21 gennaio 2008

Se Cuffaro ha vinto, lo Stato ha perso!


La standing ovation della cosca politica che ha salutato la condanna del governatore siciliano Totò Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi e la sua decisione di restare al suo posto sono perfettamente coerenti con la “ola” parlamentare che, mercoledì mattina, ha accompagnato l’attacco selvaggio del cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella alla magistratura che aveva appena arrestato sua moglie e altri 22 suoi compari di partito. Così come con il tifo da stadio che ha osannato la sua signora interrogata ieri in Tribunale. Ma anche con il silenzio tombale che, nella politica e nella magistratura, è seguito alla vergognosa, ributtante decisione all’unanimità della sezione disciplinare del Csm: Luigi De Magistris condannato alla gravissima sanzione della censura e alla pena accessoria del trasferimento lontano da Catanzaro, con l’impossibilità di esercitare ancora le funzioni di pm. Insomma: Cuffaro resta, Mastella è atteso dal governo come il figliol prodigo dal padre buono che prepara il vitello grasso, la first lady ceppalonica dirige il consiglio regionale dagli arresti domiciliari, mentre l’unico che se ne deve andare è De Magistris.

In attesa delle motivazioni della sentenza del Csm, va notato che il procuratore generale che ha sostenuto l’accusa contro De Magistris è Vito D’Ambrosio, ex presidente Ds della Regione Marche, mentre il presidente della sezione disciplinare è l’ex democristiano ed ex margherito Nicola Mancino. Due politici del centrosinistra che giudicano un magistrato che indagava su politici del centrosinistra. E meno male che il Csm è l’organo di “autogoverno” (poi ci sono i membri togati, cioè i magistrati, che han votato unanimi a braccetto con i politici per cacciare il loro giovane collega: speriamo che un giorno si vergognino di quello che hanno fatto).

Anche per Totò Vasa Vasa bisogna attendere le motivazioni della sentenza per sapere come mai il Tribunale non gli abbia applicato l’aggravante della volontà di favorire Cosa Nostra. Ma non si può certo dire che sia stata una sorpresa. C’era chi l’aveva prevista fin dal 2004 e aveva fatto di tutto per scongiurarla: i pm “dissidenti” dalla linea dell’allora procuratore Piero Grasso e del suo fedelissimo aggiunto Giuseppe Pignatone. E cioè Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Guido Lo Forte e altri, tutti schierati con il pm che aveva avviato le indagini su Cuffaro: Gaetano Paci, il quale nel 2004 fu protagonista di un duro braccio di ferro con i colleghi che indagavano con lui ma che, in ossequio alla linea Grasso, non ne volevano sapere di contestare a Cuffaro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, peraltro affibbiato a tutti i suoi coimputati, quasi tutti arrestati proprio per quel delitto. Paci ne faceva anzitutto una questione di equità: come si può accusare Cuffaro di essere il capo della banda delle talpe che informavano i mafiosi e poi contestargli soltanto due episodi di favoreggiamento, accusando tutti gli altri (e arrestandone un buon numero) per concorso esterno? La legge è uguale per tutti o i politici sono più uguali degli altri? C’era poi una questione tecnica: avendo dichiarazioni di mafiosi pentiti, ampiamente riscontrate, sul fatto che fin dal 1991 Cuffaro si era messo nelle mani di Cosa Nostra, andando a chiedere al mafioso Angelo Siino i voti per la sua prima elezione all’Assemblea Regionale, era molto più facile dimostrare che il governatore è da oltre 15 anni un fiancheggiatore esterno della mafia. Per il favoreggiamento mafioso, invece, occorre provare che, quando avvertì - tramite i suoi uomini - il boss Giuseppe Guttadauro che aveva la casa piena di microspie, Cuffaro voleva favorire l’intera Cosa Nostra. Una prova difficilissima, anche perché è più logico pensare che Cuffaro intendesse favorire anzitutto se stesso: se Guttadauro avesse continuato a parlare (ascoltato dagli inquirenti), avrebbe messo nei guai alcuni fedelissimi del governatore che frequentavano abitualmente il boss. Paci pagò a carissimo prezzo l’aver tenuto la schiena dritta: il suo capo, cioè Piero Grasso, lo estromise brutalmente dalle indagini che lui stesso aveva avviato. Due anni dopo anche il pm Di Matteo sostenne la necessità di contestare a Cuffaro il concorso esterno, ma anche lui finì in minoranza e dovette lasciare il processo. I pm superstiti, cioè Pignatone, De Lucia e Prestipino, seguitarono caparbiamente a tener duro sulla linea morbida (intanto, per fortuna, il nuovo procuratore Francesco Messineo e l’aggiunto Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, aprivano un nuovo fascicolo sul governatore, per concorso esterno). E venerdì sono andati a sbattere contro il Tribunale, che li ha duramente sconfessati (anche se nessuno lo scrive).

