anno giubilare della legge mosaica descritta nel Levitico 25.

La logica era abbastanza chiara. Le società antiche avevano bisogno di eserciti per difendere la propria terra e ciò richiedeva la liberazione dei cittadini dalla schiavitù. Le leggi di Hammurabi protessero gli aurighi e gli altri combattenti dall’essere ridotti in servitù per i debiti e impedirono ai creditori di prendere i raccolti dei fittavoli dei terreni reali, di altri terreni pubblici e delle terre comuni a coloro che dovevano fornire forza lavoro o militare al palazzo.

In Egitto il faraone Bakenranef (720-715 a.C. circa, "Bocchoris" in greco) proclamò un'amnistia del debito e abolì la schiavitù dai debiti di fronte a una minaccia militare proveniente dall'Etiopia. Secondo Diodoro di Sicilia (I, 79, scritto tra il 40 e il 30 a. C.), egli stabilì che, se un debitore avesse contestato il credito, il debito si sarebbe annullato se il creditore non avesse potuto sostenere le proprie affermazioni mostrando un contratto scritto. (Sembra che i creditori sono sempre stati inclini a esagerare i saldi dovuti.) Il faraone ritenne che "i corpi dei cittadini dovrebbero appartenere allo Stato, di modo che possa avvalersi dei servizi che i cittadini gli devono, sia in tempo di guerra che di pace. Per questo motivo sarebbe assurdo per un soldato […] essere trascinato in prigione dal suo creditore per un prestito non pagato, e che l'avidità dei privati ​​cittadini possa in questo modo mettere a repentaglio la sicurezza di tutti".

Il fatto che i principali creditori del Vicino Oriente erano il palazzo e i templi rendeva politicamente semplice cancellare i debiti. È sempre facile annullare i debiti nei confronti di sé stessi. Anche gli imperatori romani bruciavano i registri fiscali per evitare una crisi. Ma era molto più difficile cancellare i debiti dovuti a creditori privati ​​quando la pratica degli interessi di mora si diffuse verso ovest tra le comunità del Mediterraneo intorno al 750 a. C.

Invece di consentire alle famiglie di colmare il divario tra entrate ed uscite, il debito diventava la leva principale per espropriare la terra, polarizzando le comunità tra oligarchie creditrici e clienti indebitati. In Giuda, il profeta Isaia criticava i creditori che "aggiungono casa a casa e uniscono un campo all'altro finché non resta più alcun spazio e si vive da soli sulla terra".

Il potere dei creditori e una crescita stabile raramente hanno proceduto di pari passo. La maggior parte dei debiti personali nel periodo classico era formata da piccole somme di denaro prestato a individui che vivevano a un livello di sussistenza e che non riuscivano a sbarcare il lunario. La confisca dei terreni e dei beni, nonché della libertà personale dei debitori costretti in schiavitù, erano divenute un male irreversibile. Dal VII secolo a. C. i "tiranni" emersero per rovesciare le aristocrazie di Corinto e delle altre ricche città greche, ottenendo il consenso popolare grazie alla cancellazione dei debiti. In modo meno tirannico, Solone fondò la democrazia ateniese nel 594 a. C., abolendo la servitù per debiti.

Ma le oligarchie riemersero e fecero appello a Roma quando i re di Sparta Agide, Cleomene e il loro successore Nabis cercarono di cancellare i debiti verso la fine del III secolo a. C. Essi furono uccisi e i loro sostenitori cacciati. È una costante politica della storia, fin dall'antichità, che gli interessi dei creditori siano contrapposti sia alla democrazia popolare, che al potere reale incaricato di limitare la conquista finanziaria della società, una conquista volta a sfruttare il pagamento dei crediti fruttiferi sul debito per assorbire la maggior parte possibile dei guadagni dei cittadini. Quando i fratelli Gracchi e i loro seguaci tentarono di riformare le leggi sul credito nel 133 a. C., la classe dominante senatoria reagì con violenza, uccidendoli e inaugurando un secolo di Guerra Sociale, terminata con la nomina di Augusto come imperatore nel 29 a. C.

L’oligarchia creditrice romana vince la guerra sociale, schiavizza la popolazione e porta il Medioevo.

Le cose si fecero più sanguinose all’estero. Aristotele non parlò della formazione degli imperi nel suo schema politico, ma la conquista straniera ha da sempre costituito un fattore importante nell’imposizione di debiti e i debiti di guerra sono sempre stati una delle principali cause di debito nei tempi moderni.

Roma fu una delle più feroci impositrici di debito, i cui creditori si espansero sino ad asfissiare l’Asia Minore, la sua più prospera provincia. Lo stato di diritto scompariva all’arrivo dei "cavalieri" pubblicani. Mitridate del Ponto capeggiò tre rivolte popolari e le popolazioni di Efeso e di altre città si ribellarono e uccisero circa 80.000 romani nell’88 a. C. L'esercito romano reagì e Silla impose un tributo di guerra di 20.000 talenti nell’84 a. C. Gli oneri connessi agli interessi fecero sì che questa somma risultasse moltiplicata di sei volte nel 70 a. C.

I maggiori storici latini, Livio, Plutarco e Diodoro, attribuirono la colpa della caduta della Repubblica all’intransigenza dei creditori, che poi portò a un secolo di guerra sociale segnata da numerosi omicidi politici nel periodo compreso tra il 133 ed il 29 a. C. I dirigenti populisti che cercarono di ottenere un seguito sostenendo le cancellazioni del debito (ad esempio, la congiura di Catilina nel 63-62 a. C.) furono uccisi. Nel II secolo d. C. circa un quarto della popolazione era ridotta in schiavitù. Nel V secolo l'economia di Roma era crollata, spoglia di denaro. La necessità di vivere di sussistenza riportò la popolazione in campagna.

I creditori trovano una ragione legalistica per sostenere la democrazia parlamentare

Quando i banchieri si risollevarono dopo le Crociate e il saccheggio di Bisanzio, e l'argento e l'oro fusi riiniziarono a circolare nei commerci dell’Europa occidentale, l'opposizione cristiana alla pratica bancaria degli interessi di mora fu sopraffatta dall’alleanza tra i prestigiosi istituti di credito (i Cavalieri Templari e gli Ospitalieri che avevano fornito credito durante le Crociate) e i clienti più importanti, i re: in primo luogo per pagare la Chiesa e sempre di più per finanziare le guerre. Ma i debiti reali rimanevano non pagati, quando i re morivano. I Bardi e i Peruzzi andarono in bancarotta nel 1345 quando Edoardo III ripudiò i suoi debiti di guerra. Le famiglie dei banchieri persero molto del denaro dato in prestito ai re Asburgo e Borbone che sedevano sui troni di Spagna, Austria e Francia.

Le cose cambiarono con la democrazia olandese, quando cercò di assicurarsi la libertà dagli Asburgo di Spagna. Il fatto che il loro parlamento potesse contrarre debito pubblico a tempo indeterminato per conto dello Stato abilitò i Paesi Bassi ad accendere prestiti per impiegare mercenari in un'epoca in cui la moneta e il credito erano il ​​nerbo della guerra. L'accesso al credito "è stato di conseguenza la loro arma più potente nella lotta per la libertà", ha scritto Richard Ehrenberg nel suo libro “Capitale e Finanza nell'età del Rinascimento” (1928): "Chi dava credito a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità del suo debitore e dalla sua volontà di pagare. Ciò risultava molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le aziende, per le associazioni di individui unite da interessi comuni. Secondo una legge generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con la sua persona che con la sua proprietà." [2]

L’obbiettivo finanziario del governo parlamentare era dunque quello di stabilire debiti che non fossero soltanto obblighi personali dei principi, ma che fossero veramente pubblici e vincolanti indipendentemente da chi occupasse il trono. È per questo che le prime due nazioni democratiche, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna dopo la sua rivoluzione del 1688, svilupparono i più attivi mercati di capitali e cominciarono a diventare leader tra le potenze militari. È ironico che sia stata la necessità di finanziare la guerra a promuovere la democrazia, formando una trinità simbiotica tra fare guerra, credito e democrazia parlamentare che è durata fino ad oggi.

In questo momento "la posizione giuridica del Re in quanto debitore era oscura, ed era incerto se i creditori avessero qualche possibilità per riottenere i soldi in caso di default." [3] Più la Spagna, l’Austria e la Francia divenivano dispotiche, maggiori difficoltà trovavano nel finanziare le loro avventure militari. Entro la fine del XVIII secolo l’Austria era stata lasciata "senza credito, e quindi senza molto debito", era il paese meno degno di credito e perciò peggio armato d’Europa, totalmente dipendente dai sussidi inglesi e dalle garanzie di prestito durante le guerre Napoleoniche.

La finanza si adegua alla democrazia, ma poi spinge per l’oligarchia

Mentre le riforme democratiche del XIX secolo riducevano il potere delle aristocrazie al controllo da parte dei parlamenti, i banchieri si muovevano flessibilmente per raggiungere un rapporto simbiotico con quasi ogni forma di governo. In Francia i seguaci di Saint-Simon promuovevano l'idea di banche che agissero come fondi comuni di investimento, concedendo credito in cambio di titoli azionari. Lo Stato tedesco fece un'alleanza con le grandi banche e l'industria pesante. Marx descrisse ottimisticamente un socialismo che avrebbe condotto a una finanza produttiva piuttosto che parassitaria. Negli Stati Uniti la regolamentazione dei servizi pubblici è andata di pari passo con la garanzia di profitti. In Cina Sun-Yat-Sen ha scritto nel 1922: "Ho intenzione di far confluire tutte le industrie nazionali della Cina in un grande fondo di proprietà del popolo cinese, finanziato con capitali internazionali per il reciproco vantaggio". [4]

La Prima Guerra mondiale vide gli Stati Uniti sostituire la Gran Bretagna tra i principali Paesi creditori ed entro la fine della Seconda Guerra mondiale avevano accantonato circa l’80 per cento dell’oro monetario del mondo. I suoi diplomatici determinarono l’agenda del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, concedendo crediti che portassero alla dipendenza commerciale, principalmente nei confronti degli Stati Uniti. I prestiti per finanziare il commercio e il pagamento del deficit sono stati oggetto di "condizioni" che hanno spostato la pianificazione economica nelle mani di oligarchie clientelari e dittature militari. La risposta democratica ai piani di austerità per pagare gli interessi sul debito non è stata, però, in grado di andare al di là delle proteste contro il FMI, almeno fino a quando l’Argentina non ha ripudiato il debito straniero.

