15 luglio 2008

Grave crack bancario in California

Negli Stati Uniti è cominciata la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi. Presa d’assalto da migliaia di risparmiatori, che in due settimane hanno ritirato 1,3 miliardi di dollari, la IndyMac Bancorp, una banca californiana specializzata in mutui immobiliari, è infatti rimasta senza soldi ed è fallita. L’istituto, che a fine marzo valeva ancora 32 miliardi di dollari, è passato sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC).

I clienti della banca non perderanno i primi 100.000 dollari di deposito e recupereranno forse la metà del resto. L’istituto riaprirà i battenti oggi sotto l’amministrazione controllata della FDIC e si chiamerà IndyMac Federal Bank. Il costo del salvataggio dell’istituto si aggirerà attorno agli 8 miliardi di dollari. Il fallimento della IndyMac è il secondo grande crack bancario della crisi dei mutui subprime.

Il primo fu quello della Northern Rock, accaduto nell’autunno dell’anno scorso, che sta costando allo Stato britannico alcune decine di miliardi di dollari. È però il più grave degli ultimi 25 anni e nella graduatoria dei dissesti bancari americani si situa solo alle spalle di quello della Continental Illinois National Bank del 1984 e dell’American Savings & Loan di Stockton del 1988.

Ora vi è il grande timore che sia il primo di una serie di fallimenti delle 8.000 banche di piccole e medie dimensioni degli Stati Uniti, il cui stato di salute è molto precario. Infatti, come ha dichiarato Christopher Whalen, direttore della società di ricerca Institutional Risk Analytics, «molti temono che quanto è successo negli ultimi giorni in California sia solo un assaggio di quanto capiterà, poiché il fallimento della IndyMac è solo la punta dell’iceberg e vi saranno altre bancarotte».

Tutto ciò accade mentre si teme sulla sorte delle due grandi agenzie parastatali americane attive nel mercato dei mutui ipotecari. Secondo William Poole, ex membro del Direttorio della Fed, Fannie Mae e Freddie Mac sono prossime ad uno stato di insolvenza ed è quindi necessario un intervento immediato dello Stato federale. Indubbiamente, un dissesto di queste due agenzie, che non sono degli istituti bancari, farebbe apparire la bancarotta californiana una bagatella.

Infatti Fannie Mae e Freddie Mac finanziano o garantiscono la metà del totale delle ipoteche erogate negli Stati Uniti e hanno quindi passività che ammontano a 5.300 miliardi di dollari, ossia a circa il 40% del Pil statunitense. Evidentemente non verrà permesso che esse falliscano, ma il loro salvataggio sarà molto oneroso per lo Stato federale: 75 miliardi di dollari, se verrà scelta la via della loro ricapitalizzazione, oppure il raddoppio del debito pubblico americano, se lo Stato garantirà le obbligazioni che hanno erogato per finanziarsi.

Non sorprende che di fronte a questa prospettiva il dollaro sia ritornato ai minimi. Le difficoltà di Fannie Mae e di Freddie Mac e il crack dell’istituto californiano segnano un altro significativo peggioramento della crisi del sistema bancario. La montagna di crediti erogata negli ultimi anni e l’enorme volume di strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria rappresentano un macigno che non riescono ad erodere nemmeno i ripetuti interventi di salvataggio delle banche centrali e dello Stato federale americano. E ciò non può essere considerato una sorpresa.

Infatti l’economista Ludwig von Mises (1881-1973), appartenente alla cosiddetta Scuola austriaca, aveva scritto: «Non esiste modo di evitare il collasso finale di un boom generato dall’espansione indiscriminata del credito. L’unico interrogativo è se la crisi arriverà appena sarà abbandonata la politica dell’espansione del credito o in seguito sotto forma di totale distruzione del sistema e del suo sistema monetario».

A conclusioni analoghe era giunto anche l’economista americano Hyman Philip Minsky (1919-1996) nel suo libro tradotto in italiano con il titolo: «Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29». Vi è da sperare che le loro analisi non siano adeguate alla realtà attuale. Sta di fatto però che questa crisi, che è prossima a «festeggiare» il primo compleanno, non è assolutamente prossima alla conclusione. Anzi, di giorno in giorno diventa più grave e più pericolosa.