Ora il procuratore Grasso fa come la volpe con l’uva: siccome non è riuscito ad afferrarla, dice che era acerba. Sul Corriere, afferma che la prova necessaria per condannare Cuffaro per favoreggiamento mafioso era “una prova diabolica, complicata da trovare”. Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Ingroia e altri colleghi da lui emarginati gliel’avevano detto per anni. Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, ci sono fior di sentenze dei giudici di Palermo che condannano personaggi ben più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. La verità è che la contestazione del favoreggiamento mafioso, ora derubricato a favoreggiamento non mafioso, ha di fatto salvato Cuffaro da un processo che poteva segnare la fine della sua carriera politica. Senza l’aggravante mafiosa, il governatore beneficia dell’indulto e i 5 anni di pena diventano 2. Niente carcere, dunque, in caso di condanna definitiva. C’è l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma non scatterà mai perché il reato cadrà in prescrizione - grazie alla legge ex Cirielli - tra un paio d’anni, probabilmente prima che si chiuda il processo d’appello. Così, paradossalmente, Totò pur condannato ha vinto la sua partita, mentre la vecchia Procura l’ha rovinosamente persa. Perché non ha voluto giocarla.
Salvatore Salvato

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21 gennaio 2008

Se Cuffaro ha vinto, lo Stato ha perso!


La standing ovation della cosca politica che ha salutato la condanna del governatore siciliano Totò Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi e la sua decisione di restare al suo posto sono perfettamente coerenti con la “ola” parlamentare che, mercoledì mattina, ha accompagnato l’attacco selvaggio del cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella alla magistratura che aveva appena arrestato sua moglie e altri 22 suoi compari di partito. Così come con il tifo da stadio che ha osannato la sua signora interrogata ieri in Tribunale. Ma anche con il silenzio tombale che, nella politica e nella magistratura, è seguito alla vergognosa, ributtante decisione all’unanimità della sezione disciplinare del Csm: Luigi De Magistris condannato alla gravissima sanzione della censura e alla pena accessoria del trasferimento lontano da Catanzaro, con l’impossibilità di esercitare ancora le funzioni di pm. Insomma: Cuffaro resta, Mastella è atteso dal governo come il figliol prodigo dal padre buono che prepara il vitello grasso, la first lady ceppalonica dirige il consiglio regionale dagli arresti domiciliari, mentre l’unico che se ne deve andare è De Magistris.

In attesa delle motivazioni della sentenza del Csm, va notato che il procuratore generale che ha sostenuto l’accusa contro De Magistris è Vito D’Ambrosio, ex presidente Ds della Regione Marche, mentre il presidente della sezione disciplinare è l’ex democristiano ed ex margherito Nicola Mancino. Due politici del centrosinistra che giudicano un magistrato che indagava su politici del centrosinistra. E meno male che il Csm è l’organo di “autogoverno” (poi ci sono i membri togati, cioè i magistrati, che han votato unanimi a braccetto con i politici per cacciare il loro giovane collega: speriamo che un giorno si vergognino di quello che hanno fatto).

