30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia

25 novembre 2010

Il futuro delle banche





Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?

Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.

Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.

Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.

Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.

È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.

Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.

C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.

Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?

L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.

Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.

Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.

Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.

Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.

Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.

di Ilvio Pannullo

24 novembre 2010

Il capo del FMI: le nazioni europee devono cedere maggiore sovranità

Sono contrario a questo articolo ed ad il suo contenuto. La penso diametralmente opposto, ma non per questo, va messo in guardia da questi articoli così ...






Il capo del FMI ha detto che le nazioni europee devono cedere maggiore sovranità e dare maggiori poteri al centro al fine di evitare future crisi.

All’interno di quelle che possono risultare delle proposte controverse, il direttore generale del FMI Dominique Strauss-Kahn, ha invitato l’Unione Europea a spostare la responsabilità della disciplina fiscale e della riforma strutturale verso un corpo centrale che sia libero dalle influenze degli stati membri. In un discorso a Francoforte che affrontava la crisi del debito sovrano che sta inghiottendo l’Europa ancora una volta, egli ha detto:”Le ruote della cooperazione si spostano troppo lentamente. Il centro deve prendere l’iniziativa in tutte le aree chiave per raggiungere l’obiettivo comune dell’unione, specialmente nella politica finanziaria, economica e sociale. I paesi devono essere disposti a cedere maggiore autorità al centro.”

L’Europa è afflitta dalla crisi anche perché gli Stati membri ripongono troppa fiducia nelle banche e lasciano che le loro finanze pubbliche vadano fuori controllo. La Grecia è già stata salvata e l’Irlanda prevede di concordare un salvataggio di 100 miliardi di euro entro pochi giorni. E’ a rischio anche il Portogallo. Strauss-Kahn non ha nominato nessun singolo membro della zona euro, ma ha avvertito:”la crisi sovrana non è finita.” La riforma è di vitale importanza, ma, ha detto:”Le istituzioni dell’area non erano semplicemente all’altezza nel compito di gestire una crisi – anche la creazione di una soluzione temporanea si è rivelata un processo prolungato.” “Una soluzione è quella di spostare lontano dal Consiglio la principale responsabilità per l’applicazione della disciplina di bilancio e per le riforme strutturali principali. Ciò dovrebbe ridurre al minimo il rischio che i ristretti interessi nazionali interferiscano con l’effettiva attuazione delle norme comuni.”La consegna di maggiori poteri al centro porterebbe ad una maggiore perdita di sovranità per ciascuno degli Stati membri della zona euro.

La politica monetaria è già sotto controllo della Banca Centrale Europea, con i governi nazionali che mantengono il ruolo di autorità fiscali. Nelle proposte che probabilmente verranno drammatizzate nelle mani degli euroscettici nel Regno Unito e altrove, il Sig. Strauss Kahn ha raccomandato una maggiore armonizzazione fiscale e un più grande budget centrale. Ribadendo un nuovo tema comune, ha aggiunto che l’area euro ha bisogno di riequilibrarsi – con la riduzione della dipendenza dalle esportazioni da parte della Germania e la contrazione del disavanzo corrente nelle altre nazioni.Per gestire e monitorare i cambiamenti, egli ha sostenuto un più ampio budget centrale – finanziato da “strumenti più trasparenti a livello UE – come l’IVA europea o la tassazione del carbonio e dei prezzi.” Accanto a severi controlli fiscali, ha affermato che devono essere centralizzate le riforme del mercato del lavoro.

“L’area euro non può raggiungere il suo vero potenziale con un mosaico sconcertante e frammentato di mercati del lavoro”, ha detto. “Queste barriere aggravano la situazione delle divergenti fortune economiche che minacciano ad oggi l’area euro. E’ il momento di creare condizioni di parità per i lavoratori europei, in particolare nel settore della fiscalità del lavoro, nei benefici sociali e di portabilità e nella legislazione di tutela dell’occupazione.” Ha aggiunto:”L’unica risposta è una maggiore cooperazione e una maggiore integrazione.
di Philip Aldrick -

22 novembre 2010

Argentina: sfidare i creditori e farla franca







La recente morte di Néstor Kirchner è stata percepita come una grande perdita, non solo per l’Argentina, ma per la regione e per il mondo. Nel maggio 2003, Kirchner ha preso le redini di un Paese schiacciato dalla sua più grave crisi economica e crivellato dalla massa dei debiti. Il suo audace e riuscito faccia a faccia con il Fondo Monetario Internazionale ha mostrato al mondo come un paese possa sfidare il FMI e vivere per raccontarlo.

La morte improvvisa di Nestor Kirchner il 27 ottobre 2010, ha non solo privato l'Argentina di un notevole, anche se controverso leader, ma si è anche portata via una figura esemplare del Sud del mondo da quando ha cominciato a trattare con le istituzioni finanziarie internazionali.

Kirchner ha sfidato i creditori. Ancora più importante, li ha vinti.

Il crollo

Il significato completo delle mosse di Kirchner deve essere visto nel contesto dell'economia che ha ereditato con la sua elezione a presidente dell’Argentina nel 2003. Il paese era in bancarotta, con poco meno di 100 miliardi di dollari di debito. L'economia era in una fase di depressione, il suo prodotto interno lordo era diminuito di oltre il 16 per cento l'anno. La disoccupazione era pari al 21,5 per cento della forza lavoro, e il 53 per cento degli argentini era stato spinto al di sotto della soglia di povertà. Quello che, in termini di reddito pro capite, era stato il paese più ricco dell'America Latina era precipitato al di sotto del Perù e degli stati del Centro America.

La crisi dell’Argentina era causata dalla sua fideistica adesione al modello neoliberista. La liberalizzazione finanziaria, che è stata la causa immediata del crollo, era parte integrante di un più ampio programma di radicale ristrutturazione economica. L’Argentina era stata il coccolo, in stile latino, del manifesto della globalizzazione. Ha distrutto le sue barriere commerciali più rapidamente tra tutti gli altri paesi dell'America Latina e liberalizzato il proprio conto capitale più radicalmente. Ha poi fatto seguito con un ampio programma di privatizzazioni che ha comportato la vendita di 400 imprese statali – comprese compagnie aeree, compagnie petrolifere, dell’acciaio, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali, prodotti petrolchimici – un complesso responsabile per circa il sette per cento annuo del prodotto interno nazionale.

Col gesto più toccante della fede neoliberista, Buenos Aires aveva adottato la parità di cambio (col dollaro USA, ndt) e ha quindi volontariamente rinunciato a qualsiasi controllo significativo sull’impatto interno causato da un’economia globale volatile. Un sistema che legava i pesos alla quantità del subentrante di dollari in circolazione. Questa politica, come ha osservato lo scrittore del Washington Post Paul Blustein, ha consegnato il controllo della politica monetaria dell'Argentina ad Alan Greenspan, il capo della Federal Reserve in cima al mondo della fornitura dei dollari. Questa è stata, a tutti gli effetti, una dollarizzazione della moneta del Paese. Il dipartimento del Tesoro statunitense e il suo surrogato, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), hanno sia sollecitato che approvato tutte queste misure. Infatti, anche con la liberalizzazione finanziaria in discussione a seguito della crisi finanziaria asiatica del 1997-98, l'allora Segretario del Tesoro Larry Summers esaltava la svendita del settore bancario argentino come un modello per il mondo in via di sviluppo: "Oggi, in Argentina, il 50 per cento del settore bancario, il 70 per cento delle banche private, è completamente sotto controllo estero in confronto al 30 per cento del 1994. Il risultato è un mercato più ampio ed efficiente con investitori esteri che offrono maggiore sostegno alla solidità".

Mentre il dollaro saliva di valore, altrettanto faceva il peso e quindi la produzione di beni argentini non risultava più competitiva sia a livello globale che locale. D'altronde, alzare le barriere tariffarie sulle importazioni non era una scelta possibile a causa degli impegni che i tecnocrati avevano assunto per seguire il principio neoliberista del libero scambio. È in questo modo che, prendendo pesantemente a prestito per finanziare il disavanzo commerciale che si stava pericolosamente allargando, l’Argentina è entrata nella spirale del debito. E più aumentavano i prestiti, maggiori diventavano i tassi di interesse che dovevano crescere sempre più di pari passo all’allarme dei creditori internazionali. Il denaro ha quindi iniziato a fuggire dal paese. Il controllo straniero sul sistema bancario ha facilitato il deflusso dei tanto necessari capitali al punto che le banche sono diventate sempre più riluttanti a concedere prestiti, sia al governo che alle imprese locali.

Sostenuto dal FMI, il governo neoliberale ha tuttavia continuato a mantenere il paese nella camicia di forza che era diventata la convenzione monetaria tra dollaro e peso. Come ha osservato George Soros, l’Argentina "ha sacrificato praticamente tutto sull'altare del mantenimento della parità di cambio e degli obblighi internazionali".

La crisi si è aperta ad una velocità spaventosa alla fine del 2001, costringendo l'Argentina a correre dal FMI a chiedere fondi per onorare gli interessi sui debiti. Dopo aver fornito in precedenza dei prestiti al suo pargolo, questa volta il FMI glieli ha rifiutati, portando in tal modo al default il debito di 100 miliardi dollari del governo. Sono crollate aziende, le persone hanno perso i loro posti di lavoro, il capitale ha lasciato il paese, e le rivolte e le altre forme di protesta dei cittadini hanno rovesciato un governo dopo l'altro.

Entra in gioco Kirchner

Quando Kirchner vinse le elezioni per la presidenza nel 2003, ereditò un paese devastato. Dovendo mettere come primi gli interessi dei creditori o dare la priorità alla ripresa economica, la sua scelta era tra debito o rinascita. Kirchner offrì di saldare i debiti dell’Argentina, ma con un forte sconto: ne avrebbe cancellato il 70-75 per cento ripagando solo 25-30 centesimi per dollaro. Gli obbligazionisti alzarono le loro strida e pretesero che il FMI mettesse in riga Kirchner. Kirchner ribadì la sua offerta avvertendo gli obbligazionisti che questa era valida una sola volta e che o accettavano, o perdevano il diritto a qualsiasi rimborso. Disse ai creditori che per pagare i debiti non avrebbe tassato gli argentini in stato di povertà e li invitò a visitare i quartieri poveri del suo paese per "fare per primi l'esperienza della miseria". Di fronte alla sua determinazione, al FMI non rimase che assistere impotente mentre la maggioranza degli obbligazionisti dovettero rabbiosamente accettare le sue condizioni.

Kirchner aveva fatto sul serio non solo con i creditori, ma con lo stesso FMI. Agli inizi del 2004 disse al Fondo che l'Argentina non avrebbe rimborsato una rata di 3,3 miliardi dollari a meno che il FMI non avesse approvato un prestito a Buenos Aires di analogo importo. Il FMI sbatté le palpebre e dette quel denaro. Kirchner, nel dicembre 2005, aveva pagato del tutto il debito del Paese verso il FMI e cacciato fuori dell'Argentina il Fondo.

Per oltre due decenni, sin dall’inizio della crisi del debito del Terzo Mondo nei primi anni ‘80, i governi dei paesi in via di sviluppo avevano pensato di sfidare i loro creditori. C'erano stati un paio di tranquilli default nei pagamenti, ma Kirchner è stato il primo a minacciare pubblicamente i creditori di una sforbiciata unilaterale e ad ottenere qualcosa da quella promessa. Stratfor, la società di analisi del rischio politico, ha sottolineato le conseguenze del sua mossa da alta acrobazia: "Se l'Argentina è riuscita a sfuggire con successo dai suoi debiti privati e multilaterali – senza collassare economicamente mentre era esclusa dai mercati internazionali per aver ripudiato il suo debito – allora altri paesi potrebbe presto prendere quella stessa via. Questo potrebbe far finire la scarsa rilevanza istituzionale e geopolitica che ha il FMI".
E infatti, l’azione di Kirchner ha contribuito all'erosione della credibilità e del potere del Fondo nel bel mezzo di questo decennio.