Alfonso Tuor

14 luglio 2008

Tremonti sulla scena internazionale



Il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, sostenitore della proposta della Nuova Bretton Woods e del programma del Ponte Eurasiatico di sviluppo di LaRouche, ha lanciato una serie di iniziative contro la speculazione in occasione dei vertici del G-8 e dell’UE che hanno creato un abbrivo sfavorevole all'oligarchia finanziaria anglo-olandese e che non mancheranno di sortire effetti anche sulla campagna presidenziale USA.

Al vertice finanziario di Osaka del G-8 Tremonti ha lanciato un appello affinché si ponga fine ai flussi speculativi che spingono in alto i prezzi del petrolio e delle commodities. Due settimane dopo, la proposta di Tremonti ha ricevuto il sostegno di Robert Rubin. L’ex Segretario del Tesoro USA, così come lo stesso presidente Clinton, si era fatto promotore di “una nuova architettura finanziaria” prima che il caso Lewinsky paralizzasse la vita politica americana. Attualmente personaggio influente del partito democratico, Rubin è stato invitato a parlare ad una conferenza internazionale che si è tenuta a Roma sui rapporti USA-Europa, organizzata dall’Aspen Institute Italia, di cui Tremonti è presidente. Il Corriere della Sera ha riferito il 1 luglio che Rubin ha chiesto “più trasparenza e più controlli sui bilanci bancari aumentando i requisiti di capitale per i future”. Questo coincide con la proposta di Tremonti.

Mario Draghi, per conto della finanza anglo-olandese, si è espresso contro iniziative del genere. Nel suo discorso alla conferenza dell’Aspen, il governatore di Bankitalia, che è anche presidente del Global Financial Stability Forum, ha parlato della pericolosità di interferenze sul "mercato” da parte dei governi che intedono ripristinare delle regole ed ha difeso il suo FSF come l’istituzione delegata a occuparsi di riforma del sistema finanziario.

La risposta di Tremonti è arrivata in serata. Nel corso di un’intervista televisiva ha detto a proposito del Forum di Draghi che “è come mettere i topi a guardia del formaggio”. “La speculazione finanziaria” ha continuato Tremonti "la subiamo tutti, e soprattutto chi sta peggio, i più poveri." “Dobbiamo contrastare la speculazione, peste di questo principio di secolo... non è più tempo di mercati, dei mercanti, dei banchieri d'affari. Non è più tempo della tecnica. E' il tempo dei governo che debbono farsi carico della responsabilità che hanno. Occorre che ci si trovi tutti intorno a un tavolo. Basterebbe un'economia meno falsa di quella che c'è adesso, meno truccata." Il governo italiano, ha detto Tremonti, ha presentato la questione a livello di G8 e lo farà di nuovo in sede europea.

Il giorno seguente, infatti, in una seduta delle Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato, Tremonti ha annunciato la propria decisione di chiedere all’Unione Europea di applicare l’Articolo 81 del Trattato istitutivo della Comunità europea, che prevede misure per contrastare la speculazione. L’annuncio ha provocato numerose reazioni immediate.

Ambrose Evans-Pritchard, portavoce di certi strati dell’oligarchia britannica, il 4 luglio ha scritto, con tono isterico, che la proposta di Tremonti ha il sostegno della Francia e che potrebbe effettivamente essere approvata dal Consiglio Europeo, danneggiando seriamente gli interessi di Londra. “Le decisioni sull’Articolo 81 in teoria possono essere approvate con un voto a maggioranza qualificata, annullando così un veto dei governi britannico e irlandese. Ogni tentativo del genere di limitare i mercati dei future e dei derivati finirebbe per avere grosse conseguenze sull’industria finanziaria della City di Londra e Dublino. E’ tutt’altro che chiaro se l’Inghilterra possa costituire un’alleanza capace di resistere nell’attuale clima contrario al mercato”.