Un simile austerità voluta dai creditori viene ora imposta in Europa dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dall’apparato burocratico dell'UE. I governi apparentemente socialdemocratici hanno compiuto azioni orientate al salvataggio delle banche piuttosto che al rilancio della crescita economica e dell'occupazione. Le perdite dovute agli errori nei prestiti e alle speculazioni delle banche sono state caricate sul bilancio statale, mentre nel contempo si ridimensionava la spesa pubblica, giungendo persino a vendere le infrastrutture. La risposta dei contribuenti bloccati dal debito è stata quella di montare proteste popolari che hanno avuto inizio in Islanda e in Lettonia nel gennaio 2009, e si sono diffuse quest’autunno in Grecia e in Spagna per manifestare contro il rifiuto dei governi di tenere un referendum su questi mortiferi salvataggi degli obbligazionisti stranieri.

Spostare la pianificazione dai rappresentanti eletti ai banchieri

Tutte le economie sono pianificate. Tradizionalmente questa è sempre stata una funzione del governo. Tralasciare questo ruolo con gli slogan del "libero mercato" significa metterlo nelle mani delle banche. Ma il privilegio della pianificazione del credito e dell'assegnazione delle risorse è ora ancora più centralizzato rispetto a quando questo privilegio era di competenza dei rappresentanti eletti. E a peggiorare le cose c’è anche la modalità finanziaria “mordi e fuggi”, che finisce per praticare della spicciola chirurgia finanziaria. Cercando il proprio tornaconto, le banche tendono a distruggere l'economia. Il surplus finisce per essere divorato dagli interessi e da altri oneri finanziari, senza lasciare entrate per nuovi investimenti di capitale o per la spesa sociale di base. Questo è il motivo per cui la rinuncia ad attuare un controllo politico sulla classe creditrice raramente ha comportato una crescita economica e della qualità della vita. La tendenza per cui i debiti crescono più rapidamente della capacità della popolazione di ripagarli è stata una costante di tutta la storia documentata. I debiti crescono esponenzialmente, assorbendo tutti i guadagni e riducendo la gran parte della popolazione a una condizione di schiavitù. Per ristabilire l'equilibrio economico, si chiede quello che durante l'Età del Bronzo nel Medio Oriente si otteneva grazie al fiat reale: l’annullamento della crescita eccessiva di debiti.

Più di recente, le democrazie hanno introdotto uno stato forte per poter tassare redditi e capitali e, quando richiesto, per depennare i debiti. Questo si può fare più facilmente quando è lo Stato stesso a creare moneta e credito. Si può fare meno facilmente quando le banche trasformano i loro profitti in potere politico. Quando le banche hanno il diritto di auto-regolarsi, nonché di porre il diritto di veto sull’azione del governo, l'economia viene distorta per consentire ai creditori di indulgere nelle scommesse speculative e nelle vere e proprie frodi che hanno segnato l'ultimo decennio. La caduta dell'impero romano mostra ciò che accade quando le richieste del creditore non ricevono risposta. In queste condizioni la rinuncia alla pianificazione e alla regolamentazione da parte del governo in favore dei settori finanziari spiana la strada alla schiavitù da debito.

Finanza contro governo; oligarchia contro democrazia

La democrazia comporta che le dinamiche finanziarie siano subordinate al perseguimento dell’equilibrio economico e della crescita, così come la tassazione dei redditi da rendita o il mantenimento di monopoli di base pubblici. Il non tassare o il privatizzare le rendite di proprietà le rende “libere” di fluire nelle banche, per concedere poi prestiti ancora più consistenti. Finanziata dallo sfruttamento del debito, la chirurgia finanziaria aumenta la ricchezza di coloro che godono di posizioni di rendita mentre indebita l'economia in generale. L'economia si contrae, chiudendo in negativo il bilancio.

Il settore finanziario ha ormai un’influenza tale da poter utilizzare queste circostanze per convincere i governi che l'economia crolla se non “si salvano le banche". In pratica questo significa consolidare il controllo delle banche sulla politica, che usano questo controllo in modo da polarizzare ulteriormente le economie. Il modello di riferimento è quanto successe nell’antica Roma, nel passaggio dalla democrazia all’oligarchia. In realtà, dando priorità ai banchieri e lasciando che la pianificazione economica sia dettata dall’UE, dalla BCE e dal FMI si concreta la minaccia di privare lo stato-nazione del potere di stampare moneta o denaro e di riscuotere le tasse.

Il conflitto che ne risulta fa scontrare gli interessi finanziari contro l’autodeterminazione nazionale. L'idea di una banca centrale indipendente che sia "il segno distintivo della democrazia" è un eufemismo per destinare le decisioni politiche più importante - la capacità di creare moneta e credito – al settore finanziario. Invece di lasciar decidere politicamente a un referendum popolare, il salvataggio delle banche organizzato dall'UE e dalla BCE rappresenta oggi la principale causa dell’aumento del debito nazionale. I debiti bancari privati ​​caricati sul bilancio del governo in Irlanda e Grecia sono stati trasformati in obblighi per il contribuente. Lo stesso vale per i 13 trilioni di dollari aggiunti nel settembre 2008 (compresi i 5,3 trilioni dei pessimi prestiti di Fannie Mae e Freddie Mac portati nel bilancio del governo, e 2 trilioni di dollari di swap tossici della Federal Reserve).

Tutto ciò è stato dettato dai delegati della finanza, definiti eufemisticamente tecnocrati. Designati dai lobbisti creditori, il loro ruolo è quello di calcolare quanta disoccupazione e depressione sia necessaria per racimolare un attivo sufficiente per ripagare i debiti che sono sui libri contabili. Ciò che rende questo calcolo autolesionista è il fatto che la contrazione economica - deflazione - rende il peso del debito ancora più insostenibile.

Né le banche né le autorità pubbliche (o i principali accademici, se è per questo) hanno preso in considerazione l’effettiva capacità dell'economia di ripagare i debiti, ossia di pagare senza avere una contrazione dell'economia. Attraverso i loro media e i think tank, hanno convinto le popolazioni che il modo per arricchirsi più rapidamente fosse quello di prendere in prestito denaro per acquistare immobili, azioni e obbligazioni quando aumentano di prezzo – essendo stati gonfiati dal credito bancario - e di porre fine alla tassazione progressiva della ricchezza imposta nel secolo scorso.

Per dire le cose senza usare mezzi termini, il risultato è stato la creazione di una economia spazzatura. Il suo scopo è quello di disabilitare i pesi e i contrappesi pubblici, postando il potere di pianificazione nelle mani dell'alta finanza con la convinzione che questo sia il più efficiente metodo di regolamentazione pubblica. Il governo e la pianificazione fiscale vengono accusati di tracciare "la strada per la servitù", quando invece al "libero mercato" controllato dai banchieri viene dato modo di tutelare interessi particolare in modo oligarchico e non democratico. I governi devono pagare debiti assunti non per difendere i propri paesi in guerra come nel passato, ma a beneficio degli strati più ricchi della popolazione che spostano così le proprie perdite sui contribuenti.

Il non prendere in considerazione i voleri degli elettori pone i debiti nazionali su un terreno instabile, politicamente e anche legalmente. I debiti imposti da leggi, da governi stranieri o agenzie finanziarie a fronte di una forte opposizione popolare possono essere non riconosciuti, come fecero gli Asburgo e altri regnanti in epoche passate. In mancanza di una convalida popolare, essi possono morire insieme al regime che li ha contratti. Nuovi governi potrebbero agire democraticamente per subordinare il settore bancario e finanziario a servizio dell'economia, non il contrario.

Intanto, potrebbero chiedere la reintroduzione della tassazione progressiva dei capitali e dei redditi, spostare il carico fiscale sui percettori di rendite. La ri-regolamentazione del settore e una via pubblica per il credito e i servizi bancari potrebbero rinnovare il programma socialdemocratico che sembrava ben avviato un secolo fa.

L’Islanda e l’Argentina sono gli esempi più recenti, ma si può guardare indietro alla moratoria sui debiti di guerra della Prima Guerra Mondiale degli stati europei nei confronti degli Stati Uniti (tali debiti furono rinegoziati) oppure alla moratoria sui debiti tedeschi di riparazione per la Prima Guerra Mondiale nel 1931. Sussiste un principio tanto matematico, quanto politico: i debiti che non possono essere ripagati, non lo saranno.

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Fonte: Democracy and Debt

di Michael Hudson

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA

16 dicembre 2011

Europa sentinella del debito




Una crisi economica, soprattutto come quella che negli ultimi tre anni ha investito l’intero pianeta, non è mai solo una crisi monetaria. Nel migliore dei casi, vanno in crisi i governi politici degli stati, nel peggiore si scatenano le guerre mondiali, nella media tragicità, a crollare sono le strutture inter e sovra-nazionali. È quello che sta accedendo in Europa. Investita dal crack del sistema finanziario americano del 2008, sono cominciati a saltare i governi delle nazioni più esposte (Spagna, Grecia, Italia in primis). Se per le guerre mondiali forse ci vorrà del tempo (ma gli spifferi iraniani stanno già soffiando forte) quello scaduto sembra essere il tempo dell’euro-moneta come collante e propulsione degli assetti politici del Vecchio Continente. Già la settimana scorsa la Gran Bretagna, che pure all’euro aveva rinunciato in partenza, tenendosi la sterlina, ha rifiutato di entrare nella Ue dei cosiddetti 27 (ora, 26) e adesso non appare del tutto campata in aria l’ipotesi che la stessa Germania possa tornare al marco. Accadesse questo, tutta l’architettura europea fin qui concepita, e più o meno bene (anzi: male) realizzata, crollerebbe lasciando spazio a scenari ben poco prevedibili.