Il riscatto

L'Argentina non è collassata. Al contrario, è cresciuta di un notevole 10 per cento all'anno per i successivi quattro anni. Questo non rappresenta un mistero. Una causa fondamentale dell'alto tasso di crescita è dovuto alle risorse finanziarie che il governo ha reinvestito nell'economia invece di inviarle fuori dal Paese per ripagare il debito. La storica iniziativa sul debito di Kirchner è stata accompagnata da altre mosse per liberarsi dalle catene del neoliberismo: l'adozione di un flottante gestito per il peso argentino, il controllo interno sui prezzi, le tasse sulle importazioni, il forte aumento della spesa pubblica e limiti sui tassi pubblici.

Kirchner non ha limitato le sue riforme all’ambito del Paese. Ha intrapreso iniziative di alto profilo con gli altri leader progressisti dell’America Latina, quali l'affossamento del Libero Commercio delle Americhe sponsorizzato da Washington e gli sforzi per realizzare una maggiore cooperazione economica e politica. Emblematico di questa alleanza è stato l’acquisto da parte del Venezuela di 2,4 miliardi dollari di bond argentini, cosa che ha permesso all'Argentina di pagare al FMI tutto il debito del paese.

Assieme a Hugo Chavez del Venezuela, a Lula del Brasile, a Evo Morales della Bolivia e a Rafael Correa dell'Ecuador, Kirchner è stato uno dei vari leader degni di nota che la crisi del neoliberismo abbia prodotto in America Latina. Mark Weisbrot, uno che ha afferrato la sua importanza per quel continente, scrive che ciò che Kirchner ha fatto "non gli ha in genere fatto guadagnare molto favore a Washington e negli ambienti economici internazionali, ma la storia lo ricorderà non solo come un grande presidente, ma anche come un eroe dell'indipendenza dell'America Latina".
di Walden Bello

21 novembre 2010

Memorie della ghigliottina



Gira voce che quella del 2 giugno 1992 a bordo del Panfilo Britannia di "Sua Maestà Regina d’Inghilterra” non sia stata altro che una mera "crociera" organizzata dai magnanimi finanzieri della City di Londra, notoriamente animati da cristiano spirito di solidarietà, e finalizzata a distogliere gli esausti "tecnici" (Draghi in primis) italiani dai gravosi compiti di governo e di fornir loro qualche piacevole momento di ristoro.

A questa idilliaca visione del recente passato italiano, le inguaribili, paradisiache "anime belle" (molti delle quali si definiscono anticapitaliste, antimperialiste, pacifiste e chi più ne ha più ne metta) all'amatriciana, vuoi per gonfiare ulteriormente il portafogli, vuoi perché non hanno potuto far altro che portare il cervello all'ammasso, sono solite affiancare una speculare demonizzazione nei riguardi di chiunque non accetti di bersi queste ignobili idiozie e perseveri nel puntare il dito contro il colossale progetto eversivo enfaticamente denominato “Mani pulite”, architettato e pianificato dai ben noti centri di potere d'oltreoceano e messo in pratica da uno sparuto manipolo di contractors nostrani; una congrega di burocrati bramosi di denaro e potere in combutta con una "sinistra" fresca di nietzschiana conversione al più buio nichilismo proprio di chi prende atto della "Morte di Dio", da costoro identificata con il fallimento del “comunismo reale” appena sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino. E' si, perché il collasso dell'Unione Sovietica aveva in un batter d'occhio reso obsoleta ed inadeguata un'intera classe politica nata, cresciuta ed invecchiata all'ombra del Muro e della logica bipolare che aveva regolato gli equilibri dei cinquant'anni precedenti. Quel che ci voleva era un radicale cambio della guardia, che investisse non solo e non tanto la spina dorsale italiana DC - PSI, ma soprattutto l'intera struttura assistenziale dello stato italiano, che deteneva un ingente patrimonio di aziende strategiche, istituti di credito, vie di comunicazione. La campagna giudiziaria denominata "Tangentopoli" nacque in risposta a questa specifica esigenza di "rinnovamento", e si badi bene che non si trattò semplicemente di un mero insieme di operazioni di giustizia, bensì di un preciso progetto eversivo in cui Borrelli, Di Pietro e compagnia ottennero "luce verde" ed ebbero buon gioco per innescare il devastante effetto domino che coinvolse quasi tutta la classe politica italiana (con l'eloquente eccezione del PC, guarda caso), attorno alla quale l'intera editoria italiana ("La Stampa" di Agnelli, "La Repubblica" di De Benedetti, il "Corriere della Sera" dei soliti poteri forti) aveva già da tempo iniziato a stringere una morsa mediatica di altrettanto impressionante vigore. Dal canto suo, l'opinione pubblica, distolta dalle personalissime vicende giudiziarie di questi ladri di polli, scoprì di colpo l'esistenza di uno stato clientelare regolato da un sistema endemicamente tangentizio, e preferì non interrogarsi troppo su ciò che stava accadendo, fermandosi al vacuo pettegolezzo. Così, nell'indifferenza più totale, i vari "tecnici" senza macchia né peccato ebbero vita facile quando, ad un solo mese dalla fatidica "crociera" sul Britannia, trovarono calda accoglienza nell'esecutivo ipertecnico guidato da Giuliano Amato, che si affrettò a varare un decreto (decreto numero 333) che disponeva che le compagnie fino a quel momento pubbliche ENI, ENEL, IRI (qui il signor Prodi fece la parte del leone) ed INA si trasformassero in società per azioni (SPA) e ad ingaggiare, per mezzo dell'indiscutibile cavaliere errante Carlo Azeglio Ciampi, uno strenuo braccio di ferro con il "filantropo" George Soros, il quale si stava attivando per mettere le proprie zampe speculatrici sulla lira, che dopo l'onerosissima ma (ci mancherebbe...) "accanita" difesa portata avanti da Ciampi subì puntualmente una svalutazione del 25% nei confronti del dollaro, nel tripudio generale degli scaltri burattinai di tutto il teatrino, che videro così concretizzarsi tra le proprie mani la possibilità di fare pieno bottino a prezzi di liquidazione. Il governo tecnico guidato da Lamberto Dini si distinse invece per aver ridotto al silenzio con metodi a dir poco farseschi quella pericolosissima Cassandra di Filippo Mancuso, che si era permesso di puntare il dito contro le superstar del pool milanese, accusandole di aver reiteratamente fatto strame delle più elementari garanzie costituzionali. Emblematico, in questo senso, fu il caso che vide come oggetto delle “attenzioni” del pool milanese il direttore dell'IRI Franco Nobili (successore di Romano Prodi), incarcerato in via preliminare per due mesi senza che gli venisse contestato alcun capo d'accusa. Le "anime belle" ovviamente invocheranno scandalizzate la becera dietrologia qualora ci si azzardi ad evidenziare il fatto che Nobili aveva dato incarico alla "Merrill Lynch" di esprimere una stima del valore della banca "Credito Italiano", in procinto di essere privatizzata, e che tale incarico fu revocato durante la sua detenzione e concesso ai famigerati e ben noti angioletti di "Goldman Sachs", che espressero a loro volta una stima di tre volte inferiore a quella data da "Merrill Lynch" (circa 10.000 miliardi di lire). In questi giorni si sta profilando la concreta possibilità che sarà un altro esecutivo tecnico a "salvare il salvabile", un governo, cioè, pieno zeppo dei vari Draghi, Padoa Schioppa, Monti e compagnia bella, gentaglia che ha fatto la spola tra FMI, BCE ed altre banche del sangue sempre a completa disposizione degli insaziabili vampiri che già a inizio anni Novanta avevano messo gli occhi, e non solo, sull'Italia. Riflettere per un attimo su tutto il "buono" che i tecnici avrebbero fatto per questo paese, è un’operazione psicologica particolare, in grado di instillare anche negli individui caratterizzati dal temperamento più tollerante e mansueto la speranza di un ritorno ai metodi tanto cari a quel gran rivoluzionario di Robespierre. Con una "Gioiosa macchina da guerra" consimile i risultati di certo non mancherebbero.


di Giacomo Gabellini

Destra e sinistra in pubblico, ma poi…



Qualche giorno fa ho pubblicato sul Giornale, una notizia con un retroscena insolito. Ricordate il Sexgate? E Newt Gingrich, l’implacabile accusatore repubblicano di Clinton? Ebbene ora apprendiamo che i due implacabili nemici di giorno, la sera, in gran segreto, erano complici. Si ritrovavano per… parlare di donne. Già, perché anche il moralista Gingrich aveva un’amante. E Clinton divenne il suo confidente, come potete leggere qui

L’episodio è divertente e anche un po’ boccaccesco, ma emblematico di un modo di fare politica che non è limitato alle questioni di letto. Negli Stati Uniti più ci si avvicina al vertice e più le distinzioni,. nella gestione del potere, tendono a scomparire, pur salvaguardando l’apparenza.

Ad esempio: sui grandi giornali, nessuno scrive che quasi tutti i ministri della Difesa e del Tesoro sono membri del Council on Foreign Relations, il quale è un rispettabile istituto di politica internazionale, ma anche la fucina delle élites politiche – e spesso anche economiche – degli Stati Uniti. Democratiche e repubblicane. Escono quasi tutti da lì, in posti di primissimo piano (si contano anche diversi presidenti), o come sherpa dietro le quinte. Politici, che, come Bill e Newt, di giorno litigano, ma la sera si ritrovano. A parlare. Non certo solo di donne.

E lo stesso schema si sta diffondendo in molti Paesi. Che cosa distingue i laburisti post Blair dai conservatori alla Cameron? Solo l’etichetta. In Spagna i popolari di Aznar dai socialisti alla Zapatero? Solo questioni etiche e religiose, ma su tutto il resto la continuità è evidente. E guardando ieri sera la trasmissione, noiosissima, di Fazio Fazio e del guru (senza spessore) Roberto Saviano, mi ha colpito la similitudine tra Bersani e Fini, nell’elencare i valori della destra e della sinistra. Un cumulo di banalità, che lascia intravedere una convergenza di fondo, sul modello di società, sull’immigrazione, e, naturalmente, sulle modalità di gestione (reali) del potere,

Tra i due vedo poche differenze sostanziali. Come avviene negli Usa. E’ un caso?

di Marcello Foa

20 novembre 2010

Sovranità, bombe atomiche e patacche


nuclear-bomb-testing

Tra due giorni il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo, sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.

Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e Italia. Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato assai scomodo. E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.

Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi, con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto dell'abbronzato presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.

Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11 settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes, l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale di Roma.

Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo per noi europei. Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali, precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad accorgersene) - trascinano giù anche noi.

Ma una cosa gli Stati Uniti continuano a fare ad alti livelli professionali: lo spettacolo. Ieri un sito abbastanza misterioso, avaaz.org (ma molto bene organizzato. Indirizzo New York, 857 Broadway, 3-rd floor) ha lanciato un appello drammatico, dicendo cose in parte vere (come quella dell'Italia prona), in parte stravaganti (come quella della Turchia, appunto, destinataria di quelle armi). E invitando a firmare un appello contro le bombe con la promessa che «se raggiungeremo le 25.000 firme ci daranno voce in Parlamento prima del vertice».

Qui la stranezza diventa meglio visibile. A chi daranno voce? Chi porterà quelle firme in Parlamento, visto che il link delle firme conduce in un altro posto virtuale e non alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica? E da quando in qua 25.000 firme garantiscono che verrà data voce a voci diverse da quelle del Potere? A noi risulta che il Potere non ha dato voce a ben più di 25.000 firme, in questo paese preso per i fondelli dal maggioritario e dalla legge porcata.

Insomma: una sollecitudine che puzza lontano un miglio di prestazioni da multi-level marketing, o di rivoluzioni colorate.