Anche per Totò Vasa Vasa bisogna attendere le motivazioni della sentenza per sapere come mai il Tribunale non gli abbia applicato l’aggravante della volontà di favorire Cosa Nostra. Ma non si può certo dire che sia stata una sorpresa. C’era chi l’aveva prevista fin dal 2004 e aveva fatto di tutto per scongiurarla: i pm “dissidenti” dalla linea dell’allora procuratore Piero Grasso e del suo fedelissimo aggiunto Giuseppe Pignatone. E cioè Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Guido Lo Forte e altri, tutti schierati con il pm che aveva avviato le indagini su Cuffaro: Gaetano Paci, il quale nel 2004 fu protagonista di un duro braccio di ferro con i colleghi che indagavano con lui ma che, in ossequio alla linea Grasso, non ne volevano sapere di contestare a Cuffaro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, peraltro affibbiato a tutti i suoi coimputati, quasi tutti arrestati proprio per quel delitto. Paci ne faceva anzitutto una questione di equità: come si può accusare Cuffaro di essere il capo della banda delle talpe che informavano i mafiosi e poi contestargli soltanto due episodi di favoreggiamento, accusando tutti gli altri (e arrestandone un buon numero) per concorso esterno? La legge è uguale per tutti o i politici sono più uguali degli altri? C’era poi una questione tecnica: avendo dichiarazioni di mafiosi pentiti, ampiamente riscontrate, sul fatto che fin dal 1991 Cuffaro si era messo nelle mani di Cosa Nostra, andando a chiedere al mafioso Angelo Siino i voti per la sua prima elezione all’Assemblea Regionale, era molto più facile dimostrare che il governatore è da oltre 15 anni un fiancheggiatore esterno della mafia. Per il favoreggiamento mafioso, invece, occorre provare che, quando avvertì - tramite i suoi uomini - il boss Giuseppe Guttadauro che aveva la casa piena di microspie, Cuffaro voleva favorire l’intera Cosa Nostra. Una prova difficilissima, anche perché è più logico pensare che Cuffaro intendesse favorire anzitutto se stesso: se Guttadauro avesse continuato a parlare (ascoltato dagli inquirenti), avrebbe messo nei guai alcuni fedelissimi del governatore che frequentavano abitualmente il boss. Paci pagò a carissimo prezzo l’aver tenuto la schiena dritta: il suo capo, cioè Piero Grasso, lo estromise brutalmente dalle indagini che lui stesso aveva avviato. Due anni dopo anche il pm Di Matteo sostenne la necessità di contestare a Cuffaro il concorso esterno, ma anche lui finì in minoranza e dovette lasciare il processo. I pm superstiti, cioè Pignatone, De Lucia e Prestipino, seguitarono caparbiamente a tener duro sulla linea morbida (intanto, per fortuna, il nuovo procuratore Francesco Messineo e l’aggiunto Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, aprivano un nuovo fascicolo sul governatore, per concorso esterno). E venerdì sono andati a sbattere contro il Tribunale, che li ha duramente sconfessati (anche se nessuno lo scrive).

Ora il procuratore Grasso fa come la volpe con l’uva: siccome non è riuscito ad afferrarla, dice che era acerba. Sul Corriere, afferma che la prova necessaria per condannare Cuffaro per favoreggiamento mafioso era “una prova diabolica, complicata da trovare”. Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Ingroia e altri colleghi da lui emarginati gliel’avevano detto per anni. Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, ci sono fior di sentenze dei giudici di Palermo che condannano personaggi ben più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. La verità è che la contestazione del favoreggiamento mafioso, ora derubricato a favoreggiamento non mafioso, ha di fatto salvato Cuffaro da un processo che poteva segnare la fine della sua carriera politica. Senza l’aggravante mafiosa, il governatore beneficia dell’indulto e i 5 anni di pena diventano 2. Niente carcere, dunque, in caso di condanna definitiva. C’è l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma non scatterà mai perché il reato cadrà in prescrizione - grazie alla legge ex Cirielli - tra un paio d’anni, probabilmente prima che si chiuda il processo d’appello. Così, paradossalmente, Totò pur condannato ha vinto la sua partita, mentre la vecchia Procura l’ha rovinosamente persa. Perché non ha voluto giocarla.
Salvatore Salvato

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