In questo contesto di assoluta incertezza, tutto ciò che rimane fermo e indiscutibile sono le misure che si ritengono imprescindibili per far fronte ai debiti degli stati in crisi (economica ma non solo) e che vanno sotto il nome generico di quei cosiddetti “sacrifici” che sono la ricerca di nuove entrate fiscali e di tagli alla spesa pubblica. Ora, perfino se il quadro europeo, compreso quello che riguarda strettamente la sorte della moneta unica, fosse chiaro e solido sarebbe da dubitare dell’efficacia della formula dei “sacrifici”, ma siccome così non è, il sospetto che il “taglia e prendi” proposto e imposto per l’ennesima volta come soluzione unica per evitare il default, sia un viatico alla salvezza dal fallimento è doveroso. Soprattutto, quando il sistema che regge in piedi lo stato liberista è fondato sul principio del produrre consumo per aumentare la produzione e incrementare nuovamente il consumo. Non ci vuole un genio per capire che congelando i contratti salariali e le pensioni, introducendo nuove tasse, aumentando l’Iva e le accise su generi di prima necessità come la benzina, la liquidità da destinare al consumo non può che flettere in basso (deflazione) con conseguente recessione della produzione.

È un percorso talmente noto e matematico che a stupire è solo il fatto che venga puntualmente riproposto. O meglio: stupirebbe se ci attardassimo ancora a considerare chi adotta e impone queste misure interessato alla sorte degli stati sociali e non, come ormai dovrebbe essere palese, a mantenerne in vita un altro: quello del sistema finanziario che impera. Perché, se si leggono in questa ottica, le misure di “austerità” (il “taglia e prendi” di cui si dice sopra) hanno un senso logico e coerente: quello di cristallizzare stato ed individui nella condizione di debitori. Lo ha spiegato benissimo il prof. Christian Marrazzi, in un’intervista del 3 dicembre a Ida Dominijanni del Manifesto: «Il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».

La “macchina depressiva” della finanziarizzazione del debito è potente e i segnali di un suo possibile arresto tardano ad arrivare. A meno che non si vogliano leggere come segni di sua debolezza la discesa in campo in prima persona dei banchieri alla guida degli stati e la sospensione della politica, se non proprio della democrazia, come avvenuto in Grecia e Italia negli ultimi mesi. Ovvero: vi è da chiedersi se la esposizione politica di uomini già legati alla Goldman Sachs (Mario Monti) e alla Bce (Lucas Papademos), istituti con grossissime responsabilità nella crisi in corso, non sia il tentativo di mettere pezze a un tessuto che tende a lacerarsi. Lo stesso Marrazzi sostiene che «La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito» a causa della riduzione forzosa della liquidità del consumatore. È, in fondo, ancora un atto di fede nell’antica profezia marxiana del capitalismo che perirà per via delle sue contraddizioni.

Nel frattempo, però, persino alcune correzioni come la socializzazione dei debiti pubblici degli stati, l’introduzione della tobin-tax planetaria, l’istituzione del reddito minimo garantito di cittadinanza sembrano più un’aspirazione utopica che la ragionevole proposta di mediazione fra agenti della crisi e vittime della stessa. Se è così, figuriamoci quale accoglienza potrebbe avere una proposta che sostenesse di uscire da questo sistema dichiarando la moratoria del debito, pubblico e privato, la nazionalizzazione delle banche e l’integrazione del lavoratore nella gestione delle imprese produttive, in un quadro politico generale di democrazia diretta e partecipata.

di Miro Renzaglia

22 dicembre 2011

I derivati Otc hanno rotto gli argini. Rischi di nuova crisi finanziaria


La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel suo ultimo rapporto trimestrale conferma l’impazzimento della finanza globale. I derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico.

Alla fine di giugno il valore nozionale totale degli Otc ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010!

In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari! Sono stati superati tutti i record.

Si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari.

La straordinaria crescita di tali titoli è avvenuta nonostante i tanti ottimistici impegni a riformare il sistema finanziario globale assunti dal mondo politico nei vari meeting internazionali dopo il crollo della Lehman Brothers.

Ora, mentre il Fmi paventa una recessione nel mondo cosiddetto avanzato, la Bce la dà per certa in Europa e l’Ocse parla di gravi rischi di una “crescita negativa”, le grandi banche internazionali, in primis quelle americane ed inglesi, ed il sistema bancario ombra da loro controllato, hanno dato una accelerata senza precedenti ai prodotti derivati.

La finanza speculativa si allarga a dismisura e l’economia reale e produttiva si contrae! C’è il rischio di un’altra crisi molto più devastante di quella che stiamo ancora vivendo

La Bri rivela che l’esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Sono contratti fatti un po’ in tutte le principali monete.

Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti suddetti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari.

Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante “effetto valanga” soprattutto sulle economie più deboli. Potrebbero esserci effetti negativi anche sulle monete in cui i contratti sono stati sottoscritti.

Certamente questa nuova ondata speculativa soddisfa gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Secondo l’Office of the Comptroller of the Currency (Occ), l’agenzia che regola e controlla il sistema bancario americano, nel terzo trimestre del 2011 le banche Usa hanno infatti registrato dei profitti enormi: 13, 1 miliardi di dollari con un aumento del 78% rispetto al trimestre precedente.

L’Occ tra l’altro dimostra che i derivati creati dalle banche americane sono poco meno di 250 trilioni di dollari, di cui l’87% in prodotti strutturati sui tassi di interesse.

Si ripropone la grande questione delle banche “too big to fail”, quelle troppo grandi per lasciarle fallire, che di fatto hanno determinato il sistema economico e finanziario e hanno ricattato il mondo politico. Nel frattempo esse hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario.

Infatti, se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche soltanto, la JP Morgan Chase, la City Group, la Bank of America e la Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale.

Dai preoccupanti dati esposti emerge con forza la necessità per l’Italia e per l’Europa non solo di adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20 dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere del sistema bancario finanziario speculativo.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

*Sottosegretario dell'Economia nel governo Prodi **Economista

21 dicembre 2011

Lo stato italiano, Berlusconi e l’ONU denunciati per una colossale truffa internazionale

La Repubblica Italiana, l’ex-premier Silvio Berlusconi, la nostra Guardia di Finanza, le Nazioni Unite ed il suo segretario Ban-Ki-Moon, l’ambasciatore italiano all’ONU Ragaglini, l’ambasciatrice italiana a Ginevra Laura Mirachian, il World Economic Forum (Davos), l’Office of International Treasury Control, ed altri personaggi più o meno conosciuti, collegati a “società segrete” di vario tipo, sono stati citati in giudizio da un cittadino americano per aver partecipato ad un complotto internazionale allo scopo di impossessarsi illegalmente di un pacchetto di Buoni del Tesoro, quasi tutti americani, per il valore nominale di 145,5 miliardi di dollari, con un valore attuale di mercato stimato intorno a 1 bilione (1000 miliardi) di dollari. Lira più lira meno.

La citazione in giudizio è stata depositata il 23 novembre scorso presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti dallo studio legale Bleakley Platt & Schmidt, che ha sede nello stato di New York, a nome di Neal F. Keenan, un cittadino americano residente in Bulgaria, che compare sia a titolo personale che in rappresentanza di un “gruppo di famiglie asiatiche” non meglio identificate, definite con il nome fittizio di “Dragon Family”.

La querela compare negli elenchi ufficiali di PACER (Public Access to Court Electronic Records), l’archivio elettronico dove è possibile consultare tutte le cause depositate presso le Corti Distrettuali e le Corti d’Appello degli Stati Uniti, ...


... che si possono anche scaricare al costo di 8 centesimi a pagina. (David Wilcock, personaggio noto a chi si occupa di esopolitica, ha già svolto questa operazione, ed ha messo a disposizione la citazione completa in formato PDF, dopo aver dato la notizia alla radio americana e sulla rete).

Il sito Courthouse News, che si occupa di questioni di tipo legale, ha commentato il fatto con un articolo del 5 dicembre intitolato “Bizzarra querela da un bilione di dollari”, nel quale ne riassume sommariamente il contenuto, decisamente complesso e intricato, anche perchè riguarda eventi storici che risalgono a quasi un secolo fa.

Secondo Keenan [da qui in poi raccontiamo ciò che viene sostenuto nella querela, per cui evitiamo ogni volta di usare il condizionale o di dire “Keenen sostiene”], nel 2009 la Dragon Family gli affidò la gestione di un pacchetto di “strumenti finanziari” che comprendevano a) 249 titoli da 500 milioni di dollari ciascuno, emessi nel 1934 dalla Federal Reserve, per un valore nominale complessivo di 124,5 miliardi di dollari; b) due serie di titoli del governo giapponese, emesse nel 1983, per un valore di oltre 9,5 miliardi di dollari ciascuna, e c) un titolo unico da 1 miliardo di dollari, chiamato “Kennedy Bond”, emesso dal governo americano nel 1998.

Da cui il totale, appunto, di 145,5 miliardi di dollari. Questi strumenti finanziari erano stati affidati a Keenan dalla Dragon Family perchè facesse investimenti internazionali di vario tipo, finalizzati ad interventi di tipo umanitario su grande scala.

Naturalmente è il pacchetto di titoli della Fed del 1934 che richiama subito l’attenzione, non solo perchè rivela una storia veramente complessa alle sue spalle, ma perchè è sulla base del valore originale (125 miliardi di dollari) che vengono calcolati gli interessi accumulati fino ad oggi, che sono stimati in 968.000.000.000 (novecentosessantottomila) miliardi di dollari. Quasi un bilione, appunto.

Questi titoli furono emessi dalla Fed come ricevuta per le ingenti quantità di oro ed altri metalli preziosi che la Dragon Family aveva trasferito negli USA come misura precauzionale, temendo una invasione militare della Cina da parte del Giappone (cosa che poi è avvenuta, nel 1937).

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la Dragon Family chiese la restituzione dell’oro consegnato alla Fed, ma si trovarono di fronte ad una lunga serie di “intoppi legali” che di fatto gli impedirono di rientrare in possesso del prezioso metallo.