Restano, oltre le ingenuità e le truffe che navigano in rete, le bombe atomiche che si muoveranno sulle strade e sulle ferrovie europee alla ricerca di un nuovo parcheggio. Fino a che l'Europa tornerà ad essere un paese sovrano e non com'è stata ed è un conglomerato a sovranità limitata.


di Giulietto Chiesa

19 novembre 2010

In arrivo il governo dei banchieri


di Andrew Spannaus



Dietro allo scontro politico italiano lo spettro della "cura greca" chiesta dalla finanza internazionale

Un'analisi attenta della politica e della storia ci deve sempre portare a guardare i processi sottostanti, e non solo gli eventi particolari. Seguendo questo metodo socratico diventa facile capire come il subbuglio creatosi tra i partiti italiani nel periodo recente ha poco a che fare con gli scandali di Berlusconi e Fini, o anche con le posizioni (molto mutevoli) adottate dai leader di partito da un giorno ad un altro. La realtà è che da molti mesi è in atto un processo inteso a sostituire il governo italiano con un esecutivo tecnico, con il compito di attuare "riforme" urgenti che sono ben più difficili da attuare quando i partiti devono rispondere direttamente ai propri elettori.

Basta uno sguardo veloce oltre ai propri confini per capire la direzione generale. Mentre il governatore della BCE Trichet chiede tagli alle pensioni, e i "mercati" esigono credibilità nel ridurre i deficit di bilancio, sono stati annunciati piani di austerità in numerose nazioni.

I casi menzionati sulla stampa sono solo quelli dove le resistenze della popolazione sono più forti, per esempio il Regno Unito, la Francia, e la Grecia. Negli Stati Uniti la Commissione Fiscale istituita dal presidente Barack Obama ha cominciato ad annunciare le sue proposte di forti tagli alla spesa statale, a partire dalla Social Security (beninteso, difendendo la riduzione delle tasse per i più ricchi, ma senza considerare misure contro la speculazione finanziaria). Così, la situazione italiana va vista nel contesto di una spinta internazionale verso misure di austerità pesanti, guidata proprio da quegli interessi finanziari che da decenni vedono nello Stato l'ostacolo principale alla loro "libertà" di mercato.

Da questo punto di vista il Governo Berlusconi rappresenta un impedimento alle misure richieste. Certo, sotto la minaccia di un attacco al debito pubblico italiano l'esecutivo ha già seguito una linea di rigore, bloccando gli investimenti che sarebbero necessari per l'economia reale. Per non parlare del fatto che i margini di manovra dei governi nazionali sono stati ridotti di parecchio dalla normativa comunitaria, in cui si sono codificate le politiche in stile FMI che mirano a gestire i parametri monetari a prescindere dalla progressiva distruzione di ricchezza nell'economia reale. Ma la finanza internazionale non si fida di questo governo, e in modo particolare del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Si ricordi che l'Italia è stata tra i pochi paesi a non rifinanziare le banche durante la crisi degli ultimi tre anni; i cosiddetti Tremonti Bonds, che impongono dei vincoli a favore dell'investimento produttivo, non sono stati accettati dalle più grosse banche italiane, e hanno provocato uno dei tanti scontri pubblici tra il Ministro e Mario Draghi, che si è lamentato dell'interferenza politica nell'economia. E la cooperazione internazionale portata avanti dall'Italia in zone difficili - per esempio con Vladimir Putin e la Russia - dà non poco fastidio ai manipolatori della geopolitica a Washington, Londra e Bruxelles.

Gli alleati della City puntano alla formazione di un governo tecnico, per gestire l'emergenza. I partiti di opposizione ci pensino bene prima di accettare una tale soluzione nella speranza di cambiare la legge elettorale; basta ascoltare attentamente le dichiarazioni di alcuni politici di peso (anche tra le proprie file) per capire che i compiti di un esecutivo tecnico andrebbero ben oltre. Si parla di emergenza economica, dei governi tecnici degli anni Novanta come punto di riferimento, e di riforme strutturali per garantire la stabilità del paese.

Quali sarebbero queste riforme strutturali? Di nuovo, la lista è già stata resa pubblica: tagli pesanti alla previdenza sociale, la privatizzazione delle municipalizzate (bloccata dalla Lega Nord), e l'ulteriore liberalizzazione di ogni servizio pubblico. I nomi più accreditati sono quelli di Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo. Il modello economico del primo è ben noto: la correttezza delle regole per garantire che la speculazione mantenga il dominio sull'economia produttiva; per quanto riguarda il secondo, considerando come intende mettere le mani sui profitti dell'alta velocità ferroviaria - lasciando allo Stato gli investimenti e le perdite - si capisce dove ci porterebbe.

Una recente mozione presentata da Francesco Rutelli al Senato parla chiaro:

"... e) le liberalizzazioni sono urgenti, e va tradotta in disposizioni legislative la segnalazione al Governo del febbraio 2010 da parte dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, riguardante i mercati dei servizi pubblici (postali, ferroviari, autostradali e aeroportuali), energetici (carburanti e filiera del gas), bancario-assicurativi, degli affidamenti pubblici e di tutela dei consumatori. Vanno recepite nella Costituzione le norme dei Trattati UE sulla concorrenza. Vanno rafforzate le norme in materia di servizi pubblici locali: troppi monopoli stanno spingendo verso l'alto le tariffe... " (1-00314 del 6 ottobre 2010).

L'incessante richiesta di liberalizzazioni e tagli alla spesa pubblica è il marchio di fabbrica di coloro che hanno creato la crisi economica attuale, ben lontani dalle misure rooseveltiane che potrebbero innescare una ripresa vera. Niente investimenti pubblici, niente misure punitive contro la speculazione finanziaria, e niente protezioni per i settori produttivi. È la "mano invisibile" che porta via l'industria e i risparmi...

I politici di tutti gli schieramenti farebbero bene a guardare oltre quello che al momento sembra il loro interesse particolare, e chiedersi se non sarebbe ora di incentrare il dibattito pubblico sui contenuti veri dietro ai disegni portati avanti in questo momento: in primo luogo, per onestà, perché la popolazione ha il diritto di sapere le conseguenze vere degli scontri in atto; perché, inoltre, in questo modo, le forze che si ispirano ancora al bene comune potranno trovare il sostegno necessario per bloccare un progetto che sarebbe disastroso per il paese.

17 novembre 2010

11 settembre : Thermite, debunking e onere della prova

Da qualche tempo sta iniziando ad accadere nel dibattito sull’11 settembre la stessa cosa che è accaduta con il caso Kennedy: una volta esaurite la raccolta e la presentazione di tutti gli elementi che contraddicono la versione ufficiale, il dibattito si cristallizza su alcuni aspetti specifici della vicenda, ed apre una serie di discussioni secondarie che sono destinate a restare irrisolte per propria natura, mentre rischiano di allontanare l’attenzione dal problema centrale.

A causare questo problema sono spesso gli stessi “complottisti”, che nell’impeto di voler dimostrare a tutti i costi la propria tesi si spingono a dare spiegazioni che non gli competono, assumendosi in quel modo l’onere della prova. Fanno così un piacere immenso al debunker, che non vedeva l’ora di liberarsi da quel peso, e che può adesso scorrazzare liberamente su un territorio nel quale può finalmente giocare al contrattacco.

E’ stato il caso del “proiettile magico” nell’omicidio Kennedy, salito alla ribalta con il film “JFK” di Oliver Stone, e lo sta diventando nell’11 settembre la questione della thermite nelle Torri Gemelle.

Con il tentativo di dimostrare l’impossibilità del proiettile magico, infatti, Stone si è assunto l’onere della prova, e lo ha fatto anche – thank you very much - per conto di tutti gli altri “complottisti” del caso Kennedy. Da quel momento in poi la macchina mondiale del debunking ha avuto gioco facile, ...

... mostrando come la traiettoria del proiettile non fosse necessariamente impossibile. Altamente improbabile, certamente, ma non per questo impossibile, e come sappiamo al debunker "il pareggio" basta e avanza. Nel frattempo – guarda un pò che fortuna – il fronte ufficialista non ha più dovuto dimostrare come Oswald abbia potuto agire da solo, mentre uno sguardo più attento al Rapporto Warren rivela come in realtà l’omonima Commissione non ci abbia mai spiegato la precisa sequenza temporale con cui Oswald avrebbe esploso i tre colpi sparati dal Book Depository.

Io ritengo infatti assolutamente impossibile stabilire una qualunque sequenza temporale per i tre spari di Oswald (usando come riferimento il filmato di Zapruder), che riesca a riconciliare tutti gli elementi fattuali riscontrati in seguito in Dealey Plaza. (Chi è interessato ai particolari può leggere questa pagina).

Rimane quindi agli ufficialisti spiegare la precisa modalità con cui Oswald avrebbe agito, prima che qualunque “complottista” si assuma l'onere di dimostrare il contrario. Invece, da quando è stato sollevato il polverone del “magic bullet”, il dibattito si è spostato su quell’argomento, e da lì non si è più schiodato negli ultimi 20 anni. Un vero e proprio sogno, per i debunkers.

Ora la stessa cosa sta accadendo con la thermite nell’11 settembre. Stufi di raccogliere ed elencare indizi su indizi, molti “complottisti” stanno calcando la mano sulle dimostrazioni – lampanti, peraltro - fornite nel tempo da personaggi come Steven Jones o Niels Harritt, della presenza dei residui di thermite nelle polveri delle Torri Gemelle. Ma queste sono dimostrazioni complesse e articolate, e lungo il loro percorso è sempre possibile trovare una obiezione qualunque che renda la presenza della thermite da “dimostrata” a soltanto “probabile”. Di fatto, come abbiamo visto, i lavori di Harritt e di Jones non hanno sortito alcun effetto contro la versione ufficiale. Solo una massa enorme di polvere in più.

Perdersi quindi oggi in un dibattito secondario di quel tipo – per quanto possa sembrare allettante, vista la forza dell’evidenza presentata – equivale ad offrire al debunker occasioni infinite per ribattere su un terreno troppo vasto e labile per essere comunque conclusivo. Basta un filmato dei “Mythbusters” - come è accaduto di recente - nel quale si dice che la thermite non taglia l’acciaio, e la tua bella dimostrazione è andata a farsi benedire. Che poi i Mythbusters mentissero spudoratamente non conta nulla, a livello mediatico: il danno ormai è fatto, perchè ora dovresti dimostrare che "non è vero che non è vero", e la strada da qui in poi può soltanto allargarsi, invece di restringersi. Nel frattempo, resta ancora da spiegare la dinamica completa del presunto crollo gravitazionale dei tre edifici.

Sia chiaro, non sto invitando gli amici “complottisti” a desistere da questo tipo di discussioni, anzi, mi auguro che si battano con tutte le forze che hanno in corpo nei vari forum a cui partecipano (compreso il nostro). Vorrei però metterli in guardia su un pericolo molto serio come quella della compartimentalizzazione del dibattito – lo scopo ultimo di ogni debunker al mondo - invitandoli nel contempo a non perdere mai di vista “the big picture”.

Non siamo noi a dover spiegare come sono crollate le Torri Gemelle, ma è chi sostiene che siano cadute da sole a doverci dire come avrebbero fatto, viste le obiezioni che abbiamo sollevato in merito. Come sappiamo infatti, queste spiegazioni dettagliate nei rapporti del NIST non si trovano, esattamente come nel Rapporto Warren non si trova la spiegazione dettagliata di come Oswald avrebbe agito da solo.

Già ci hanno mentito in modo plateale, evitiamo almeno di fargli il piacere di non dover più rispondere alle nostre domande.




NOTA: Ho usato “thermite” (in inglese) in senso generico, riferendomi a tutte le variazioni di prodotto che si possono ottenere da quel composto chimico.

di Massimo Mazzucco

16 novembre 2010

Vivere felici in barba agli economisti…

Nei giorni scorsi ho scritto un articolo sul miracolo del North Dakota, l’unico Stato americano che ha rifiutato di aderire al Federal Reserve System. L’ho scritto seguendo il suggerimento di uno dei partecipanti più assidui di questo blog, Silvio, che sono lieto di ringraziare. Potete leggere l’articolo qui. . La morale é molto semplice: felicità è vivere senza la Fed. Ovvero: il North Dakota dipende da una Banca centrale indipendente, la quale, anziché rincorrere e propagare le chimere dei mercati finanziari, opera dal 1920 al servizio della comunità con risultati strepitosi: crescita sostenuta, nessun deficit, disoccupazione bassissima. Al punto che molti altri Stati come California e Florida vogliono imitarla.