Il 6 luglio Tremonti ha ricevuto un formidabile sostegno dal Papa, che ha lanciato un appello ai capi di governo riuniti al G-8 "affinché al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere, la cui vulnerabilità è oggi accresciuta a causa delle speculazioni e delle turbolenze finanziarie e dei loro effetti perversi sui prezzi degli alimenti e dell’energia".

Movisol contesta Draghi a Mirandola

Il 5 luglio il prof. Flavio Tabanelli, rappresentante del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, ha contestato il governatore di Bankitalia e capo del Financial Stability Forum, Mario Draghi, nel corso della cerimonia per il conferimento del premio "Pico della Mirandola". Riportando l'avvenimento, la Gazzetta di Modena ha scritto: "Alla chiusura della cerimonia il professore mirandolese Tabanelli ha tentato inutilmente una domanda di contestazione a Draghi: 'Draghi continua a salvaguardare le istituzioni speculative. Roosevelt invece salvò le banche ma a patto che esse continuassero a occuparsi del credito capillare'". L'articolo notava ironicamente che Draghi, "ex vicepresidente della banca d'affari Goldman e Sachs", è stato contestato anche dai dipendenti delle 39 filiali Bankitalia che vanno verso la chiusura, inclusa quella di Modena.

Fonte: Movisol

Petrolio alle stalle: la colpa a chi?


Come tutti sappiamo, ormai il prezzo del petrolio, e di conseguenza della benzina, è alle stelle. Sulle cause si possono evidenziare due scuole di pensiero: chi dice che è frutto del libero gioco del mercato (USA, UE e compagnie petrolifere) e chi invece sottolinea che il gioco è truccato da una forte speculazione finanziaria (Tremonti, tanto per citarne uno su tutti).


Una delle teorie forti degli “ingenui”, che credono ancora (e almeno è quello che ci raccontano di credere) che il mercato sia il “metro” per valutare tutto, è che l’attuale crisi è dovuta all’atteggiamento dei Paesi produttori, i quali tengono bassa l’offerta per far aumentare i ricavi e con loro i guadagni.



Trovo illuminante, e derimente, l’intervista rilasciata agli organi di stampa qualche giorno fa, da Chakib Khelil, Ministro dell'Energia dell'Algeria e Presidente di turno dell'Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio.


Il Presidente ha affermato che il prezzo è destinato a salire ancora, a causa della debolezza del dollaro, ricordando che un calo di un solo punto percentuale della divisa statunitense, comporta un aumento del costo del petrolio di 4 dollari al barile!


Giova ricordare per l’ennesima volta, che questa assurda situazione, nella quale tutti i cittadini del mondo dipendono dalle scelte della Federal Reserve, è determinata dal fatto che gli Stati Uniti hanno imposto negli anni il dollaro come unica divisa per comprare il petrolio, cosa che ha dato enorme potere a Washington (visto i miliardi che entrano continuamente nelle loro casse) e sta tenendo in vita l’economia a stelle e strisce che, a causa del suo allucinante debito pubblico, sarebbe in bancarotta da un pezzo. Questo è il reale motivo della guerra in Iraq; infatti Saddam, il quale doveva il suo potere proprio agli USA che lo salvarono dall’Iran, si era messo a vendere petrolio alla Francia, grazie al programma “Oil for Food” in Euro, tanto che come ricorderete, Parigi si oppose fino all’ultimo all’invasione di Baghdad. Per lo stesso motivo, impedire che venga accettato l’Euro al posto del dollaro, si sta cercando la maniera di invadere l’Iran, il quale ha dichiarato che accetterà altre divise all’interno della sua nuova borsa del petrolio appena aperta sull’isola di Kish.