Cominciano così le peripezie di questo pacchetto di titoli, che ci avrebbero portato fino ad oggi.

Dal 1946 in poi, infatti, la storia si complica enormemente, introducendo una vera e propria ragnatela di collegamenti, fra dozzine di personaggi e di organizzazioni di livello mondiale, che è molto difficile da riassumere, e ancora più difficile da verificare.

Notiamo solo che fra queste organizzazioni compare anche il misterioso OTIC (Office of International Treasury Control), che è considerato una delle più grandi organizzazioni finanziarie nel mondo, e che sostiene di esser affiliato all’ONU e alla Fed, ma con cui sia l’ONU che la Fed negano ufficialmente di aver mai avuto a che fare.

Teniamo presente che non stiamo parlando della scomparsa di qualche dozzina di euro dal conto corrente di nostra cugina, ma di un sistema mondiale di finanza occulta che parte dal presunto trafugamento di tutte le riserve auree costodite ufficialmente a Fort Knox (c’era forse anche l’oro della Dragon Family?), e che coinvolge oggi bene o male tutte le più importanti organizzazioni finanziarie mondiali, all’interno di un “universo parallelo” in cui il traffico e il riciclaggio di titoli di stato “duplicati” – cioè sostanzialmente falsi – sarebbe all’ordine del giorno.

In ogni caso, riprendiamo la vicenda dal 2009, perchè è in quell’anno che i famosi titoli della Fed ricompaiono nella mani di Keenan per essere investiti in “operazioni su grande scala di tipo umanitario”.

Per svolgere questo compito Keenan era affiancato da un emissario di fiducia della Dragon Family, Akihiro Yamaguchi, che era già fisicamente in possesso dei titoli a partire dal 2006, e che aveva presentato lo stesso Keenan alla Dragon Family.

Yamaguchi e Keenan passarono alcuni mesi in Svizzera, valutando le diverse possibilità di investimento che gli venivano proposte dalle banche locali per conto dei loro clienti in tutto il mondo.

Verso la fine di maggio sembrava che finalmente si stesse per concludere un accordo con un gruppo finanziario che viene definito nella querela come “il gruppo dei turchi”. Ma il 3 di giugno accadde un fatto imprevisto: due cittadini giapponesi furono arrestati al confine di Chiasso dalla Guardia di Finanza, mentre cercavano di trasferire in Svizzera un pacchetto di titoli di stato americani nascosti nel doppiofondo della valigia.

Curiosamente, il pacchetto conteneva 249 titoli della Federal Reserve del 1934 da mezzo miliardo di dollari ciascuno, e 10 “Kennedy Bonds” da 1 miliardo ciascuno, per un valore nominale complessivo di 134,5 miliardi di dollari.

La notizia clamorosa stava per rimbalzare sulle testate di tutto il mondo, ma gli americani si affrettarono a far sapere che quei titoli erano falsi, e la cosa si spense sul nascere. I due giapponesi furono rilasciati, e i loro nomi non furono mai comunicati ufficialmente (Keenan sostiene che uno dei due fosse proprio Yamaguchi).

Diversi tentativi fatti da giornalisti americani per saperne qualcosa di più finirono nel nulla: l’ambasciata giapponese non dava nessuna conferma del fatto, la Guardia di Finanza non aveva informazioni aggiuntive da offrire, e il tesoro americano minimizzava la cosa, confermando che i titoli fossero “sicuramente falsi”.

Naturalmente, ci credettero soltanto Topolino e i Sette Nani, ma questo fu sufficiente a tranquillizzare il pubblico americano, mentre la vera storia riprendeva a dipanarsi dietro le quinte.

Lo stato italiano, “tramite Berlusconi”, contattò il governo cinese, offrendo la restituzione dei titoli in cambio del 40% del loro valore nominale, cioè la cifra corrispondente alla penale da pagare in caso di esportazione clandestina di denaro. Ma la trattativa si arenò quando i cinesi pretesero in cambio che l’Italia saldasse il suo debito complessivo contratto fino a quel giorno con la nazione cinese, che naturalmente ammontava ad una cifra ben superiore a quella che stavano trattando.

Nel frattempo Keenan veniva avvicinato da Leo Zagami, un noto massone italiano che si presentò come membro dei “Vatican Illuminati” e come leader di una “fazione secessionista” dei Massoni con sede a Montecarlo, il quale gli disse di avere informazioni utili per rientrare in possesso dei titoli rubati. Zagami presentò a Keenan un certo Daniele Dal Bosco, che diceva di agire a nome dell’OITC. Dal Bosco disse a Keenan che i titoli sarebbero stati investiti in un modo decisamente più efficace attraverso certe organizzazioni umanitarie dell’ONU a cui erano collegati, e suggerì che la loro tutela venisse trasferita temporaneamente al “suo gruppo”, per maggiore sicurezza (fino a quel momento il titolare unico era Keenan).

Dal Bosco informò anche Keenan che la Guardia di Finanza Italiana era disposta a restituire i titoli per il 10% del valore nominale, ma Keenan rispose che la Dragon Family non era interessata a pagare un solo centesimo per qualcosa che già possedeva legalmente da oltre 70 anni.

Nelle settimane seguenti il “gruppo” di Dal Bosco cominciò a materializzarsi intorno a Keenan, e qui la faccenda si complica ulteriormente, con l’entrata in scena di diversi personaggi, che vanno da agenti dei servizi segreti bulgari ad un certo Giancarlo Bruno, direttore delle operazione finanziarie del World Economic Forum di Davos, che diceva di essere anche un “consigliere finanziario del Vaticano” e “tesoriere dei Massoni”. Bruno sosteneva che il buon fine dell’operazione fosse garantito fin dall’inizio, in quanto avevano già stipulato gli accordi preliminari con i loro contatti alle Nazioni Unite. Le ultime perplessità di Keenan scomparvero dopo una telefonata da parte di Laura Mirachian, la rappresentante permanente per l’Italia alle Organizzazioni Internazionali di Ginevra, che confermava che ”siamo tutti protetti dall’alto”, che “nessuno, compreso Keenan, ha motivo di temere ripercussioni di alcun tipo”, e che “la nostra gente a New York ha già avuto l’approvazione da parte di Ban-Ki-Moon, anche se ovviamente negheranno tutto se interpellati al riguardo”.

Insomma, per farla breve, Keenan si convinse di essere in ottime mani, e firmò la cessione temporanea dei titoli a Dal Bosco, il quale si impegnava alla restituzione incondizionata dei medesimi in qualunque momento. Inutile dire che da quel giorno in poi dei titoli non si è mai più saputo nulla.

Dopo aver cercato inutilmente di rientrarne in possesso, Keenan avrebbe quindi deciso di presentare la sua querela contro tutte le entità coinvolte, “per aver cospirato nella sottrazione illegale dei titoli di proprietà della Dragon Family di cui era il responsabile”.

Qui ovviamente si apre un tale ventaglio di ipotesi e di possibilità, per spiegare cosa possa essere realmente accaduto, a cui solo la fantasia può mettere un limite. Oltretutto, non possiamo nemmeno stabilire fino a che punto le accuse da parte di Keenan siano sostanziate e fino a che punto possano essere il frutto di una sua invenzione.

Di fatto, sappiamo solo che la querela esiste, e che i suoi contenuti sono sostanzialmente quelli che abbiamo descritto. A ben altri l’onere eventuale di accertare cosa ci sia di vero e cosa no in tutta questa faccenda.

Noi possiamo solo concludere notando un fatto curioso: mentre centinaia di miliardi di dollari sembrano muoversi disinvoltamente nell’oscurità, a nostra totale insaputa, gli italiani sono impegnati a litigare fra loro come galline impazzite per decidere se sia meglio ridurre le pensioni di un altro milione di euro all’anno, oppure tagliare lo stesso milione di euro dai salari della classe operaia.

Se la sensazione di venire perennemente fregati non arrivasse direttamente dal “giallo di Chiasso”, arriva certamente da questo genere di considerazioni.

Massimo Mazzucco

Nota: La querela che sta al centro di questo articolo è di pubblico dominio, e come tale Luogocomune si riserva il diritto di citarne i contenuti, senza necessariamente implicare che i fatti descritti siano avvenuti veramente, nè che i personaggi e le organizzazioni citate siano stati effettivamente coinvolti nella vicenda descritta.

20 dicembre 2011

Crisi: e alla fine arrivò la grande depressione


Era una bella consolazione. Pensare che comunque la si guardasse la crisi attuale nulla avesse a che fare con la "grande depressione degli anni ‘30" in qualche modo rincuorava anche i più pessimisti. L'avesse detto un anticapitalista qualunque che quello scenario era nuovamente all'orizzonte avrebbe fatto lo stesso rumore della nascita di un filo d'erba, ma il sentirlo affermare da Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, fa saltare i timpani come un allarme tsunami mondiale. Anche perché pure Mario Draghi ha confermato la frenata della crescita mondiale, dimostrata ampiamente da quanto sta accadendo in Cina. Dopo tre anni di chiacchiere, dunque, la crisi è a doppia W e la prospettiva di risalita neppure si vede. Una crisi finanziaria che ha fatto saltare governi e tolto milioni di posti di lavoro, allargato la forbice tra ricchi e poveri, relegato l'ecologia a un di più da affrontare chissà quando e non intaccando minimamente il modello di sviluppo. Nonostante di sviluppo non se ne veda neanche l'ombra.

Per dire queste cose non servono gli economisti, perché le capiamo anche noi che non lo siamo e dunque più che sugli strumenti tecnici necessari per tentare di rimediare a questa situazione, ne facciamo una questione politica/sociologica. E diciamo che metaforicamente per curare da una depressione servirebbe uno psicologo, mentre ci si sta rivolgendo a uno psichiatra con qualche disturbo. Perché quando una strada che si è seguita è terminata contro un muro, il prendere la rincorsa per picchiare ancor più forte contro lo stesso significa avere dei problemi seri. Ma il medico, a questo punto, può far poco perché dà sempre la stessa ricetta, e qui un anti-depressivo non basta. Serve un confronto almeno con chi questa crisi la sta subendo davvero, quel 99% che pur con tutte le sue incongruenze paga una crisi di cui al massimo può essere corresponsabile dal punto di vista di non aver capito per tempo che cosa stesse capitando, oppure di aver scelto dei pessimi rappresentanti dei veri interessi comuni.