Oltre a questo articolo ne segnalo un altro, uscito venerdì e che riguarda l’Italia. Ho incontrato Marco Fortis, che considero uno dei pochi economisti italiani capaci di sviluppare un pensiero autonomo e innovativo, il quale rivela che le aziende italiane sono seconde solo alla Germania in termini di competitività nel commercio mondiale e dunque davanti alla Cina, dato questo sconosciuto ai più. Inoltre Fortis sostiene che, in tema di riforme per l’Italia, sia sbagliato continuare a inseguire modelli stranieri, in quanto da un lato sono illusori (vedi capitalismo anglosassone basato sul debito privato), dall’altro non pertinenti (vedi capitalismo tedesco caratterizzato dalla presenza di diversi grandi gruppi, che invece mancano in Italia). Secondo Fortis per rilanciare l’Italia bisogna predisporre delle riforme che consentano di valorizzare i suoi punti di forza (quello che lui chiama quarto capitalismo votato all’export), con scelte ad hoc e all’occorrenza anticonformiste.

E’ una tesi di buon senso che condivido senza esitazione e di cui in parte avevamo parlato anche su questo blog.

Il messaggio é: per prosperare davvero bisogna avere la forza di non lasciarsi lavare il cervello dalla propaganda e di trovare formule adatte alla propria realtà, infischiandosene dei moniti e dei latrati della maggior parte degli economisti.

Come ha fatto il North Dakota. E come può, anzi deve, fare anche l’Italia.

O sbaglio?

di Marcello Foa

15 novembre 2010

Dobbiamo mettere in galera i banchieri, o l’economia non si riprenderà







Come hanno ripetutamente detto economisti come William Black e James Galbraith, non possiamo risolvere la crisi economica se non chiudiamo in galera i criminali che hanno commesso le frodi.
E l’economista premio Nobel George Akerlof ha dimostrato che la mancata punizione dei criminali dai colletti bianchi – ma invece il loro salvataggio – crea incentivi a commettere ancora altri reati economici in futuro, e all’ulteriore distruzione della economia.

Anche Stiglitz, premio Nobel per l’economia, dichiara a Yahoo Daily Finanza il 20 ottobre:
“Questo è un punto veramente importante da capire, dal punto di vista della nostra società.

L’ordinamento giuridico si suppone essere la codificazione delle nostre norme e credenze, cose di cui abbiamo bisogno per far sì che il nostro sistema possa funzionare. Se questo ordinamento viene considerato come una forma di sfruttamento, allora la fiducia nell’intero sistema comincia a mancare. E questo è proprio il problema che si sta verificando.


Nei prestiti auto stanno andando avanti un sacco di pratiche predatorie. Perché deve essere OK effettuare operazioni di prestito a rischio nelle automobili e non nel mercato dei mutui? C’è un qualche principio che lo giustifica? Sappiamo tutti la risposta. No, non c’è nessun principio. Si tratta di soldi. Si tratta di contributi elettorali, lobbying, porte girevoli, tutto questo genere di cose. Il sistema è destinata a favorire effettivamente questo genere di cose, anche con le multe. [riferendosi all' ex CEO di Countrywide Angelo Mozillo, che recentemente ha pagato decine di milioni di dollari in multe, una piccola frazione di quello che ha effettivamente guadagnato, perché ha guadagnato centinaia di milioni.]

Conosco molte persone che dicono che è uno scandalo il fatto che abbiamo avuto più responsabilità negli anni ’80 con la crisi S & L, rispetto a quella che stiamo dimostrando oggi. Sì, noi li multiamo, e qual è la grande lezione? Comportati male, e il governo ti prenderà il 5% o il 10% del tuo maltolto, ma tu te ne starai bene accomodato con diverse centinaia di milioni di dollari ancora disponibili dopo aver pagato le multe, che sembrano molto grandi per gli ordinari standard, ma risultano molto ridotte rispetto all’ammontare che sei stato in grado di incassare.

Così il sistema è impostato in modo che anche se sei colto sul fatto, la pena è comunque una piccolezza rispetto a quello con cui te ne potrai andare a casa.
La multa è solo un costo del business. E’ come un bel parcheggio. Talvolta si prende la decisione di parcheggiare pur sapendo che si potrebbe prendere la multa, perché a svoltare l’angolo per parcheggiare meglio si perde troppo tempo.
Penso che dobbiamo andare a fare quello che abbiamo fatto con S & L, ed effettivamente mettere molta di questa gente in carcere. Assolutamente. Questi non sono solo reati dei colletti bianchi o piccoli incidenti. Ci sono state vittime. Questo è il punto. Ci sono state vittime in tutto il mondo.

Abbiamo forse fiducia che questa gente, che ci ha messo nel caos, abbia davvero cambiato idea? In realtà possiamo avere una discreta convizione che non siano cambiati affatto. Ho assistito ad alcuni interventi in cui è stato detto “Nulla è stato veramente sbagliato. Le cose non sono andate molto bene. Ma la nostra comprensione delle questioni è ora abbastanza approfondita”. Se pensano questo, allora siamo veramente in un brutto guaio.

Ci sono molti modi per dissuadere le persone dal commettere reato. Gli economisti fanno leva sul concetto degli incentivi. Le persone a volte hanno un incentivo a comportarsi male, perché imbrogliando possono fare più soldi. Se il nostro sistema economico deve funzionare, allora dobbiamo fare in modo che ciò che si guadagna con la truffa sia controbilanciato da un sistema di sanzioni.

Ed è per questo, per esempio, che nella nostra legge antitrust spesso non si beccano le persone che commettono reato, ma quando lo si fa, ci sono risarcimenti elevatissimi. Si paga tre volte l’importo del danno che si produce. Questo è un forte deterrente. Purtroppo, quello che stiamo facendo adesso, e nei più recenti crimini finanziari, è accontentarsi di frazioni – frazioni! – dei danni diretti, e addirittura una frazione ancor più piccola del danno totale della società. Vale a dire, il settore finanziario ha realmente fatto crollare l’economia mondiale e, se si includono tutti i danni collaterali, in realtà si tratta di migliaia di miliardi di dollari. Ma c’è un’accezione più ampia di danni collaterali che io penso che non sia stata realmente considerata. E’ la fiducia nel nostro sistema giuridico, nel nostro Stato di diritto, nel nostro sistema di giustizia. Quando si menziona il “Patto di fedeltà e obbedienza” si intende con questo “giustizia per tutti”. La gente non è più sicura che ci sia giustizia per tutti. Qualcuno e’ fermato per un reato minore di droga, e viene chiuso in carcere per molto tempo. E invece, per questi cosiddetti delitti dei colletti bianchi, che non sono senza vittime, quasi nessuno di queste persone, proprio quasi nessuno di loro, va in prigione.

Lasciatemi fare un altro esempio di una parte del nostro sistema giuridico molto guasta e mal funzionante, e che ha contribuito alla crisi finanziaria.
Nel 2005, abbiamo approvato una riforma della legge fallimentare. E ‘stata una riforma voluta dalle banche. E’ stata progettata per permettere loro di fare prestiti a rischio a persone ignare di come funziona, e quindi fondamentalmente per strangolarli. Prosciugarli. Avremmo dovuto chiamarla “la nuova legge sulla servitù a contratto”. Perché questo è quello che ha fatto. Lasciatemi solo dirvi quanto è cattiva questa legge. Non credo che gli americani capiscano quanto sia cattiva. Diventa davvero molto difficile per le persone ripagare i loro debiti. In passato un principio basilare in America era che la gente ha diritto a ricominciare. Le persone possono commettere errori, soprattutto quando sono depredate. E così si dovrebbe essere in grado di ripartire di nuovo. Prendi un foglio bianco. Paga quello che puoi e ricomincia. Naturalmente, se lo fai più e più volte questa è una storia diversa. Ma almeno quando si ha a che fare con questi istituti di credito predatori, si dovrebbe essere in grado di ottenere un nuovo inizio. Ma le banche hanno detto: “No, no, non si può scaricare il debito”, o non è possibile scaricarlo molto facilmente. Si tratta di servitù a contratto.
E noi critichiamo altri paesi per avere servitù a contratto di questo tipo, lavoro coatto. Ma noi in America lo abbiamo istituito nel 2005, con quasi nessuna discussione sulle conseguenze. Ciò che ha provocato è stato di spingere le banche ad impegnarsi in pratiche di prestito anche peggiori.

Le banche vogliono far finta che non concedevano crediti inesigibili. Non vogliono ammettere la realtà. Il fatto è che loro hanno opportunamente cambiato i principi contabili, in modo che i prestiti che sono inesigibili, in cui le persone non pagano quello che devono pagare, sono trattati come se fossero mutui con buone prestazioni.
Così tutta la strategia delle banche è stata quella di nascondere le perdite, cavarsela e ottenere che il governo mantenga i tassi di interesse molto bassi. Il risultato di questo, per tutto il tempo che continueremo con questa strategia, è che ci vorrà molto tempo prima che l’economia possa riprendersi ….
di Joseph Stiglitz

09 novembre 2010

Il sogno americano si trasforma in incubo

L'America non fa che sognare anche se adesso il sogno si è trasformato in un incubo. Il primo presidente di colore non fa sognare più l'America ma è diventato la causa dei suoi incubi. Disoccupazione al 10%, crescita anemica, una riforma sanitaria che non piace nè ai ricchi nè ai poveri perché costruita su complicatissimi compromessi politici, una guerra in Afghanistan che non si vince ne si vincerà. Queste, agli occhi degli americani, le conseguenze della politica di Obama. Nessuno, neppure la stampa che da giorni dà addosso al presidente, riflette che in due anni si può fare ben poco, sia nel bene, sia nel male, e che gran parte del cataclisma economico che ancora affligge l'America Obama l'ha ereditato.

È vero, l'ha gestito male, ma si trattava e si tratta ancora di una crisi di dimensioni "bibliche".

Unico vero errore, forse, è stato spingere al massimo la riforma sanitaria in un momento in cui al Paese serviva ben altro.

L'ostilità nei confronti dell'ex messia Obama nasce dal fatto che l'America è da sempre vittima di illusioni politiche. Il divario tra Washington e Wall Street da una parte ed il resto del Paese dall'altra è enorme e viene regolarmente colmato dalla propaganda politica. Come l'americano medio sa pochissimo sulla riforma sanitaria e sulle vere responsabilità del presidente, così sa poco o nulla sulla distribuzione del reddito a casa sua. Ce lo racconta uno studio condotto da due psicologi americani, Dan Ariely della Duke University e Michael Norton dell'Harvard Business School. Gli americani pensano di vivere in un Paese dove il 20% più ricco della popolazione controlla il 59% della ricchezza, quando invece i ricchi si spartiscono l'89%; sono anche convinti che il 20% dei più poveri usufruisca del 3,7% quando la cifra esatta è un misero 0.1%.
Ma non basta, tutti ancora credono che questo sia il Paese delle grandi opportunità. In realtà è vero il contrario. Secondo uno studio dell'economista Miles Corak dell'università di Ottawa in Canada, gli Stati Uniti sono i penultimi al mondo, dopo il Regno Unito, in termini di mobilità salariale tra le generazioni. Se nasci povero rimani povero.

Quando poi si chiede agli americani quale debba essere la ripartizione giusta sognano quella dei paesi scandinavi: i più ricchi dovrebbero avere il 32% ed i più poveri il 10%. Nessuno però è disposto a pagare più tasse per ottenere questa distribuzione. Quando finalmente l'America si risveglierà sarà difficile accettare la realtà.

di Loretta Napoleoni

08 novembre 2010

La dittatura della pubblicità

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Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.

Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.

Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.

Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.

La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta.

I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.

La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.