Va ulteriormente ricordato, che la crisi del dollaro è cominciata con la crisi dei mutui subprime, figlia di speculazioni finanziarie organizzate dalle lobbies newyorchesi. E’ prevista una ripresa del dollaro? Sicuramente non a breve, perché l’economia statunitense no da segni di ripresa, si guardi il caso della General Motors per farsene un’idea, ma soprattutto perché gravi colpi vengono infarti da Bruxelles e da quel “brav’ uomo” di Trichet, il Presidente della Banca Centrale Europea. Come? Semplice, i tassi della “zona Euro”, vengono tenuti molto più alti di quelli statunitensi, quasi il doppio, questo fa sì che i capitali esteri, cinesi soprattutto, si dirottino verso l’Europa, visto che si guadagna di più, col risultato che il dollaro continuerà a perdere peso e la vita per i cittadini di tutto il mondo costerà sempre di più. In particolar modo per gli Europei, i quali oltre a dover pagare di più la benzina, il che vuol dire vedere aumentare tutti i costi, dagli spostamenti alle bollette ai beni alimentari, con l’aggravante di dover pagare maggiori interessi sui soldi che prenderanno in prestito per arrivare a fine mese. Ovviamente, tutto questo è un caso, e l’aumento voluto da Bruxelles serve a frenare l’inflazione!!!!



Lo stesso Khalil ha fatto notare che i paesi produttori non godono affatto dell’attuale situazione dei prezzi, in quanto questa sta drammaticamente riducendo la domanda, annullando i teorici maggiori guadagni. Giustamente, sottolinea che l’attuale fornitura di petrolio sui mercati “sia sufficiente e che questo equilibrio sia nell'interesse di tutti e non dovrebbe essere turbato perché l'attuale rincaro del petrolio non e' nell'interesse di nessuno". Al contempo, fa presente che “tutti i paesi dell’Opec sono a favore di un incremento delle esplorazioni" ma queste sono state frenate dalle situazioni di embargo in Libia e in Iran e dalla guerra in Iraq” e che gli Stati Uniti minacciano di pesanti sanzioni chiunque investa in Iran. Nessun Paese Opec può fare investimenti in Paesi sotto embargo”. Quindi semmai sono proprio gli Stati Uniti e i loro alleati che fanno sì che l’offerta non possa essere maggiore, non certo i paesi produttori che ovviamente non ne traggono alcun vantaggio. E con la continua crisi USA-Iran, causata dai motivi suddetti, la situazione non potrà che peggiorare.


Punti sul vivo, gli yankees hanno lanciato in avanscoperta i loro amichetti sauditi e kuwaitini, i quali hanno annunciato di voler aumentare la loro produzione di greggio portandola a 9,7 milioni di barili il giorno entro il mese di Luglio, per l’Arabia Saudita, mentre da Kuwait City si sosteneva che “non esiteremo ad alzare la nostra produzione se fosse necessario per il mercato”, cercando quindi di spostare la palla nel campo dell’Opec.


Che la mossa sia esclusivamente propagandistica, e probabilmente teleguidata da Washington, lo si capisce dalla risposta fornita dallo stesso Khelil, il quale ha affermato che è perfettamente inutile aumentare la produzione del greggio se poi “non la si può poi raffinare”.



Ultima prova che il prezzo è dovuto da speculazioni finanziarie, è data dalla offerta dei cosiddetti “bio-carburanti”. Secondo Khelil, questi sono responsabili almeno per il 40% della crisi attuale, in quanto rappresentano la “causa di una reale deviazione dell’offerta, perchè allontanano i produttori dal diesel, molto richiesto ad esempio dalla Cina”. Che gli speculatori della globalizzazione siano dietro al bio-etanolo, è cosa ormai accertata, visto che in molti paesi le multinazionali pagano gli agricoltori affinché convertano i loro campi alla sua produzione, invece che a produrre cibo, col risultato di ottenere una doppia speculazione: relativa alle risorse energetiche e alimentari.



In definitiva, è assolutamente evidente, che non c’è proprio nulla di implicito nel gioco del libero mercato, nell’attuale situazione del prezzo del petrolio, ma che tutti noi, tutti gli abitanti del pianeta, continuano ad impoverirsi perché sono al centro di una spaventosa, quanto inumana, speculazione finanziaria delle lobbies mondialiste, sorrette dagli Stati Uniti e dall’Unione Europa.