Semplificando al massimo il male, oggi - come dice Gordon Gekko in Wall Street 2, concedeteci una citazione cinefila e non altissima - è il "prestito" ("un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno. È sistemico, maligno ed è globale, come il cancro"). Che poi diventa debito. Ci hanno convinto che potevamo indebitarci e che anzi era un bene farlo per far funzionare l'economia, e la finanza ha cavalcato questa idea urbe et orbi. Replicandola su ogni cosa che si muovesse o che si sarebbe potuta muovere o che invece sarebbe crollata. Rischiando su tutto perché opera tramite banche con soldi non suoi.

«Questa crisi ha messo a nudo le crepe della nostra società - scrive l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo "Bancarotta" - fra il mondo della finanza di Wall Street e l'economia reale di Main Street, fra l'America dei ricchi e il resto della nostra società (dove siamo anche noi da quest'altra parte dell'Oceano, non lo dice Stiglitz ma è evidente, ndr). Mentre le persone sui gradini più in alto della scala sociale hanno vissuto molto bene in questi ultimi trent'anni, il reddito della maggior parte degli americani ha ristagnato o è diminuito. Le conseguenze sono state nascoste; ai ceti bassi - e anche a quelli medi - è stato detto di continuare a consumare come se i redditi fossero in aumento; le persone sono state incoraggiate a vivere al di sopra delle loro possibilità, ricorrendo a prestiti resi possibili dalla bolla».

Il guaio, aggiungiamo noi, è che la stessa cosa hanno fatto i governi! Anche loro hanno vissuto indebitandosi e scommettendo sulla finanza come panacea di ogni male, persino i comuni, con il risultato che quando hanno stabilito che eravamo potenzialmente insolventi, gli investitori ci hanno chiuso i rubinetti come fanno le banche. Anche certamente per colpa di un governo, il precedente, totalmente non credibile, ma come si vede per la finanza - che deve sempre trovare un capro espiatorio per togliersi da ogni responsabilità - ora giudica quasi tutti i governi europei non credibili. «Il settore finanziario - come dice sempre Stiglitz - è restio a farsi carico dei propri fallimenti». Tant'è, aggiungiamo noi, che quando l'Ue al super-summit ha deciso di dare una strizzatina alla finanza, la Gran Bretagna se ne è fuggita a gambe levate...

La crisi, dunque, è sistemica. Questo - e veniamo alle questioni italiane - dovrebbe saperlo bene un uomo come Mario Monti che infatti cerca di ridare credibilità al Paese, anche questa condizione necessaria almeno per avere voce in capitolo qualora qualcuno anche da questo Paese avesse voglia di provare a cambiare le cose. Ma di fronte a tutto questo davvero non possiamo tacere su una topica che sta prendendo anche questo Governo, ovvero pensare che un contributo arrivi rendendo ancor più precario il lavoro (articolo 18) e allungando le pensioni fino a 70 anni.

L'avvitamento è andato in scena involontariamente, crediamo, sul Corriere della Sera di ieri. A domanda pertinente di Enrico Marro al ministro Fornero sul fatto che lei creda davvero che «le imprese terranno le persone fino a 70 anni» (tema da noi sollevato fin dall'inizio, vedi link) lei ha risposto così: «qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d'impresa sfociano in prepensionamenti. Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l'anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all'età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo. Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata. E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani. Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».

C'è del vero, ma quello che fa uscire gli occhi dalla orbite è che questa manovra è stata avallata almeno a parole da Confindustria, come se appunto anche loro riconoscessero l'anomalia: peccato che accanto all'intervista ci sia proprio un pezzo su Confindustria che avrebbe delle resistenze, e su che cosa? «La riforma delle pensioni costringe le imprese a tenere i lavoratori più a lungo in servizio, in prospettiva fino a 70 anni, facendo saltare i piani di molte di esse che speravano in un alleggerimento degli organici che le avrebbe aiutate a superare la crisi». Inoltre c'è da dire anche che gli ammortizzatori "avanzati" e gli scaloni pensionistici che si propongono sono quelli europei di Paesi con servizi ai cittadini (soprattutto donne ed anziani) molto più avanzati dei nostri, ma la ricetta del mercato del lavoro è quella americana, con salari e diritti dei lavoratori più vicini a quelli cinesi che a quelli tedeschi.

Come si vede su questo tema ci avvitiamo completamente perché è il modello che è sbagliato, perché l'individuo non è più al centro di questo modello, men che meno l'ambiente e la redistribuizione delle ricchezze attraverso anche un welfare di qualità, un'idea morta e sepolta. Una cura a questo modello equivale a doparlo, qui serve un cambio radicale fondando lo sviluppo sulla sostenibilità ambientale e sociale e riducendo tutti i debiti, specialmente quelli con le risorse del pianeta; un cambio dato dal confronto e ripulito dalle distorsioni tecnologiche che ammazzano la democrazia.

di Alessandro Farulli

19 dicembre 2011

Monti, rigore senza crescita: l’Europa si suicida in Italia




L’Islanda ha dichiarato il default e ha rotto i patti. Sfortuntamente, l’Italia è un paese molto più grande: difficile rompere i patti, perché dipenderebbe da noi il futuro dell’Unione Europea. Non si vuole finire, tra un anno, peggio di oggi? Allora Monti non dovrebbe incontrarsi prima di tutto con la Merkel e con Sarkozy, ma con Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Dovrebbe andare a Bruxelles e dire: scusate, noi vogliamo rinegoziare tutto. Dobbiamo stracciare il Trattato di Maastricht e ricominciare un processo costituente europeo con la partecipazione dei popoli europei, e a questo punto ridiscutiamo tutto: il meccanismo di finanziamento degli Stati, questo debito sovrano, è una grande truffa. Siccome siamo decisivi, l’Europa dovrebbe ascoltarci. Se noi andiamo a finire dove ci vogliono mandare, i tedeschi dove vanno a venderli i loro prodotti? Di fatto, sono dei suicidi senza saperlo.

Questa che viene tentata da Monti è una manovra senza destino: perché non ci sarà crescita, come scopriremo tra un anno, un anno e mezzo. Quello che Giulietto Chiesastanno facendo è un rifinanziamento delle banche internazionali. Nuova immissione di debito: stanno immettendo una nuova, gigantesca valanga di denaro virtuale per tenere in piedi le banche. Non regge: è saltato nel 2007, salterà di nuovo nel 2012, 2013. Monti e Draghi stanno facendo il gioco della grandefinanza americana. Chi ha aperto questa grande crisi non è l’Europa, sono gli Stati Uniti. Tutto è cominciato con la crisi dei subprime, cioè dei mutui “facili”. Loro hanno creato questa gigantesca bolla di debito impagabile. Non mi fido di loro e delle loro 9 super-banche, perché loro sono i protagonisti di questo disastro. Monti e Draghi, i due Mario, sono i loro missi dominici: hanno preso il governo della Grecia, dell’Italia e della Banca Centrale Europea. Lo dico apertamente: di loro non mi fido.

La crisi è diventata molto grave e non è manovrata: ormai sfugge al controllo anche dei grandi potentati del mondo. E poi siamo molto ingannati, parliamoci chiaro: io non credo a una sola parola che è stata detta fino ad ora sulla crescita. In un editoriale, Eugenio Scalfari ha scritto che nella cartuccera di Monti ci sono due pallottole: il rigore e la crescita. In realtà ne ha una sola, perché la crescita non ci sarà. Il governo ci sta dicendo: adesso vi toccherà una dose da cavallo di sacrifici, dopodiché ci sarà la crescita. E qui casca l’asino, perché tutti i dati dicono che l’Europa non crescerà, e a lungo: siamo di fronte a un decennio di non-crescita. La Germania è dato allo 0,8%, cioè alla stagnazione. E se presenti agli italiani un programma che significa compressione del tenore di vita, riduzione dei salari, delle pensioni e della spesa sociale, tu avrai una situazione diEugenio Scalfarirecessione drammatica. Domanda: come fai a proporre agli italiani un programma di risanamento che prevede la recessione? C’è qualcosa che non funziona: qualcuno qui trucca le carte.

Costituitosi il 17 dicembre a Roma, il comitato No-Debito dice: noi questo debito non lo dobbiamo pagare, perché è un debito iniquo, illegale, che va totalmente rinegoziato. So bene che questa situazione deriva da diverse ragioni; non è tutta colpa della speculazione, ma anche della cattiva gestione delle finanze da parte delle classi dirigenti italiane. Ma le cifre sono chiare: 750 miliardi del nostro debito sono frutto della speculazione finanziaria internazionale. Se nel Trattato di Maastricht e in altri trattati europei, scrivi che – per finanziarsi – gli Stati devono fare ricorso obbligatoriamente al mercato finanziario internazionale, e se quel mercato è truccato, vuol dire che tu sei col cappio alla gola. E allora: se qualcuno ha truccato le cifre, per quale ragione dovrei pagare queste cifre truccate?

Quando so che Standard & Poor’s, che è quella che ci dà i voti, insieme a Moody’s e alle altre agenzie di rating è nelle mani delle grandi banche di investimento americane, come faccio a fidarmi del loro giudizio? Una delle cose che chiederei a Monti è questa: voglio sapere chi sono i nostri creditori. Vorrei un audit, cioè sedute pubbliche in cui una commissione di persone competenti ci dica esattamente nomi, cognomi e indirizzi di coloro che hanno nelle mani il nostro debito: a quel punto, potremmo decidere cosa èMario Montigiusto e cosa non è giusto pagare. Io sono assolutamente convinto che i 4/5 del nostro debito non solo legali: vanno rimessi in discussione.