La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.

di Goffredo Fofi

07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



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Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni

04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro

30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia

25 novembre 2010

Il futuro delle banche





Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?

Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.

Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.

Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.

Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.

È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.

Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.

C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.

Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?

L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.

Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.

Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.

Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.

Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.

Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.

di Ilvio Pannullo

24 novembre 2010

Il capo del FMI: le nazioni europee devono cedere maggiore sovranità

Sono contrario a questo articolo ed ad il suo contenuto. La penso diametralmente opposto, ma non per questo, va messo in guardia da questi articoli così ...






Il capo del FMI ha detto che le nazioni europee devono cedere maggiore sovranità e dare maggiori poteri al centro al fine di evitare future crisi.

All’interno di quelle che possono risultare delle proposte controverse, il direttore generale del FMI Dominique Strauss-Kahn, ha invitato l’Unione Europea a spostare la responsabilità della disciplina fiscale e della riforma strutturale verso un corpo centrale che sia libero dalle influenze degli stati membri. In un discorso a Francoforte che affrontava la crisi del debito sovrano che sta inghiottendo l’Europa ancora una volta, egli ha detto:”Le ruote della cooperazione si spostano troppo lentamente. Il centro deve prendere l’iniziativa in tutte le aree chiave per raggiungere l’obiettivo comune dell’unione, specialmente nella politica finanziaria, economica e sociale. I paesi devono essere disposti a cedere maggiore autorità al centro.”

L’Europa è afflitta dalla crisi anche perché gli Stati membri ripongono troppa fiducia nelle banche e lasciano che le loro finanze pubbliche vadano fuori controllo. La Grecia è già stata salvata e l’Irlanda prevede di concordare un salvataggio di 100 miliardi di euro entro pochi giorni. E’ a rischio anche il Portogallo. Strauss-Kahn non ha nominato nessun singolo membro della zona euro, ma ha avvertito:”la crisi sovrana non è finita.” La riforma è di vitale importanza, ma, ha detto:”Le istituzioni dell’area non erano semplicemente all’altezza nel compito di gestire una crisi – anche la creazione di una soluzione temporanea si è rivelata un processo prolungato.” “Una soluzione è quella di spostare lontano dal Consiglio la principale responsabilità per l’applicazione della disciplina di bilancio e per le riforme strutturali principali. Ciò dovrebbe ridurre al minimo il rischio che i ristretti interessi nazionali interferiscano con l’effettiva attuazione delle norme comuni.”La consegna di maggiori poteri al centro porterebbe ad una maggiore perdita di sovranità per ciascuno degli Stati membri della zona euro.

La politica monetaria è già sotto controllo della Banca Centrale Europea, con i governi nazionali che mantengono il ruolo di autorità fiscali. Nelle proposte che probabilmente verranno drammatizzate nelle mani degli euroscettici nel Regno Unito e altrove, il Sig. Strauss Kahn ha raccomandato una maggiore armonizzazione fiscale e un più grande budget centrale. Ribadendo un nuovo tema comune, ha aggiunto che l’area euro ha bisogno di riequilibrarsi – con la riduzione della dipendenza dalle esportazioni da parte della Germania e la contrazione del disavanzo corrente nelle altre nazioni.Per gestire e monitorare i cambiamenti, egli ha sostenuto un più ampio budget centrale – finanziato da “strumenti più trasparenti a livello UE – come l’IVA europea o la tassazione del carbonio e dei prezzi.” Accanto a severi controlli fiscali, ha affermato che devono essere centralizzate le riforme del mercato del lavoro.

“L’area euro non può raggiungere il suo vero potenziale con un mosaico sconcertante e frammentato di mercati del lavoro”, ha detto. “Queste barriere aggravano la situazione delle divergenti fortune economiche che minacciano ad oggi l’area euro. E’ il momento di creare condizioni di parità per i lavoratori europei, in particolare nel settore della fiscalità del lavoro, nei benefici sociali e di portabilità e nella legislazione di tutela dell’occupazione.” Ha aggiunto:”L’unica risposta è una maggiore cooperazione e una maggiore integrazione.
di Philip Aldrick -

22 novembre 2010

Argentina: sfidare i creditori e farla franca







La recente morte di Néstor Kirchner è stata percepita come una grande perdita, non solo per l’Argentina, ma per la regione e per il mondo. Nel maggio 2003, Kirchner ha preso le redini di un Paese schiacciato dalla sua più grave crisi economica e crivellato dalla massa dei debiti. Il suo audace e riuscito faccia a faccia con il Fondo Monetario Internazionale ha mostrato al mondo come un paese possa sfidare il FMI e vivere per raccontarlo.

La morte improvvisa di Nestor Kirchner il 27 ottobre 2010, ha non solo privato l'Argentina di un notevole, anche se controverso leader, ma si è anche portata via una figura esemplare del Sud del mondo da quando ha cominciato a trattare con le istituzioni finanziarie internazionali.

Kirchner ha sfidato i creditori. Ancora più importante, li ha vinti.

Il crollo

Il significato completo delle mosse di Kirchner deve essere visto nel contesto dell'economia che ha ereditato con la sua elezione a presidente dell’Argentina nel 2003. Il paese era in bancarotta, con poco meno di 100 miliardi di dollari di debito. L'economia era in una fase di depressione, il suo prodotto interno lordo era diminuito di oltre il 16 per cento l'anno. La disoccupazione era pari al 21,5 per cento della forza lavoro, e il 53 per cento degli argentini era stato spinto al di sotto della soglia di povertà. Quello che, in termini di reddito pro capite, era stato il paese più ricco dell'America Latina era precipitato al di sotto del Perù e degli stati del Centro America.

La crisi dell’Argentina era causata dalla sua fideistica adesione al modello neoliberista. La liberalizzazione finanziaria, che è stata la causa immediata del crollo, era parte integrante di un più ampio programma di radicale ristrutturazione economica. L’Argentina era stata il coccolo, in stile latino, del manifesto della globalizzazione. Ha distrutto le sue barriere commerciali più rapidamente tra tutti gli altri paesi dell'America Latina e liberalizzato il proprio conto capitale più radicalmente. Ha poi fatto seguito con un ampio programma di privatizzazioni che ha comportato la vendita di 400 imprese statali – comprese compagnie aeree, compagnie petrolifere, dell’acciaio, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali, prodotti petrolchimici – un complesso responsabile per circa il sette per cento annuo del prodotto interno nazionale.

Col gesto più toccante della fede neoliberista, Buenos Aires aveva adottato la parità di cambio (col dollaro USA, ndt) e ha quindi volontariamente rinunciato a qualsiasi controllo significativo sull’impatto interno causato da un’economia globale volatile. Un sistema che legava i pesos alla quantità del subentrante di dollari in circolazione. Questa politica, come ha osservato lo scrittore del Washington Post Paul Blustein, ha consegnato il controllo della politica monetaria dell'Argentina ad Alan Greenspan, il capo della Federal Reserve in cima al mondo della fornitura dei dollari. Questa è stata, a tutti gli effetti, una dollarizzazione della moneta del Paese. Il dipartimento del Tesoro statunitense e il suo surrogato, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), hanno sia sollecitato che approvato tutte queste misure. Infatti, anche con la liberalizzazione finanziaria in discussione a seguito della crisi finanziaria asiatica del 1997-98, l'allora Segretario del Tesoro Larry Summers esaltava la svendita del settore bancario argentino come un modello per il mondo in via di sviluppo: "Oggi, in Argentina, il 50 per cento del settore bancario, il 70 per cento delle banche private, è completamente sotto controllo estero in confronto al 30 per cento del 1994. Il risultato è un mercato più ampio ed efficiente con investitori esteri che offrono maggiore sostegno alla solidità".

Mentre il dollaro saliva di valore, altrettanto faceva il peso e quindi la produzione di beni argentini non risultava più competitiva sia a livello globale che locale. D'altronde, alzare le barriere tariffarie sulle importazioni non era una scelta possibile a causa degli impegni che i tecnocrati avevano assunto per seguire il principio neoliberista del libero scambio. È in questo modo che, prendendo pesantemente a prestito per finanziare il disavanzo commerciale che si stava pericolosamente allargando, l’Argentina è entrata nella spirale del debito. E più aumentavano i prestiti, maggiori diventavano i tassi di interesse che dovevano crescere sempre più di pari passo all’allarme dei creditori internazionali. Il denaro ha quindi iniziato a fuggire dal paese. Il controllo straniero sul sistema bancario ha facilitato il deflusso dei tanto necessari capitali al punto che le banche sono diventate sempre più riluttanti a concedere prestiti, sia al governo che alle imprese locali.

Sostenuto dal FMI, il governo neoliberale ha tuttavia continuato a mantenere il paese nella camicia di forza che era diventata la convenzione monetaria tra dollaro e peso. Come ha osservato George Soros, l’Argentina "ha sacrificato praticamente tutto sull'altare del mantenimento della parità di cambio e degli obblighi internazionali".

La crisi si è aperta ad una velocità spaventosa alla fine del 2001, costringendo l'Argentina a correre dal FMI a chiedere fondi per onorare gli interessi sui debiti. Dopo aver fornito in precedenza dei prestiti al suo pargolo, questa volta il FMI glieli ha rifiutati, portando in tal modo al default il debito di 100 miliardi dollari del governo. Sono crollate aziende, le persone hanno perso i loro posti di lavoro, il capitale ha lasciato il paese, e le rivolte e le altre forme di protesta dei cittadini hanno rovesciato un governo dopo l'altro.

Entra in gioco Kirchner

Quando Kirchner vinse le elezioni per la presidenza nel 2003, ereditò un paese devastato. Dovendo mettere come primi gli interessi dei creditori o dare la priorità alla ripresa economica, la sua scelta era tra debito o rinascita. Kirchner offrì di saldare i debiti dell’Argentina, ma con un forte sconto: ne avrebbe cancellato il 70-75 per cento ripagando solo 25-30 centesimi per dollaro. Gli obbligazionisti alzarono le loro strida e pretesero che il FMI mettesse in riga Kirchner. Kirchner ribadì la sua offerta avvertendo gli obbligazionisti che questa era valida una sola volta e che o accettavano, o perdevano il diritto a qualsiasi rimborso. Disse ai creditori che per pagare i debiti non avrebbe tassato gli argentini in stato di povertà e li invitò a visitare i quartieri poveri del suo paese per "fare per primi l'esperienza della miseria". Di fronte alla sua determinazione, al FMI non rimase che assistere impotente mentre la maggioranza degli obbligazionisti dovettero rabbiosamente accettare le sue condizioni.

Kirchner aveva fatto sul serio non solo con i creditori, ma con lo stesso FMI. Agli inizi del 2004 disse al Fondo che l'Argentina non avrebbe rimborsato una rata di 3,3 miliardi dollari a meno che il FMI non avesse approvato un prestito a Buenos Aires di analogo importo. Il FMI sbatté le palpebre e dette quel denaro. Kirchner, nel dicembre 2005, aveva pagato del tutto il debito del Paese verso il FMI e cacciato fuori dell'Argentina il Fondo.

Per oltre due decenni, sin dall’inizio della crisi del debito del Terzo Mondo nei primi anni ‘80, i governi dei paesi in via di sviluppo avevano pensato di sfidare i loro creditori. C'erano stati un paio di tranquilli default nei pagamenti, ma Kirchner è stato il primo a minacciare pubblicamente i creditori di una sforbiciata unilaterale e ad ottenere qualcosa da quella promessa. Stratfor, la società di analisi del rischio politico, ha sottolineato le conseguenze del sua mossa da alta acrobazia: "Se l'Argentina è riuscita a sfuggire con successo dai suoi debiti privati e multilaterali – senza collassare economicamente mentre era esclusa dai mercati internazionali per aver ripudiato il suo debito – allora altri paesi potrebbe presto prendere quella stessa via. Questo potrebbe far finire la scarsa rilevanza istituzionale e geopolitica che ha il FMI".
E infatti, l’azione di Kirchner ha contribuito all'erosione della credibilità e del potere del Fondo nel bel mezzo di questo decennio.