Manuel Zanarini

15 luglio 2008

Grave crack bancario in California

Negli Stati Uniti è cominciata la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi. Presa d’assalto da migliaia di risparmiatori, che in due settimane hanno ritirato 1,3 miliardi di dollari, la IndyMac Bancorp, una banca californiana specializzata in mutui immobiliari, è infatti rimasta senza soldi ed è fallita. L’istituto, che a fine marzo valeva ancora 32 miliardi di dollari, è passato sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC).

I clienti della banca non perderanno i primi 100.000 dollari di deposito e recupereranno forse la metà del resto. L’istituto riaprirà i battenti oggi sotto l’amministrazione controllata della FDIC e si chiamerà IndyMac Federal Bank. Il costo del salvataggio dell’istituto si aggirerà attorno agli 8 miliardi di dollari. Il fallimento della IndyMac è il secondo grande crack bancario della crisi dei mutui subprime.

Il primo fu quello della Northern Rock, accaduto nell’autunno dell’anno scorso, che sta costando allo Stato britannico alcune decine di miliardi di dollari. È però il più grave degli ultimi 25 anni e nella graduatoria dei dissesti bancari americani si situa solo alle spalle di quello della Continental Illinois National Bank del 1984 e dell’American Savings & Loan di Stockton del 1988.

Ora vi è il grande timore che sia il primo di una serie di fallimenti delle 8.000 banche di piccole e medie dimensioni degli Stati Uniti, il cui stato di salute è molto precario. Infatti, come ha dichiarato Christopher Whalen, direttore della società di ricerca Institutional Risk Analytics, «molti temono che quanto è successo negli ultimi giorni in California sia solo un assaggio di quanto capiterà, poiché il fallimento della IndyMac è solo la punta dell’iceberg e vi saranno altre bancarotte».

Tutto ciò accade mentre si teme sulla sorte delle due grandi agenzie parastatali americane attive nel mercato dei mutui ipotecari. Secondo William Poole, ex membro del Direttorio della Fed, Fannie Mae e Freddie Mac sono prossime ad uno stato di insolvenza ed è quindi necessario un intervento immediato dello Stato federale. Indubbiamente, un dissesto di queste due agenzie, che non sono degli istituti bancari, farebbe apparire la bancarotta californiana una bagatella.

Infatti Fannie Mae e Freddie Mac finanziano o garantiscono la metà del totale delle ipoteche erogate negli Stati Uniti e hanno quindi passività che ammontano a 5.300 miliardi di dollari, ossia a circa il 40% del Pil statunitense. Evidentemente non verrà permesso che esse falliscano, ma il loro salvataggio sarà molto oneroso per lo Stato federale: 75 miliardi di dollari, se verrà scelta la via della loro ricapitalizzazione, oppure il raddoppio del debito pubblico americano, se lo Stato garantirà le obbligazioni che hanno erogato per finanziarsi.

Non sorprende che di fronte a questa prospettiva il dollaro sia ritornato ai minimi. Le difficoltà di Fannie Mae e di Freddie Mac e il crack dell’istituto californiano segnano un altro significativo peggioramento della crisi del sistema bancario. La montagna di crediti erogata negli ultimi anni e l’enorme volume di strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria rappresentano un macigno che non riescono ad erodere nemmeno i ripetuti interventi di salvataggio delle banche centrali e dello Stato federale americano. E ciò non può essere considerato una sorpresa.

Infatti l’economista Ludwig von Mises (1881-1973), appartenente alla cosiddetta Scuola austriaca, aveva scritto: «Non esiste modo di evitare il collasso finale di un boom generato dall’espansione indiscriminata del credito. L’unico interrogativo è se la crisi arriverà appena sarà abbandonata la politica dell’espansione del credito o in seguito sotto forma di totale distruzione del sistema e del suo sistema monetario».

A conclusioni analoghe era giunto anche l’economista americano Hyman Philip Minsky (1919-1996) nel suo libro tradotto in italiano con il titolo: «Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29». Vi è da sperare che le loro analisi non siano adeguate alla realtà attuale. Sta di fatto però che questa crisi, che è prossima a «festeggiare» il primo compleanno, non è assolutamente prossima alla conclusione. Anzi, di giorno in giorno diventa più grave e più pericolosa.