In realtà siamo stati trasformati tutti in consumatori collettivi, in una situazione in cui il paradosso principale è che tutti ormai sono abituati a concepire la loro vita in termini di consumo, quando il consumo dovrà essere ridotto. Monti e la Goldman Sachs si sbagliano: l’Occidente non crescerà più. E’ finita, siamo arrivati ai limiti dello sviluppo. Mi baso sulle più importanti previsioni, come quelle elaborate molti anni fa dal Club di Roma: tutti i fattori principali che hanno costituito la crescita delle società occidentali negli ultimi due secoli stanno finendo, e finiranno la qui alla metà di questo secolo, forse anche prima. Allora, la necessità che abbiamo di fronte è questa: rieducare milioni di persone a una vita diversa da quella che hanno fatto fino ad ora. Non voglio fare allarmismo: una vita più sobria, con meno consumi, sarebbe una vita migliore: con meno inquinamento e meno malattie.

I ragazzi delle scuole sono perfettamente in grado di capire, solo che bisogna che qualcuno glielo dica. Una delle ragioni di questa “macchina dei sogni”, è che l’agenda viene fatta lontano da noi, ai piani alti della torre, tra persone che sanno come stanno le cose; i giornalisti dovrebbero essere i primi a difenderci, ma spesso non sono informati. Eppure dovrebbero essere decisivi in questa operazione. Quella che sta arrivando è una crisi multipla, quella finanziaria è solo la ciliegina sulla torta. In realtà c’è la crisi energetica, c’è la crisi dell’acqua, la crisi del clima. Stiamo arrivando molto in fretta a una fase di gravi modificazioni della nostra vita. Bisogna quindi fare in modo che molte persone, in un colpo solo, siano raggiunte da questo nuovo messaggio: ci vuole un impegno radicalmente nuovo del sistema dei media.

di Giorgio Cattaneo

(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nell’intervista televisiva realizzata il 12 dicembre da “Antenna Sud”).

18 dicembre 2011

Avanzando verso il precipizio





Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate.

Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”.

Mentre i delegati si riuniscono a Durban, un rapporto su alcuni recenti sondaggi realizzati dal Consiglio delle Relazioni Estere e dal Programma sull’Approccio Politico Internazionale (PIPA) rivela che “i cittadini di tutto il mondo e degli Stati Uniti chiedono che i governi diano una priorità maggiore ai problemi del riscaldamento globale e che appoggino con forza azioni multilaterali per soddisfare questa necessità”.

La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”.

Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.”

Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani.

Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia.

“L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza.

Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti.

Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.”

A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio.

Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili.

L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza.

L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.”

Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico.

John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti.

Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America.

Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”.

In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente.

Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale.

Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia.

Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale.

di Noam Chomsky

17 dicembre 2011

Democrazia e debito






Il Libro V della Politica di Aristotele descrive il ciclo eterno della transizione che vede le oligarchie trasformarsi in aristocrazie ereditarie, che finiscono per essere rovesciate da tiranni o sviluppare rivalità interne quando alcune famiglie decidono di "far entrare il popolo nell’arena politica" per poter arrivare a una democrazia, da cui riemerge una nuova oligarchia, seguita da una aristocrazia, e poi da una democrazia, e così via nel corso della storia.

Il debito è stato il principale motore di questi cambiamenti, sempre con nuovi colpi di scena e trasformazioni. Si polarizza ricchezza per creare una classe creditrice, la cui guida oligarchica finisce quando nuovi dirigenti (i "tiranni" di Aristotele) ottengono l'appoggio popolare, cancellando i debiti e ridistribuendo la proprietà o l’usufrutto dei terreni a favore dello Stato.

Fin dal Rinascimento, però, i banchieri hanno spostato il loro sostegno politico verso le democrazie. Tale azione non trova il suo fondamento nel sostegno a convinzioni politiche egualitarie e liberali, quanto nel desiderio di assicurare una maggiore sicurezza ai loro prestiti. Come James Steuart spiegò nel 1767, i prestiti alle case regnanti erano un affare privato, più che debiti davvero pubblici. Perché i debiti di un sovrano divenissero vincolanti per l'intera nazione, i rappresentanti eletti avrebbero dovuto applicare tasse per pagare le spese dovute agli interessi.

Offrendo ai contribuenti questo legame col governo, le democrazie olandesi e britanniche fornirono ai creditori una modalità di pagamento molto più sicura rispetto a quando i debiti dei re e dei prìncipi si estinguevano assieme a loro. Ma le recenti proteste sul debito avutesi in vari paesi - dall'Islanda alla Grecia e alla Spagna - suggeriscono che i creditori stanno avendo sempre meno sicurezza dalle democrazie. Chiedono austerità fiscale e anche svendite finalizzate alla privatizzazione.

Questo significa trasformare la finanza internazionale in una nuova modalità di attacco militare. Il suo obiettivo è lo stesso perseguito dalle campagne militari del passato: l’appropriazione di terre e risorse minerarie, infrastrutture comuni e anche tributi supplementari. Nel frattempo, le democrazie hanno chiesto agli elettori di esprimersi attraverso un referendum sulla possibilità di pagare i creditori con la vendita di beni pubblici e aumentare le tasse per imporre la disoccupazione, la diminuzione dei salari e la depressione economica. L'alternativa è quella di negoziare i debiti o addirittura annullarli, e di riaffermare il controllo regolamentare sul settore finanziario.

Nel vicino Oriente i governanti annullavano i debiti per preservare l’equilibrio economico

Gli interessi di mora sulle anticipazioni di beni o di denaro non sono stati creati per polarizzare le economie. Vennero introdotti all'inizio del terzo millennio a. C. nell’ambito di un accordo contrattuale tra sacerdoti e burocrati sumeri con i mercanti e gli imprenditori che lavoravano con l’amministrazione reale, e l'interesse al 20 per cento (che raddoppia il capitale in cinque anni) sarebbe dovuto corrispondere in modo congruo ai rendimenti per i viaggi commerciali a lunga distanza o per gli affitti di terreni e altri beni pubblici quali laboratori, barche e fabbriche di birra.

Quando questa pratica fu privatizzata dai percettori di tariffe e affitti, la "divina regalità" protesse i debitori agrari. Le leggi di Hammurabi (1750 a.C. circa) cancellavano i debiti nei periodi di inondazione o siccità. Tutti i governanti della dinastia babilonese festeggiavano il loro primo anno al trono cancellando i debiti agrari e facendone tabula rasa. La restituzione dei diritti sui terreni o sulle colture e l’affrancamento dalla schiavitù erano tesi a "ristabilire l'ordine" in uno stato ideale "originale" di equilibrio. Questa pratica sopravviveva nell'anno giubilare della legge mosaica descritta nel Levitico 25.

La logica era abbastanza chiara. Le società antiche avevano bisogno di eserciti per difendere la propria terra e ciò richiedeva la liberazione dei cittadini dalla schiavitù. Le leggi di Hammurabi protessero gli aurighi e gli altri combattenti dall’essere ridotti in servitù per i debiti e impedirono ai creditori di prendere i raccolti dei fittavoli dei terreni reali, di altri terreni pubblici e delle terre comuni a coloro che dovevano fornire forza lavoro o militare al palazzo.

In Egitto il faraone Bakenranef (720-715 a.C. circa, "Bocchoris" in greco) proclamò un'amnistia del debito e abolì la schiavitù dai debiti di fronte a una minaccia militare proveniente dall'Etiopia. Secondo Diodoro di Sicilia (I, 79, scritto tra il 40 e il 30 a. C.), egli stabilì che, se un debitore avesse contestato il credito, il debito si sarebbe annullato se il creditore non avesse potuto sostenere le proprie affermazioni mostrando un contratto scritto. (Sembra che i creditori sono sempre stati inclini a esagerare i saldi dovuti.) Il faraone ritenne che "i corpi dei cittadini dovrebbero appartenere allo Stato, di modo che possa avvalersi dei servizi che i cittadini gli devono, sia in tempo di guerra che di pace. Per questo motivo sarebbe assurdo per un soldato […] essere trascinato in prigione dal suo creditore per un prestito non pagato, e che l'avidità dei privati ​​cittadini possa in questo modo mettere a repentaglio la sicurezza di tutti".

Il fatto che i principali creditori del Vicino Oriente erano il palazzo e i templi rendeva politicamente semplice cancellare i debiti. È sempre facile annullare i debiti nei confronti di sé stessi. Anche gli imperatori romani bruciavano i registri fiscali per evitare una crisi. Ma era molto più difficile cancellare i debiti dovuti a creditori privati ​​quando la pratica degli interessi di mora si diffuse verso ovest tra le comunità del Mediterraneo intorno al 750 a. C.

Invece di consentire alle famiglie di colmare il divario tra entrate ed uscite, il debito diventava la leva principale per espropriare la terra, polarizzando le comunità tra oligarchie creditrici e clienti indebitati. In Giuda, il profeta Isaia criticava i creditori che "aggiungono casa a casa e uniscono un campo all'altro finché non resta più alcun spazio e si vive da soli sulla terra".

Il potere dei creditori e una crescita stabile raramente hanno proceduto di pari passo. La maggior parte dei debiti personali nel periodo classico era formata da piccole somme di denaro prestato a individui che vivevano a un livello di sussistenza e che non riuscivano a sbarcare il lunario. La confisca dei terreni e dei beni, nonché della libertà personale dei debitori costretti in schiavitù, erano divenute un male irreversibile. Dal VII secolo a. C. i "tiranni" emersero per rovesciare le aristocrazie di Corinto e delle altre ricche città greche, ottenendo il consenso popolare grazie alla cancellazione dei debiti. In modo meno tirannico, Solone fondò la democrazia ateniese nel 594 a. C., abolendo la servitù per debiti.