Il riscatto

L'Argentina non è collassata. Al contrario, è cresciuta di un notevole 10 per cento all'anno per i successivi quattro anni. Questo non rappresenta un mistero. Una causa fondamentale dell'alto tasso di crescita è dovuto alle risorse finanziarie che il governo ha reinvestito nell'economia invece di inviarle fuori dal Paese per ripagare il debito. La storica iniziativa sul debito di Kirchner è stata accompagnata da altre mosse per liberarsi dalle catene del neoliberismo: l'adozione di un flottante gestito per il peso argentino, il controllo interno sui prezzi, le tasse sulle importazioni, il forte aumento della spesa pubblica e limiti sui tassi pubblici.

Kirchner non ha limitato le sue riforme all’ambito del Paese. Ha intrapreso iniziative di alto profilo con gli altri leader progressisti dell’America Latina, quali l'affossamento del Libero Commercio delle Americhe sponsorizzato da Washington e gli sforzi per realizzare una maggiore cooperazione economica e politica. Emblematico di questa alleanza è stato l’acquisto da parte del Venezuela di 2,4 miliardi dollari di bond argentini, cosa che ha permesso all'Argentina di pagare al FMI tutto il debito del paese.

Assieme a Hugo Chavez del Venezuela, a Lula del Brasile, a Evo Morales della Bolivia e a Rafael Correa dell'Ecuador, Kirchner è stato uno dei vari leader degni di nota che la crisi del neoliberismo abbia prodotto in America Latina. Mark Weisbrot, uno che ha afferrato la sua importanza per quel continente, scrive che ciò che Kirchner ha fatto "non gli ha in genere fatto guadagnare molto favore a Washington e negli ambienti economici internazionali, ma la storia lo ricorderà non solo come un grande presidente, ma anche come un eroe dell'indipendenza dell'America Latina".
di Walden Bello

21 novembre 2010

Memorie della ghigliottina



Gira voce che quella del 2 giugno 1992 a bordo del Panfilo Britannia di "Sua Maestà Regina d’Inghilterra” non sia stata altro che una mera "crociera" organizzata dai magnanimi finanzieri della City di Londra, notoriamente animati da cristiano spirito di solidarietà, e finalizzata a distogliere gli esausti "tecnici" (Draghi in primis) italiani dai gravosi compiti di governo e di fornir loro qualche piacevole momento di ristoro.

A questa idilliaca visione del recente passato italiano, le inguaribili, paradisiache "anime belle" (molti delle quali si definiscono anticapitaliste, antimperialiste, pacifiste e chi più ne ha più ne metta) all'amatriciana, vuoi per gonfiare ulteriormente il portafogli, vuoi perché non hanno potuto far altro che portare il cervello all'ammasso, sono solite affiancare una speculare demonizzazione nei riguardi di chiunque non accetti di bersi queste ignobili idiozie e perseveri nel puntare il dito contro il colossale progetto eversivo enfaticamente denominato “Mani pulite”, architettato e pianificato dai ben noti centri di potere d'oltreoceano e messo in pratica da uno sparuto manipolo di contractors nostrani; una congrega di burocrati bramosi di denaro e potere in combutta con una "sinistra" fresca di nietzschiana conversione al più buio nichilismo proprio di chi prende atto della "Morte di Dio", da costoro identificata con il fallimento del “comunismo reale” appena sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino. E' si, perché il collasso dell'Unione Sovietica aveva in un batter d'occhio reso obsoleta ed inadeguata un'intera classe politica nata, cresciuta ed invecchiata all'ombra del Muro e della logica bipolare che aveva regolato gli equilibri dei cinquant'anni precedenti. Quel che ci voleva era un radicale cambio della guardia, che investisse non solo e non tanto la spina dorsale italiana DC - PSI, ma soprattutto l'intera struttura assistenziale dello stato italiano, che deteneva un ingente patrimonio di aziende strategiche, istituti di credito, vie di comunicazione. La campagna giudiziaria denominata "Tangentopoli" nacque in risposta a questa specifica esigenza di "rinnovamento", e si badi bene che non si trattò semplicemente di un mero insieme di operazioni di giustizia, bensì di un preciso progetto eversivo in cui Borrelli, Di Pietro e compagnia ottennero "luce verde" ed ebbero buon gioco per innescare il devastante effetto domino che coinvolse quasi tutta la classe politica italiana (con l'eloquente eccezione del PC, guarda caso), attorno alla quale l'intera editoria italiana ("La Stampa" di Agnelli, "La Repubblica" di De Benedetti, il "Corriere della Sera" dei soliti poteri forti) aveva già da tempo iniziato a stringere una morsa mediatica di altrettanto impressionante vigore. Dal canto suo, l'opinione pubblica, distolta dalle personalissime vicende giudiziarie di questi ladri di polli, scoprì di colpo l'esistenza di uno stato clientelare regolato da un sistema endemicamente tangentizio, e preferì non interrogarsi troppo su ciò che stava accadendo, fermandosi al vacuo pettegolezzo. Così, nell'indifferenza più totale, i vari "tecnici" senza macchia né peccato ebbero vita facile quando, ad un solo mese dalla fatidica "crociera" sul Britannia, trovarono calda accoglienza nell'esecutivo ipertecnico guidato da Giuliano Amato, che si affrettò a varare un decreto (decreto numero 333) che disponeva che le compagnie fino a quel momento pubbliche ENI, ENEL, IRI (qui il signor Prodi fece la parte del leone) ed INA si trasformassero in società per azioni (SPA) e ad ingaggiare, per mezzo dell'indiscutibile cavaliere errante Carlo Azeglio Ciampi, uno strenuo braccio di ferro con il "filantropo" George Soros, il quale si stava attivando per mettere le proprie zampe speculatrici sulla lira, che dopo l'onerosissima ma (ci mancherebbe...) "accanita" difesa portata avanti da Ciampi subì puntualmente una svalutazione del 25% nei confronti del dollaro, nel tripudio generale degli scaltri burattinai di tutto il teatrino, che videro così concretizzarsi tra le proprie mani la possibilità di fare pieno bottino a prezzi di liquidazione. Il governo tecnico guidato da Lamberto Dini si distinse invece per aver ridotto al silenzio con metodi a dir poco farseschi quella pericolosissima Cassandra di Filippo Mancuso, che si era permesso di puntare il dito contro le superstar del pool milanese, accusandole di aver reiteratamente fatto strame delle più elementari garanzie costituzionali. Emblematico, in questo senso, fu il caso che vide come oggetto delle “attenzioni” del pool milanese il direttore dell'IRI Franco Nobili (successore di Romano Prodi), incarcerato in via preliminare per due mesi senza che gli venisse contestato alcun capo d'accusa. Le "anime belle" ovviamente invocheranno scandalizzate la becera dietrologia qualora ci si azzardi ad evidenziare il fatto che Nobili aveva dato incarico alla "Merrill Lynch" di esprimere una stima del valore della banca "Credito Italiano", in procinto di essere privatizzata, e che tale incarico fu revocato durante la sua detenzione e concesso ai famigerati e ben noti angioletti di "Goldman Sachs", che espressero a loro volta una stima di tre volte inferiore a quella data da "Merrill Lynch" (circa 10.000 miliardi di lire). In questi giorni si sta profilando la concreta possibilità che sarà un altro esecutivo tecnico a "salvare il salvabile", un governo, cioè, pieno zeppo dei vari Draghi, Padoa Schioppa, Monti e compagnia bella, gentaglia che ha fatto la spola tra FMI, BCE ed altre banche del sangue sempre a completa disposizione degli insaziabili vampiri che già a inizio anni Novanta avevano messo gli occhi, e non solo, sull'Italia. Riflettere per un attimo su tutto il "buono" che i tecnici avrebbero fatto per questo paese, è un’operazione psicologica particolare, in grado di instillare anche negli individui caratterizzati dal temperamento più tollerante e mansueto la speranza di un ritorno ai metodi tanto cari a quel gran rivoluzionario di Robespierre. Con una "Gioiosa macchina da guerra" consimile i risultati di certo non mancherebbero.


di Giacomo Gabellini

Destra e sinistra in pubblico, ma poi…



Qualche giorno fa ho pubblicato sul Giornale, una notizia con un retroscena insolito. Ricordate il Sexgate? E Newt Gingrich, l’implacabile accusatore repubblicano di Clinton? Ebbene ora apprendiamo che i due implacabili nemici di giorno, la sera, in gran segreto, erano complici. Si ritrovavano per… parlare di donne. Già, perché anche il moralista Gingrich aveva un’amante. E Clinton divenne il suo confidente, come potete leggere qui

L’episodio è divertente e anche un po’ boccaccesco, ma emblematico di un modo di fare politica che non è limitato alle questioni di letto. Negli Stati Uniti più ci si avvicina al vertice e più le distinzioni,. nella gestione del potere, tendono a scomparire, pur salvaguardando l’apparenza.

Ad esempio: sui grandi giornali, nessuno scrive che quasi tutti i ministri della Difesa e del Tesoro sono membri del Council on Foreign Relations, il quale è un rispettabile istituto di politica internazionale, ma anche la fucina delle élites politiche – e spesso anche economiche – degli Stati Uniti. Democratiche e repubblicane. Escono quasi tutti da lì, in posti di primissimo piano (si contano anche diversi presidenti), o come sherpa dietro le quinte. Politici, che, come Bill e Newt, di giorno litigano, ma la sera si ritrovano. A parlare. Non certo solo di donne.

E lo stesso schema si sta diffondendo in molti Paesi. Che cosa distingue i laburisti post Blair dai conservatori alla Cameron? Solo l’etichetta. In Spagna i popolari di Aznar dai socialisti alla Zapatero? Solo questioni etiche e religiose, ma su tutto il resto la continuità è evidente. E guardando ieri sera la trasmissione, noiosissima, di Fazio Fazio e del guru (senza spessore) Roberto Saviano, mi ha colpito la similitudine tra Bersani e Fini, nell’elencare i valori della destra e della sinistra. Un cumulo di banalità, che lascia intravedere una convergenza di fondo, sul modello di società, sull’immigrazione, e, naturalmente, sulle modalità di gestione (reali) del potere,

Tra i due vedo poche differenze sostanziali. Come avviene negli Usa. E’ un caso?

di Marcello Foa

20 novembre 2010

Sovranità, bombe atomiche e patacche


nuclear-bomb-testing

Tra due giorni il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo, sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.

Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e Italia. Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato assai scomodo. E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.

Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi, con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto dell'abbronzato presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.

Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11 settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes, l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale di Roma.

Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo per noi europei. Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali, precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad accorgersene) - trascinano giù anche noi.

Ma una cosa gli Stati Uniti continuano a fare ad alti livelli professionali: lo spettacolo. Ieri un sito abbastanza misterioso, avaaz.org (ma molto bene organizzato. Indirizzo New York, 857 Broadway, 3-rd floor) ha lanciato un appello drammatico, dicendo cose in parte vere (come quella dell'Italia prona), in parte stravaganti (come quella della Turchia, appunto, destinataria di quelle armi). E invitando a firmare un appello contro le bombe con la promessa che «se raggiungeremo le 25.000 firme ci daranno voce in Parlamento prima del vertice».

Qui la stranezza diventa meglio visibile. A chi daranno voce? Chi porterà quelle firme in Parlamento, visto che il link delle firme conduce in un altro posto virtuale e non alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica? E da quando in qua 25.000 firme garantiscono che verrà data voce a voci diverse da quelle del Potere? A noi risulta che il Potere non ha dato voce a ben più di 25.000 firme, in questo paese preso per i fondelli dal maggioritario e dalla legge porcata.

Insomma: una sollecitudine che puzza lontano un miglio di prestazioni da multi-level marketing, o di rivoluzioni colorate.