Alfonso Tuor

14 luglio 2008

Tremonti sulla scena internazionale



Il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, sostenitore della proposta della Nuova Bretton Woods e del programma del Ponte Eurasiatico di sviluppo di LaRouche, ha lanciato una serie di iniziative contro la speculazione in occasione dei vertici del G-8 e dell’UE che hanno creato un abbrivo sfavorevole all'oligarchia finanziaria anglo-olandese e che non mancheranno di sortire effetti anche sulla campagna presidenziale USA.

Al vertice finanziario di Osaka del G-8 Tremonti ha lanciato un appello affinché si ponga fine ai flussi speculativi che spingono in alto i prezzi del petrolio e delle commodities. Due settimane dopo, la proposta di Tremonti ha ricevuto il sostegno di Robert Rubin. L’ex Segretario del Tesoro USA, così come lo stesso presidente Clinton, si era fatto promotore di “una nuova architettura finanziaria” prima che il caso Lewinsky paralizzasse la vita politica americana. Attualmente personaggio influente del partito democratico, Rubin è stato invitato a parlare ad una conferenza internazionale che si è tenuta a Roma sui rapporti USA-Europa, organizzata dall’Aspen Institute Italia, di cui Tremonti è presidente. Il Corriere della Sera ha riferito il 1 luglio che Rubin ha chiesto “più trasparenza e più controlli sui bilanci bancari aumentando i requisiti di capitale per i future”. Questo coincide con la proposta di Tremonti.

Mario Draghi, per conto della finanza anglo-olandese, si è espresso contro iniziative del genere. Nel suo discorso alla conferenza dell’Aspen, il governatore di Bankitalia, che è anche presidente del Global Financial Stability Forum, ha parlato della pericolosità di interferenze sul "mercato” da parte dei governi che intedono ripristinare delle regole ed ha difeso il suo FSF come l’istituzione delegata a occuparsi di riforma del sistema finanziario.

La risposta di Tremonti è arrivata in serata. Nel corso di un’intervista televisiva ha detto a proposito del Forum di Draghi che “è come mettere i topi a guardia del formaggio”. “La speculazione finanziaria” ha continuato Tremonti "la subiamo tutti, e soprattutto chi sta peggio, i più poveri." “Dobbiamo contrastare la speculazione, peste di questo principio di secolo... non è più tempo di mercati, dei mercanti, dei banchieri d'affari. Non è più tempo della tecnica. E' il tempo dei governo che debbono farsi carico della responsabilità che hanno. Occorre che ci si trovi tutti intorno a un tavolo. Basterebbe un'economia meno falsa di quella che c'è adesso, meno truccata." Il governo italiano, ha detto Tremonti, ha presentato la questione a livello di G8 e lo farà di nuovo in sede europea.

Il giorno seguente, infatti, in una seduta delle Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato, Tremonti ha annunciato la propria decisione di chiedere all’Unione Europea di applicare l’Articolo 81 del Trattato istitutivo della Comunità europea, che prevede misure per contrastare la speculazione. L’annuncio ha provocato numerose reazioni immediate.

Ambrose Evans-Pritchard, portavoce di certi strati dell’oligarchia britannica, il 4 luglio ha scritto, con tono isterico, che la proposta di Tremonti ha il sostegno della Francia e che potrebbe effettivamente essere approvata dal Consiglio Europeo, danneggiando seriamente gli interessi di Londra. “Le decisioni sull’Articolo 81 in teoria possono essere approvate con un voto a maggioranza qualificata, annullando così un veto dei governi britannico e irlandese. Ogni tentativo del genere di limitare i mercati dei future e dei derivati finirebbe per avere grosse conseguenze sull’industria finanziaria della City di Londra e Dublino. E’ tutt’altro che chiaro se l’Inghilterra possa costituire un’alleanza capace di resistere nell’attuale clima contrario al mercato”.