Ma le oligarchie riemersero e fecero appello a Roma quando i re di Sparta Agide, Cleomene e il loro successore Nabis cercarono di cancellare i debiti verso la fine del III secolo a. C. Essi furono uccisi e i loro sostenitori cacciati. È una costante politica della storia, fin dall'antichità, che gli interessi dei creditori siano contrapposti sia alla democrazia popolare, che al potere reale incaricato di limitare la conquista finanziaria della società, una conquista volta a sfruttare il pagamento dei crediti fruttiferi sul debito per assorbire la maggior parte possibile dei guadagni dei cittadini. Quando i fratelli Gracchi e i loro seguaci tentarono di riformare le leggi sul credito nel 133 a. C., la classe dominante senatoria reagì con violenza, uccidendoli e inaugurando un secolo di Guerra Sociale, terminata con la nomina di Augusto come imperatore nel 29 a. C.

L’oligarchia creditrice romana vince la guerra sociale, schiavizza la popolazione e porta il Medioevo.

Le cose si fecero più sanguinose all’estero. Aristotele non parlò della formazione degli imperi nel suo schema politico, ma la conquista straniera ha da sempre costituito un fattore importante nell’imposizione di debiti e i debiti di guerra sono sempre stati una delle principali cause di debito nei tempi moderni.

Roma fu una delle più feroci impositrici di debito, i cui creditori si espansero sino ad asfissiare l’Asia Minore, la sua più prospera provincia. Lo stato di diritto scompariva all’arrivo dei "cavalieri" pubblicani. Mitridate del Ponto capeggiò tre rivolte popolari e le popolazioni di Efeso e di altre città si ribellarono e uccisero circa 80.000 romani nell’88 a. C. L'esercito romano reagì e Silla impose un tributo di guerra di 20.000 talenti nell’84 a. C. Gli oneri connessi agli interessi fecero sì che questa somma risultasse moltiplicata di sei volte nel 70 a. C.

I maggiori storici latini, Livio, Plutarco e Diodoro, attribuirono la colpa della caduta della Repubblica all’intransigenza dei creditori, che poi portò a un secolo di guerra sociale segnata da numerosi omicidi politici nel periodo compreso tra il 133 ed il 29 a. C. I dirigenti populisti che cercarono di ottenere un seguito sostenendo le cancellazioni del debito (ad esempio, la congiura di Catilina nel 63-62 a. C.) furono uccisi. Nel II secolo d. C. circa un quarto della popolazione era ridotta in schiavitù. Nel V secolo l'economia di Roma era crollata, spoglia di denaro. La necessità di vivere di sussistenza riportò la popolazione in campagna.

I creditori trovano una ragione legalistica per sostenere la democrazia parlamentare

Quando i banchieri si risollevarono dopo le Crociate e il saccheggio di Bisanzio, e l'argento e l'oro fusi riiniziarono a circolare nei commerci dell’Europa occidentale, l'opposizione cristiana alla pratica bancaria degli interessi di mora fu sopraffatta dall’alleanza tra i prestigiosi istituti di credito (i Cavalieri Templari e gli Ospitalieri che avevano fornito credito durante le Crociate) e i clienti più importanti, i re: in primo luogo per pagare la Chiesa e sempre di più per finanziare le guerre. Ma i debiti reali rimanevano non pagati, quando i re morivano. I Bardi e i Peruzzi andarono in bancarotta nel 1345 quando Edoardo III ripudiò i suoi debiti di guerra. Le famiglie dei banchieri persero molto del denaro dato in prestito ai re Asburgo e Borbone che sedevano sui troni di Spagna, Austria e Francia.

Le cose cambiarono con la democrazia olandese, quando cercò di assicurarsi la libertà dagli Asburgo di Spagna. Il fatto che il loro parlamento potesse contrarre debito pubblico a tempo indeterminato per conto dello Stato abilitò i Paesi Bassi ad accendere prestiti per impiegare mercenari in un'epoca in cui la moneta e il credito erano il ​​nerbo della guerra. L'accesso al credito "è stato di conseguenza la loro arma più potente nella lotta per la libertà", ha scritto Richard Ehrenberg nel suo libro “Capitale e Finanza nell'età del Rinascimento” (1928): "Chi dava credito a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità del suo debitore e dalla sua volontà di pagare. Ciò risultava molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le aziende, per le associazioni di individui unite da interessi comuni. Secondo una legge generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con la sua persona che con la sua proprietà." [2]

L’obbiettivo finanziario del governo parlamentare era dunque quello di stabilire debiti che non fossero soltanto obblighi personali dei principi, ma che fossero veramente pubblici e vincolanti indipendentemente da chi occupasse il trono. È per questo che le prime due nazioni democratiche, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna dopo la sua rivoluzione del 1688, svilupparono i più attivi mercati di capitali e cominciarono a diventare leader tra le potenze militari. È ironico che sia stata la necessità di finanziare la guerra a promuovere la democrazia, formando una trinità simbiotica tra fare guerra, credito e democrazia parlamentare che è durata fino ad oggi.

In questo momento "la posizione giuridica del Re in quanto debitore era oscura, ed era incerto se i creditori avessero qualche possibilità per riottenere i soldi in caso di default." [3] Più la Spagna, l’Austria e la Francia divenivano dispotiche, maggiori difficoltà trovavano nel finanziare le loro avventure militari. Entro la fine del XVIII secolo l’Austria era stata lasciata "senza credito, e quindi senza molto debito", era il paese meno degno di credito e perciò peggio armato d’Europa, totalmente dipendente dai sussidi inglesi e dalle garanzie di prestito durante le guerre Napoleoniche.

La finanza si adegua alla democrazia, ma poi spinge per l’oligarchia

Mentre le riforme democratiche del XIX secolo riducevano il potere delle aristocrazie al controllo da parte dei parlamenti, i banchieri si muovevano flessibilmente per raggiungere un rapporto simbiotico con quasi ogni forma di governo. In Francia i seguaci di Saint-Simon promuovevano l'idea di banche che agissero come fondi comuni di investimento, concedendo credito in cambio di titoli azionari. Lo Stato tedesco fece un'alleanza con le grandi banche e l'industria pesante. Marx descrisse ottimisticamente un socialismo che avrebbe condotto a una finanza produttiva piuttosto che parassitaria. Negli Stati Uniti la regolamentazione dei servizi pubblici è andata di pari passo con la garanzia di profitti. In Cina Sun-Yat-Sen ha scritto nel 1922: "Ho intenzione di far confluire tutte le industrie nazionali della Cina in un grande fondo di proprietà del popolo cinese, finanziato con capitali internazionali per il reciproco vantaggio". [4]

La Prima Guerra mondiale vide gli Stati Uniti sostituire la Gran Bretagna tra i principali Paesi creditori ed entro la fine della Seconda Guerra mondiale avevano accantonato circa l’80 per cento dell’oro monetario del mondo. I suoi diplomatici determinarono l’agenda del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, concedendo crediti che portassero alla dipendenza commerciale, principalmente nei confronti degli Stati Uniti. I prestiti per finanziare il commercio e il pagamento del deficit sono stati oggetto di "condizioni" che hanno spostato la pianificazione economica nelle mani di oligarchie clientelari e dittature militari. La risposta democratica ai piani di austerità per pagare gli interessi sul debito non è stata, però, in grado di andare al di là delle proteste contro il FMI, almeno fino a quando l’Argentina non ha ripudiato il debito straniero.

Un simile austerità voluta dai creditori viene ora imposta in Europa dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dall’apparato burocratico dell'UE. I governi apparentemente socialdemocratici hanno compiuto azioni orientate al salvataggio delle banche piuttosto che al rilancio della crescita economica e dell'occupazione. Le perdite dovute agli errori nei prestiti e alle speculazioni delle banche sono state caricate sul bilancio statale, mentre nel contempo si ridimensionava la spesa pubblica, giungendo persino a vendere le infrastrutture. La risposta dei contribuenti bloccati dal debito è stata quella di montare proteste popolari che hanno avuto inizio in Islanda e in Lettonia nel gennaio 2009, e si sono diffuse quest’autunno in Grecia e in Spagna per manifestare contro il rifiuto dei governi di tenere un referendum su questi mortiferi salvataggi degli obbligazionisti stranieri.

Spostare la pianificazione dai rappresentanti eletti ai banchieri

Tutte le economie sono pianificate. Tradizionalmente questa è sempre stata una funzione del governo. Tralasciare questo ruolo con gli slogan del "libero mercato" significa metterlo nelle mani delle banche. Ma il privilegio della pianificazione del credito e dell'assegnazione delle risorse è ora ancora più centralizzato rispetto a quando questo privilegio era di competenza dei rappresentanti eletti. E a peggiorare le cose c’è anche la modalità finanziaria “mordi e fuggi”, che finisce per praticare della spicciola chirurgia finanziaria. Cercando il proprio tornaconto, le banche tendono a distruggere l'economia. Il surplus finisce per essere divorato dagli interessi e da altri oneri finanziari, senza lasciare entrate per nuovi investimenti di capitale o per la spesa sociale di base. Questo è il motivo per cui la rinuncia ad attuare un controllo politico sulla classe creditrice raramente ha comportato una crescita economica e della qualità della vita. La tendenza per cui i debiti crescono più rapidamente della capacità della popolazione di ripagarli è stata una costante di tutta la storia documentata. I debiti crescono esponenzialmente, assorbendo tutti i guadagni e riducendo la gran parte della popolazione a una condizione di schiavitù. Per ristabilire l'equilibrio economico, si chiede quello che durante l'Età del Bronzo nel Medio Oriente si otteneva grazie al fiat reale: l’annullamento della crescita eccessiva di debiti.

Più di recente, le democrazie hanno introdotto uno stato forte per poter tassare redditi e capitali e, quando richiesto, per depennare i debiti. Questo si può fare più facilmente quando è lo Stato stesso a creare moneta e credito. Si può fare meno facilmente quando le banche trasformano i loro profitti in potere politico. Quando le banche hanno il diritto di auto-regolarsi, nonché di porre il diritto di veto sull’azione del governo, l'economia viene distorta per consentire ai creditori di indulgere nelle scommesse speculative e nelle vere e proprie frodi che hanno segnato l'ultimo decennio. La caduta dell'impero romano mostra ciò che accade quando le richieste del creditore non ricevono risposta. In queste condizioni la rinuncia alla pianificazione e alla regolamentazione da parte del governo in favore dei settori finanziari spiana la strada alla schiavitù da debito.