Restano, oltre le ingenuità e le truffe che navigano in rete, le bombe atomiche che si muoveranno sulle strade e sulle ferrovie europee alla ricerca di un nuovo parcheggio. Fino a che l'Europa tornerà ad essere un paese sovrano e non com'è stata ed è un conglomerato a sovranità limitata.


di Giulietto Chiesa

19 novembre 2010

In arrivo il governo dei banchieri


di Andrew Spannaus



Dietro allo scontro politico italiano lo spettro della "cura greca" chiesta dalla finanza internazionale

Un'analisi attenta della politica e della storia ci deve sempre portare a guardare i processi sottostanti, e non solo gli eventi particolari. Seguendo questo metodo socratico diventa facile capire come il subbuglio creatosi tra i partiti italiani nel periodo recente ha poco a che fare con gli scandali di Berlusconi e Fini, o anche con le posizioni (molto mutevoli) adottate dai leader di partito da un giorno ad un altro. La realtà è che da molti mesi è in atto un processo inteso a sostituire il governo italiano con un esecutivo tecnico, con il compito di attuare "riforme" urgenti che sono ben più difficili da attuare quando i partiti devono rispondere direttamente ai propri elettori.

Basta uno sguardo veloce oltre ai propri confini per capire la direzione generale. Mentre il governatore della BCE Trichet chiede tagli alle pensioni, e i "mercati" esigono credibilità nel ridurre i deficit di bilancio, sono stati annunciati piani di austerità in numerose nazioni.

I casi menzionati sulla stampa sono solo quelli dove le resistenze della popolazione sono più forti, per esempio il Regno Unito, la Francia, e la Grecia. Negli Stati Uniti la Commissione Fiscale istituita dal presidente Barack Obama ha cominciato ad annunciare le sue proposte di forti tagli alla spesa statale, a partire dalla Social Security (beninteso, difendendo la riduzione delle tasse per i più ricchi, ma senza considerare misure contro la speculazione finanziaria). Così, la situazione italiana va vista nel contesto di una spinta internazionale verso misure di austerità pesanti, guidata proprio da quegli interessi finanziari che da decenni vedono nello Stato l'ostacolo principale alla loro "libertà" di mercato.

Da questo punto di vista il Governo Berlusconi rappresenta un impedimento alle misure richieste. Certo, sotto la minaccia di un attacco al debito pubblico italiano l'esecutivo ha già seguito una linea di rigore, bloccando gli investimenti che sarebbero necessari per l'economia reale. Per non parlare del fatto che i margini di manovra dei governi nazionali sono stati ridotti di parecchio dalla normativa comunitaria, in cui si sono codificate le politiche in stile FMI che mirano a gestire i parametri monetari a prescindere dalla progressiva distruzione di ricchezza nell'economia reale. Ma la finanza internazionale non si fida di questo governo, e in modo particolare del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Si ricordi che l'Italia è stata tra i pochi paesi a non rifinanziare le banche durante la crisi degli ultimi tre anni; i cosiddetti Tremonti Bonds, che impongono dei vincoli a favore dell'investimento produttivo, non sono stati accettati dalle più grosse banche italiane, e hanno provocato uno dei tanti scontri pubblici tra il Ministro e Mario Draghi, che si è lamentato dell'interferenza politica nell'economia. E la cooperazione internazionale portata avanti dall'Italia in zone difficili - per esempio con Vladimir Putin e la Russia - dà non poco fastidio ai manipolatori della geopolitica a Washington, Londra e Bruxelles.

Gli alleati della City puntano alla formazione di un governo tecnico, per gestire l'emergenza. I partiti di opposizione ci pensino bene prima di accettare una tale soluzione nella speranza di cambiare la legge elettorale; basta ascoltare attentamente le dichiarazioni di alcuni politici di peso (anche tra le proprie file) per capire che i compiti di un esecutivo tecnico andrebbero ben oltre. Si parla di emergenza economica, dei governi tecnici degli anni Novanta come punto di riferimento, e di riforme strutturali per garantire la stabilità del paese.

Quali sarebbero queste riforme strutturali? Di nuovo, la lista è già stata resa pubblica: tagli pesanti alla previdenza sociale, la privatizzazione delle municipalizzate (bloccata dalla Lega Nord), e l'ulteriore liberalizzazione di ogni servizio pubblico. I nomi più accreditati sono quelli di Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo. Il modello economico del primo è ben noto: la correttezza delle regole per garantire che la speculazione mantenga il dominio sull'economia produttiva; per quanto riguarda il secondo, considerando come intende mettere le mani sui profitti dell'alta velocità ferroviaria - lasciando allo Stato gli investimenti e le perdite - si capisce dove ci porterebbe.

Una recente mozione presentata da Francesco Rutelli al Senato parla chiaro:

"... e) le liberalizzazioni sono urgenti, e va tradotta in disposizioni legislative la segnalazione al Governo del febbraio 2010 da parte dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, riguardante i mercati dei servizi pubblici (postali, ferroviari, autostradali e aeroportuali), energetici (carburanti e filiera del gas), bancario-assicurativi, degli affidamenti pubblici e di tutela dei consumatori. Vanno recepite nella Costituzione le norme dei Trattati UE sulla concorrenza. Vanno rafforzate le norme in materia di servizi pubblici locali: troppi monopoli stanno spingendo verso l'alto le tariffe... " (1-00314 del 6 ottobre 2010).

L'incessante richiesta di liberalizzazioni e tagli alla spesa pubblica è il marchio di fabbrica di coloro che hanno creato la crisi economica attuale, ben lontani dalle misure rooseveltiane che potrebbero innescare una ripresa vera. Niente investimenti pubblici, niente misure punitive contro la speculazione finanziaria, e niente protezioni per i settori produttivi. È la "mano invisibile" che porta via l'industria e i risparmi...

I politici di tutti gli schieramenti farebbero bene a guardare oltre quello che al momento sembra il loro interesse particolare, e chiedersi se non sarebbe ora di incentrare il dibattito pubblico sui contenuti veri dietro ai disegni portati avanti in questo momento: in primo luogo, per onestà, perché la popolazione ha il diritto di sapere le conseguenze vere degli scontri in atto; perché, inoltre, in questo modo, le forze che si ispirano ancora al bene comune potranno trovare il sostegno necessario per bloccare un progetto che sarebbe disastroso per il paese.

17 novembre 2010

11 settembre : Thermite, debunking e onere della prova

Da qualche tempo sta iniziando ad accadere nel dibattito sull’11 settembre la stessa cosa che è accaduta con il caso Kennedy: una volta esaurite la raccolta e la presentazione di tutti gli elementi che contraddicono la versione ufficiale, il dibattito si cristallizza su alcuni aspetti specifici della vicenda, ed apre una serie di discussioni secondarie che sono destinate a restare irrisolte per propria natura, mentre rischiano di allontanare l’attenzione dal problema centrale.

A causare questo problema sono spesso gli stessi “complottisti”, che nell’impeto di voler dimostrare a tutti i costi la propria tesi si spingono a dare spiegazioni che non gli competono, assumendosi in quel modo l’onere della prova. Fanno così un piacere immenso al debunker, che non vedeva l’ora di liberarsi da quel peso, e che può adesso scorrazzare liberamente su un territorio nel quale può finalmente giocare al contrattacco.

E’ stato il caso del “proiettile magico” nell’omicidio Kennedy, salito alla ribalta con il film “JFK” di Oliver Stone, e lo sta diventando nell’11 settembre la questione della thermite nelle Torri Gemelle.

Con il tentativo di dimostrare l’impossibilità del proiettile magico, infatti, Stone si è assunto l’onere della prova, e lo ha fatto anche – thank you very much - per conto di tutti gli altri “complottisti” del caso Kennedy. Da quel momento in poi la macchina mondiale del debunking ha avuto gioco facile, ...

... mostrando come la traiettoria del proiettile non fosse necessariamente impossibile. Altamente improbabile, certamente, ma non per questo impossibile, e come sappiamo al debunker "il pareggio" basta e avanza. Nel frattempo – guarda un pò che fortuna – il fronte ufficialista non ha più dovuto dimostrare come Oswald abbia potuto agire da solo, mentre uno sguardo più attento al Rapporto Warren rivela come in realtà l’omonima Commissione non ci abbia mai spiegato la precisa sequenza temporale con cui Oswald avrebbe esploso i tre colpi sparati dal Book Depository.

Io ritengo infatti assolutamente impossibile stabilire una qualunque sequenza temporale per i tre spari di Oswald (usando come riferimento il filmato di Zapruder), che riesca a riconciliare tutti gli elementi fattuali riscontrati in seguito in Dealey Plaza. (Chi è interessato ai particolari può leggere questa pagina).

Rimane quindi agli ufficialisti spiegare la precisa modalità con cui Oswald avrebbe agito, prima che qualunque “complottista” si assuma l'onere di dimostrare il contrario. Invece, da quando è stato sollevato il polverone del “magic bullet”, il dibattito si è spostato su quell’argomento, e da lì non si è più schiodato negli ultimi 20 anni. Un vero e proprio sogno, per i debunkers.

Ora la stessa cosa sta accadendo con la thermite nell’11 settembre. Stufi di raccogliere ed elencare indizi su indizi, molti “complottisti” stanno calcando la mano sulle dimostrazioni – lampanti, peraltro - fornite nel tempo da personaggi come Steven Jones o Niels Harritt, della presenza dei residui di thermite nelle polveri delle Torri Gemelle. Ma queste sono dimostrazioni complesse e articolate, e lungo il loro percorso è sempre possibile trovare una obiezione qualunque che renda la presenza della thermite da “dimostrata” a soltanto “probabile”. Di fatto, come abbiamo visto, i lavori di Harritt e di Jones non hanno sortito alcun effetto contro la versione ufficiale. Solo una massa enorme di polvere in più.

Perdersi quindi oggi in un dibattito secondario di quel tipo – per quanto possa sembrare allettante, vista la forza dell’evidenza presentata – equivale ad offrire al debunker occasioni infinite per ribattere su un terreno troppo vasto e labile per essere comunque conclusivo. Basta un filmato dei “Mythbusters” - come è accaduto di recente - nel quale si dice che la thermite non taglia l’acciaio, e la tua bella dimostrazione è andata a farsi benedire. Che poi i Mythbusters mentissero spudoratamente non conta nulla, a livello mediatico: il danno ormai è fatto, perchè ora dovresti dimostrare che "non è vero che non è vero", e la strada da qui in poi può soltanto allargarsi, invece di restringersi. Nel frattempo, resta ancora da spiegare la dinamica completa del presunto crollo gravitazionale dei tre edifici.

Sia chiaro, non sto invitando gli amici “complottisti” a desistere da questo tipo di discussioni, anzi, mi auguro che si battano con tutte le forze che hanno in corpo nei vari forum a cui partecipano (compreso il nostro). Vorrei però metterli in guardia su un pericolo molto serio come quella della compartimentalizzazione del dibattito – lo scopo ultimo di ogni debunker al mondo - invitandoli nel contempo a non perdere mai di vista “the big picture”.

Non siamo noi a dover spiegare come sono crollate le Torri Gemelle, ma è chi sostiene che siano cadute da sole a doverci dire come avrebbero fatto, viste le obiezioni che abbiamo sollevato in merito. Come sappiamo infatti, queste spiegazioni dettagliate nei rapporti del NIST non si trovano, esattamente come nel Rapporto Warren non si trova la spiegazione dettagliata di come Oswald avrebbe agito da solo.

Già ci hanno mentito in modo plateale, evitiamo almeno di fargli il piacere di non dover più rispondere alle nostre domande.




NOTA: Ho usato “thermite” (in inglese) in senso generico, riferendomi a tutte le variazioni di prodotto che si possono ottenere da quel composto chimico.

di Massimo Mazzucco

16 novembre 2010

Vivere felici in barba agli economisti…

Nei giorni scorsi ho scritto un articolo sul miracolo del North Dakota, l’unico Stato americano che ha rifiutato di aderire al Federal Reserve System. L’ho scritto seguendo il suggerimento di uno dei partecipanti più assidui di questo blog, Silvio, che sono lieto di ringraziare. Potete leggere l’articolo qui. . La morale é molto semplice: felicità è vivere senza la Fed. Ovvero: il North Dakota dipende da una Banca centrale indipendente, la quale, anziché rincorrere e propagare le chimere dei mercati finanziari, opera dal 1920 al servizio della comunità con risultati strepitosi: crescita sostenuta, nessun deficit, disoccupazione bassissima. Al punto che molti altri Stati come California e Florida vogliono imitarla.