Il 6 luglio Tremonti ha ricevuto un formidabile sostegno dal Papa, che ha lanciato un appello ai capi di governo riuniti al G-8 "affinché al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere, la cui vulnerabilità è oggi accresciuta a causa delle speculazioni e delle turbolenze finanziarie e dei loro effetti perversi sui prezzi degli alimenti e dell’energia".

Movisol contesta Draghi a Mirandola

Il 5 luglio il prof. Flavio Tabanelli, rappresentante del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, ha contestato il governatore di Bankitalia e capo del Financial Stability Forum, Mario Draghi, nel corso della cerimonia per il conferimento del premio "Pico della Mirandola". Riportando l'avvenimento, la Gazzetta di Modena ha scritto: "Alla chiusura della cerimonia il professore mirandolese Tabanelli ha tentato inutilmente una domanda di contestazione a Draghi: 'Draghi continua a salvaguardare le istituzioni speculative. Roosevelt invece salvò le banche ma a patto che esse continuassero a occuparsi del credito capillare'". L'articolo notava ironicamente che Draghi, "ex vicepresidente della banca d'affari Goldman e Sachs", è stato contestato anche dai dipendenti delle 39 filiali Bankitalia che vanno verso la chiusura, inclusa quella di Modena.

Fonte: Movisol

Petrolio alle stalle: la colpa a chi?


Come tutti sappiamo, ormai il prezzo del petrolio, e di conseguenza della benzina, è alle stelle. Sulle cause si possono evidenziare due scuole di pensiero: chi dice che è frutto del libero gioco del mercato (USA, UE e compagnie petrolifere) e chi invece sottolinea che il gioco è truccato da una forte speculazione finanziaria (Tremonti, tanto per citarne uno su tutti).


Una delle teorie forti degli “ingenui”, che credono ancora (e almeno è quello che ci raccontano di credere) che il mercato sia il “metro” per valutare tutto, è che l’attuale crisi è dovuta all’atteggiamento dei Paesi produttori, i quali tengono bassa l’offerta per far aumentare i ricavi e con loro i guadagni.



Trovo illuminante, e derimente, l’intervista rilasciata agli organi di stampa qualche giorno fa, da Chakib Khelil, Ministro dell'Energia dell'Algeria e Presidente di turno dell'Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio.


Il Presidente ha affermato che il prezzo è destinato a salire ancora, a causa della debolezza del dollaro, ricordando che un calo di un solo punto percentuale della divisa statunitense, comporta un aumento del costo del petrolio di 4 dollari al barile!


Giova ricordare per l’ennesima volta, che questa assurda situazione, nella quale tutti i cittadini del mondo dipendono dalle scelte della Federal Reserve, è determinata dal fatto che gli Stati Uniti hanno imposto negli anni il dollaro come unica divisa per comprare il petrolio, cosa che ha dato enorme potere a Washington (visto i miliardi che entrano continuamente nelle loro casse) e sta tenendo in vita l’economia a stelle e strisce che, a causa del suo allucinante debito pubblico, sarebbe in bancarotta da un pezzo. Questo è il reale motivo della guerra in Iraq; infatti Saddam, il quale doveva il suo potere proprio agli USA che lo salvarono dall’Iran, si era messo a vendere petrolio alla Francia, grazie al programma “Oil for Food” in Euro, tanto che come ricorderete, Parigi si oppose fino all’ultimo all’invasione di Baghdad. Per lo stesso motivo, impedire che venga accettato l’Euro al posto del dollaro, si sta cercando la maniera di invadere l’Iran, il quale ha dichiarato che accetterà altre divise all’interno della sua nuova borsa del petrolio appena aperta sull’isola di Kish.



Va ulteriormente ricordato, che la crisi del dollaro è cominciata con la crisi dei mutui subprime, figlia di speculazioni finanziarie organizzate dalle lobbies newyorchesi. E’ prevista una ripresa del dollaro? Sicuramente non a breve, perché l’economia statunitense no da segni di ripresa, si guardi il caso della General Motors per farsene un’idea, ma soprattutto perché gravi colpi vengono infarti da Bruxelles e da quel “brav’ uomo” di Trichet, il Presidente della Banca Centrale Europea. Come? Semplice, i tassi della “zona Euro”, vengono tenuti molto più alti di quelli statunitensi, quasi il doppio, questo fa sì che i capitali esteri, cinesi soprattutto, si dirottino verso l’Europa, visto che si guadagna di più, col risultato che il dollaro continuerà a perdere peso e la vita per i cittadini di tutto il mondo costerà sempre di più. In particolar modo per gli Europei, i quali oltre a dover pagare di più la benzina, il che vuol dire vedere aumentare tutti i costi, dagli spostamenti alle bollette ai beni alimentari, con l’aggravante di dover pagare maggiori interessi sui soldi che prenderanno in prestito per arrivare a fine mese. Ovviamente, tutto questo è un caso, e l’aumento voluto da Bruxelles serve a frenare l’inflazione!!!!



Lo stesso Khalil ha fatto notare che i paesi produttori non godono affatto dell’attuale situazione dei prezzi, in quanto questa sta drammaticamente riducendo la domanda, annullando i teorici maggiori guadagni. Giustamente, sottolinea che l’attuale fornitura di petrolio sui mercati “sia sufficiente e che questo equilibrio sia nell'interesse di tutti e non dovrebbe essere turbato perché l'attuale rincaro del petrolio non e' nell'interesse di nessuno". Al contempo, fa presente che “tutti i paesi dell’Opec sono a favore di un incremento delle esplorazioni" ma queste sono state frenate dalle situazioni di embargo in Libia e in Iran e dalla guerra in Iraq” e che gli Stati Uniti minacciano di pesanti sanzioni chiunque investa in Iran. Nessun Paese Opec può fare investimenti in Paesi sotto embargo”. Quindi semmai sono proprio gli Stati Uniti e i loro alleati che fanno sì che l’offerta non possa essere maggiore, non certo i paesi produttori che ovviamente non ne traggono alcun vantaggio. E con la continua crisi USA-Iran, causata dai motivi suddetti, la situazione non potrà che peggiorare.


Punti sul vivo, gli yankees hanno lanciato in avanscoperta i loro amichetti sauditi e kuwaitini, i quali hanno annunciato di voler aumentare la loro produzione di greggio portandola a 9,7 milioni di barili il giorno entro il mese di Luglio, per l’Arabia Saudita, mentre da Kuwait City si sosteneva che “non esiteremo ad alzare la nostra produzione se fosse necessario per il mercato”, cercando quindi di spostare la palla nel campo dell’Opec.


Che la mossa sia esclusivamente propagandistica, e probabilmente teleguidata da Washington, lo si capisce dalla risposta fornita dallo stesso Khelil, il quale ha affermato che è perfettamente inutile aumentare la produzione del greggio se poi “non la si può poi raffinare”.



Ultima prova che il prezzo è dovuto da speculazioni finanziarie, è data dalla offerta dei cosiddetti “bio-carburanti”. Secondo Khelil, questi sono responsabili almeno per il 40% della crisi attuale, in quanto rappresentano la “causa di una reale deviazione dell’offerta, perchè allontanano i produttori dal diesel, molto richiesto ad esempio dalla Cina”. Che gli speculatori della globalizzazione siano dietro al bio-etanolo, è cosa ormai accertata, visto che in molti paesi le multinazionali pagano gli agricoltori affinché convertano i loro campi alla sua produzione, invece che a produrre cibo, col risultato di ottenere una doppia speculazione: relativa alle risorse energetiche e alimentari.



In definitiva, è assolutamente evidente, che non c’è proprio nulla di implicito nel gioco del libero mercato, nell’attuale situazione del prezzo del petrolio, ma che tutti noi, tutti gli abitanti del pianeta, continuano ad impoverirsi perché sono al centro di una spaventosa, quanto inumana, speculazione finanziaria delle lobbies mondialiste, sorrette dagli Stati Uniti e dall’Unione Europa.


Manuel Zanarini