Finanza contro governo; oligarchia contro democrazia

La democrazia comporta che le dinamiche finanziarie siano subordinate al perseguimento dell’equilibrio economico e della crescita, così come la tassazione dei redditi da rendita o il mantenimento di monopoli di base pubblici. Il non tassare o il privatizzare le rendite di proprietà le rende “libere” di fluire nelle banche, per concedere poi prestiti ancora più consistenti. Finanziata dallo sfruttamento del debito, la chirurgia finanziaria aumenta la ricchezza di coloro che godono di posizioni di rendita mentre indebita l'economia in generale. L'economia si contrae, chiudendo in negativo il bilancio.

Il settore finanziario ha ormai un’influenza tale da poter utilizzare queste circostanze per convincere i governi che l'economia crolla se non “si salvano le banche". In pratica questo significa consolidare il controllo delle banche sulla politica, che usano questo controllo in modo da polarizzare ulteriormente le economie. Il modello di riferimento è quanto successe nell’antica Roma, nel passaggio dalla democrazia all’oligarchia. In realtà, dando priorità ai banchieri e lasciando che la pianificazione economica sia dettata dall’UE, dalla BCE e dal FMI si concreta la minaccia di privare lo stato-nazione del potere di stampare moneta o denaro e di riscuotere le tasse.

Il conflitto che ne risulta fa scontrare gli interessi finanziari contro l’autodeterminazione nazionale. L'idea di una banca centrale indipendente che sia "il segno distintivo della democrazia" è un eufemismo per destinare le decisioni politiche più importante - la capacità di creare moneta e credito – al settore finanziario. Invece di lasciar decidere politicamente a un referendum popolare, il salvataggio delle banche organizzato dall'UE e dalla BCE rappresenta oggi la principale causa dell’aumento del debito nazionale. I debiti bancari privati ​​caricati sul bilancio del governo in Irlanda e Grecia sono stati trasformati in obblighi per il contribuente. Lo stesso vale per i 13 trilioni di dollari aggiunti nel settembre 2008 (compresi i 5,3 trilioni dei pessimi prestiti di Fannie Mae e Freddie Mac portati nel bilancio del governo, e 2 trilioni di dollari di swap tossici della Federal Reserve).

Tutto ciò è stato dettato dai delegati della finanza, definiti eufemisticamente tecnocrati. Designati dai lobbisti creditori, il loro ruolo è quello di calcolare quanta disoccupazione e depressione sia necessaria per racimolare un attivo sufficiente per ripagare i debiti che sono sui libri contabili. Ciò che rende questo calcolo autolesionista è il fatto che la contrazione economica - deflazione - rende il peso del debito ancora più insostenibile.

Né le banche né le autorità pubbliche (o i principali accademici, se è per questo) hanno preso in considerazione l’effettiva capacità dell'economia di ripagare i debiti, ossia di pagare senza avere una contrazione dell'economia. Attraverso i loro media e i think tank, hanno convinto le popolazioni che il modo per arricchirsi più rapidamente fosse quello di prendere in prestito denaro per acquistare immobili, azioni e obbligazioni quando aumentano di prezzo – essendo stati gonfiati dal credito bancario - e di porre fine alla tassazione progressiva della ricchezza imposta nel secolo scorso.

Per dire le cose senza usare mezzi termini, il risultato è stato la creazione di una economia spazzatura. Il suo scopo è quello di disabilitare i pesi e i contrappesi pubblici, postando il potere di pianificazione nelle mani dell'alta finanza con la convinzione che questo sia il più efficiente metodo di regolamentazione pubblica. Il governo e la pianificazione fiscale vengono accusati di tracciare "la strada per la servitù", quando invece al "libero mercato" controllato dai banchieri viene dato modo di tutelare interessi particolare in modo oligarchico e non democratico. I governi devono pagare debiti assunti non per difendere i propri paesi in guerra come nel passato, ma a beneficio degli strati più ricchi della popolazione che spostano così le proprie perdite sui contribuenti.

Il non prendere in considerazione i voleri degli elettori pone i debiti nazionali su un terreno instabile, politicamente e anche legalmente. I debiti imposti da leggi, da governi stranieri o agenzie finanziarie a fronte di una forte opposizione popolare possono essere non riconosciuti, come fecero gli Asburgo e altri regnanti in epoche passate. In mancanza di una convalida popolare, essi possono morire insieme al regime che li ha contratti. Nuovi governi potrebbero agire democraticamente per subordinare il settore bancario e finanziario a servizio dell'economia, non il contrario.

Intanto, potrebbero chiedere la reintroduzione della tassazione progressiva dei capitali e dei redditi, spostare il carico fiscale sui percettori di rendite. La ri-regolamentazione del settore e una via pubblica per il credito e i servizi bancari potrebbero rinnovare il programma socialdemocratico che sembrava ben avviato un secolo fa.

L’Islanda e l’Argentina sono gli esempi più recenti, ma si può guardare indietro alla moratoria sui debiti di guerra della Prima Guerra Mondiale degli stati europei nei confronti degli Stati Uniti (tali debiti furono rinegoziati) oppure alla moratoria sui debiti tedeschi di riparazione per la Prima Guerra Mondiale nel 1931. Sussiste un principio tanto matematico, quanto politico: i debiti che non possono essere ripagati, non lo saranno.

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Fonte: Democracy and Debt

di Michael Hudson

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA

16 dicembre 2011

Europa sentinella del debito




Una crisi economica, soprattutto come quella che negli ultimi tre anni ha investito l’intero pianeta, non è mai solo una crisi monetaria. Nel migliore dei casi, vanno in crisi i governi politici degli stati, nel peggiore si scatenano le guerre mondiali, nella media tragicità, a crollare sono le strutture inter e sovra-nazionali. È quello che sta accedendo in Europa. Investita dal crack del sistema finanziario americano del 2008, sono cominciati a saltare i governi delle nazioni più esposte (Spagna, Grecia, Italia in primis). Se per le guerre mondiali forse ci vorrà del tempo (ma gli spifferi iraniani stanno già soffiando forte) quello scaduto sembra essere il tempo dell’euro-moneta come collante e propulsione degli assetti politici del Vecchio Continente. Già la settimana scorsa la Gran Bretagna, che pure all’euro aveva rinunciato in partenza, tenendosi la sterlina, ha rifiutato di entrare nella Ue dei cosiddetti 27 (ora, 26) e adesso non appare del tutto campata in aria l’ipotesi che la stessa Germania possa tornare al marco. Accadesse questo, tutta l’architettura europea fin qui concepita, e più o meno bene (anzi: male) realizzata, crollerebbe lasciando spazio a scenari ben poco prevedibili.

In questo contesto di assoluta incertezza, tutto ciò che rimane fermo e indiscutibile sono le misure che si ritengono imprescindibili per far fronte ai debiti degli stati in crisi (economica ma non solo) e che vanno sotto il nome generico di quei cosiddetti “sacrifici” che sono la ricerca di nuove entrate fiscali e di tagli alla spesa pubblica. Ora, perfino se il quadro europeo, compreso quello che riguarda strettamente la sorte della moneta unica, fosse chiaro e solido sarebbe da dubitare dell’efficacia della formula dei “sacrifici”, ma siccome così non è, il sospetto che il “taglia e prendi” proposto e imposto per l’ennesima volta come soluzione unica per evitare il default, sia un viatico alla salvezza dal fallimento è doveroso. Soprattutto, quando il sistema che regge in piedi lo stato liberista è fondato sul principio del produrre consumo per aumentare la produzione e incrementare nuovamente il consumo. Non ci vuole un genio per capire che congelando i contratti salariali e le pensioni, introducendo nuove tasse, aumentando l’Iva e le accise su generi di prima necessità come la benzina, la liquidità da destinare al consumo non può che flettere in basso (deflazione) con conseguente recessione della produzione.

È un percorso talmente noto e matematico che a stupire è solo il fatto che venga puntualmente riproposto. O meglio: stupirebbe se ci attardassimo ancora a considerare chi adotta e impone queste misure interessato alla sorte degli stati sociali e non, come ormai dovrebbe essere palese, a mantenerne in vita un altro: quello del sistema finanziario che impera. Perché, se si leggono in questa ottica, le misure di “austerità” (il “taglia e prendi” di cui si dice sopra) hanno un senso logico e coerente: quello di cristallizzare stato ed individui nella condizione di debitori. Lo ha spiegato benissimo il prof. Christian Marrazzi, in un’intervista del 3 dicembre a Ida Dominijanni del Manifesto: «Il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».

La “macchina depressiva” della finanziarizzazione del debito è potente e i segnali di un suo possibile arresto tardano ad arrivare. A meno che non si vogliano leggere come segni di sua debolezza la discesa in campo in prima persona dei banchieri alla guida degli stati e la sospensione della politica, se non proprio della democrazia, come avvenuto in Grecia e Italia negli ultimi mesi. Ovvero: vi è da chiedersi se la esposizione politica di uomini già legati alla Goldman Sachs (Mario Monti) e alla Bce (Lucas Papademos), istituti con grossissime responsabilità nella crisi in corso, non sia il tentativo di mettere pezze a un tessuto che tende a lacerarsi. Lo stesso Marrazzi sostiene che «La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito» a causa della riduzione forzosa della liquidità del consumatore. È, in fondo, ancora un atto di fede nell’antica profezia marxiana del capitalismo che perirà per via delle sue contraddizioni.

Nel frattempo, però, persino alcune correzioni come la socializzazione dei debiti pubblici degli stati, l’introduzione della tobin-tax planetaria, l’istituzione del reddito minimo garantito di cittadinanza sembrano più un’aspirazione utopica che la ragionevole proposta di mediazione fra agenti della crisi e vittime della stessa. Se è così, figuriamoci quale accoglienza potrebbe avere una proposta che sostenesse di uscire da questo sistema dichiarando la moratoria del debito, pubblico e privato, la nazionalizzazione delle banche e l’integrazione del lavoratore nella gestione delle imprese produttive, in un quadro politico generale di democrazia diretta e partecipata.

di Miro Renzaglia