Oltre a questo articolo ne segnalo un altro, uscito venerdì e che riguarda l’Italia. Ho incontrato Marco Fortis, che considero uno dei pochi economisti italiani capaci di sviluppare un pensiero autonomo e innovativo, il quale rivela che le aziende italiane sono seconde solo alla Germania in termini di competitività nel commercio mondiale e dunque davanti alla Cina, dato questo sconosciuto ai più. Inoltre Fortis sostiene che, in tema di riforme per l’Italia, sia sbagliato continuare a inseguire modelli stranieri, in quanto da un lato sono illusori (vedi capitalismo anglosassone basato sul debito privato), dall’altro non pertinenti (vedi capitalismo tedesco caratterizzato dalla presenza di diversi grandi gruppi, che invece mancano in Italia). Secondo Fortis per rilanciare l’Italia bisogna predisporre delle riforme che consentano di valorizzare i suoi punti di forza (quello che lui chiama quarto capitalismo votato all’export), con scelte ad hoc e all’occorrenza anticonformiste.

E’ una tesi di buon senso che condivido senza esitazione e di cui in parte avevamo parlato anche su questo blog.

Il messaggio é: per prosperare davvero bisogna avere la forza di non lasciarsi lavare il cervello dalla propaganda e di trovare formule adatte alla propria realtà, infischiandosene dei moniti e dei latrati della maggior parte degli economisti.

Come ha fatto il North Dakota. E come può, anzi deve, fare anche l’Italia.

O sbaglio?

di Marcello Foa

15 novembre 2010

Dobbiamo mettere in galera i banchieri, o l’economia non si riprenderà







Come hanno ripetutamente detto economisti come William Black e James Galbraith, non possiamo risolvere la crisi economica se non chiudiamo in galera i criminali che hanno commesso le frodi.
E l’economista premio Nobel George Akerlof ha dimostrato che la mancata punizione dei criminali dai colletti bianchi – ma invece il loro salvataggio – crea incentivi a commettere ancora altri reati economici in futuro, e all’ulteriore distruzione della economia.

Anche Stiglitz, premio Nobel per l’economia, dichiara a Yahoo Daily Finanza il 20 ottobre:
“Questo è un punto veramente importante da capire, dal punto di vista della nostra società.

L’ordinamento giuridico si suppone essere la codificazione delle nostre norme e credenze, cose di cui abbiamo bisogno per far sì che il nostro sistema possa funzionare. Se questo ordinamento viene considerato come una forma di sfruttamento, allora la fiducia nell’intero sistema comincia a mancare. E questo è proprio il problema che si sta verificando.


Nei prestiti auto stanno andando avanti un sacco di pratiche predatorie. Perché deve essere OK effettuare operazioni di prestito a rischio nelle automobili e non nel mercato dei mutui? C’è un qualche principio che lo giustifica? Sappiamo tutti la risposta. No, non c’è nessun principio. Si tratta di soldi. Si tratta di contributi elettorali, lobbying, porte girevoli, tutto questo genere di cose. Il sistema è destinata a favorire effettivamente questo genere di cose, anche con le multe. [riferendosi all' ex CEO di Countrywide Angelo Mozillo, che recentemente ha pagato decine di milioni di dollari in multe, una piccola frazione di quello che ha effettivamente guadagnato, perché ha guadagnato centinaia di milioni.]

Conosco molte persone che dicono che è uno scandalo il fatto che abbiamo avuto più responsabilità negli anni ’80 con la crisi S & L, rispetto a quella che stiamo dimostrando oggi. Sì, noi li multiamo, e qual è la grande lezione? Comportati male, e il governo ti prenderà il 5% o il 10% del tuo maltolto, ma tu te ne starai bene accomodato con diverse centinaia di milioni di dollari ancora disponibili dopo aver pagato le multe, che sembrano molto grandi per gli ordinari standard, ma risultano molto ridotte rispetto all’ammontare che sei stato in grado di incassare.

Così il sistema è impostato in modo che anche se sei colto sul fatto, la pena è comunque una piccolezza rispetto a quello con cui te ne potrai andare a casa.
La multa è solo un costo del business. E’ come un bel parcheggio. Talvolta si prende la decisione di parcheggiare pur sapendo che si potrebbe prendere la multa, perché a svoltare l’angolo per parcheggiare meglio si perde troppo tempo.
Penso che dobbiamo andare a fare quello che abbiamo fatto con S & L, ed effettivamente mettere molta di questa gente in carcere. Assolutamente. Questi non sono solo reati dei colletti bianchi o piccoli incidenti. Ci sono state vittime. Questo è il punto. Ci sono state vittime in tutto il mondo.

Abbiamo forse fiducia che questa gente, che ci ha messo nel caos, abbia davvero cambiato idea? In realtà possiamo avere una discreta convizione che non siano cambiati affatto. Ho assistito ad alcuni interventi in cui è stato detto “Nulla è stato veramente sbagliato. Le cose non sono andate molto bene. Ma la nostra comprensione delle questioni è ora abbastanza approfondita”. Se pensano questo, allora siamo veramente in un brutto guaio.

Ci sono molti modi per dissuadere le persone dal commettere reato. Gli economisti fanno leva sul concetto degli incentivi. Le persone a volte hanno un incentivo a comportarsi male, perché imbrogliando possono fare più soldi. Se il nostro sistema economico deve funzionare, allora dobbiamo fare in modo che ciò che si guadagna con la truffa sia controbilanciato da un sistema di sanzioni.

Ed è per questo, per esempio, che nella nostra legge antitrust spesso non si beccano le persone che commettono reato, ma quando lo si fa, ci sono risarcimenti elevatissimi. Si paga tre volte l’importo del danno che si produce. Questo è un forte deterrente. Purtroppo, quello che stiamo facendo adesso, e nei più recenti crimini finanziari, è accontentarsi di frazioni – frazioni! – dei danni diretti, e addirittura una frazione ancor più piccola del danno totale della società. Vale a dire, il settore finanziario ha realmente fatto crollare l’economia mondiale e, se si includono tutti i danni collaterali, in realtà si tratta di migliaia di miliardi di dollari. Ma c’è un’accezione più ampia di danni collaterali che io penso che non sia stata realmente considerata. E’ la fiducia nel nostro sistema giuridico, nel nostro Stato di diritto, nel nostro sistema di giustizia. Quando si menziona il “Patto di fedeltà e obbedienza” si intende con questo “giustizia per tutti”. La gente non è più sicura che ci sia giustizia per tutti. Qualcuno e’ fermato per un reato minore di droga, e viene chiuso in carcere per molto tempo. E invece, per questi cosiddetti delitti dei colletti bianchi, che non sono senza vittime, quasi nessuno di queste persone, proprio quasi nessuno di loro, va in prigione.

Lasciatemi fare un altro esempio di una parte del nostro sistema giuridico molto guasta e mal funzionante, e che ha contribuito alla crisi finanziaria.
Nel 2005, abbiamo approvato una riforma della legge fallimentare. E ‘stata una riforma voluta dalle banche. E’ stata progettata per permettere loro di fare prestiti a rischio a persone ignare di come funziona, e quindi fondamentalmente per strangolarli. Prosciugarli. Avremmo dovuto chiamarla “la nuova legge sulla servitù a contratto”. Perché questo è quello che ha fatto. Lasciatemi solo dirvi quanto è cattiva questa legge. Non credo che gli americani capiscano quanto sia cattiva. Diventa davvero molto difficile per le persone ripagare i loro debiti. In passato un principio basilare in America era che la gente ha diritto a ricominciare. Le persone possono commettere errori, soprattutto quando sono depredate. E così si dovrebbe essere in grado di ripartire di nuovo. Prendi un foglio bianco. Paga quello che puoi e ricomincia. Naturalmente, se lo fai più e più volte questa è una storia diversa. Ma almeno quando si ha a che fare con questi istituti di credito predatori, si dovrebbe essere in grado di ottenere un nuovo inizio. Ma le banche hanno detto: “No, no, non si può scaricare il debito”, o non è possibile scaricarlo molto facilmente. Si tratta di servitù a contratto.
E noi critichiamo altri paesi per avere servitù a contratto di questo tipo, lavoro coatto. Ma noi in America lo abbiamo istituito nel 2005, con quasi nessuna discussione sulle conseguenze. Ciò che ha provocato è stato di spingere le banche ad impegnarsi in pratiche di prestito anche peggiori.

Le banche vogliono far finta che non concedevano crediti inesigibili. Non vogliono ammettere la realtà. Il fatto è che loro hanno opportunamente cambiato i principi contabili, in modo che i prestiti che sono inesigibili, in cui le persone non pagano quello che devono pagare, sono trattati come se fossero mutui con buone prestazioni.
Così tutta la strategia delle banche è stata quella di nascondere le perdite, cavarsela e ottenere che il governo mantenga i tassi di interesse molto bassi. Il risultato di questo, per tutto il tempo che continueremo con questa strategia, è che ci vorrà molto tempo prima che l’economia possa riprendersi ….
di Joseph Stiglitz

09 novembre 2010

Il sogno americano si trasforma in incubo

L'America non fa che sognare anche se adesso il sogno si è trasformato in un incubo. Il primo presidente di colore non fa sognare più l'America ma è diventato la causa dei suoi incubi. Disoccupazione al 10%, crescita anemica, una riforma sanitaria che non piace nè ai ricchi nè ai poveri perché costruita su complicatissimi compromessi politici, una guerra in Afghanistan che non si vince ne si vincerà. Queste, agli occhi degli americani, le conseguenze della politica di Obama. Nessuno, neppure la stampa che da giorni dà addosso al presidente, riflette che in due anni si può fare ben poco, sia nel bene, sia nel male, e che gran parte del cataclisma economico che ancora affligge l'America Obama l'ha ereditato.

È vero, l'ha gestito male, ma si trattava e si tratta ancora di una crisi di dimensioni "bibliche".

Unico vero errore, forse, è stato spingere al massimo la riforma sanitaria in un momento in cui al Paese serviva ben altro.

L'ostilità nei confronti dell'ex messia Obama nasce dal fatto che l'America è da sempre vittima di illusioni politiche. Il divario tra Washington e Wall Street da una parte ed il resto del Paese dall'altra è enorme e viene regolarmente colmato dalla propaganda politica. Come l'americano medio sa pochissimo sulla riforma sanitaria e sulle vere responsabilità del presidente, così sa poco o nulla sulla distribuzione del reddito a casa sua. Ce lo racconta uno studio condotto da due psicologi americani, Dan Ariely della Duke University e Michael Norton dell'Harvard Business School. Gli americani pensano di vivere in un Paese dove il 20% più ricco della popolazione controlla il 59% della ricchezza, quando invece i ricchi si spartiscono l'89%; sono anche convinti che il 20% dei più poveri usufruisca del 3,7% quando la cifra esatta è un misero 0.1%.
Ma non basta, tutti ancora credono che questo sia il Paese delle grandi opportunità. In realtà è vero il contrario. Secondo uno studio dell'economista Miles Corak dell'università di Ottawa in Canada, gli Stati Uniti sono i penultimi al mondo, dopo il Regno Unito, in termini di mobilità salariale tra le generazioni. Se nasci povero rimani povero.

Quando poi si chiede agli americani quale debba essere la ripartizione giusta sognano quella dei paesi scandinavi: i più ricchi dovrebbero avere il 32% ed i più poveri il 10%. Nessuno però è disposto a pagare più tasse per ottenere questa distribuzione. Quando finalmente l'America si risveglierà sarà difficile accettare la realtà.

di Loretta Napoleoni

08 novembre 2010

La dittatura della pubblicità

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Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.

Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.

Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.

Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.

La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta.

I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.

La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.

La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.

di Goffredo Fofi

07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



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Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni

04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro