15 luglio 2008

Grave crack bancario in California

Negli Stati Uniti è cominciata la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi. Presa d’assalto da migliaia di risparmiatori, che in due settimane hanno ritirato 1,3 miliardi di dollari, la IndyMac Bancorp, una banca californiana specializzata in mutui immobiliari, è infatti rimasta senza soldi ed è fallita. L’istituto, che a fine marzo valeva ancora 32 miliardi di dollari, è passato sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC).

I clienti della banca non perderanno i primi 100.000 dollari di deposito e recupereranno forse la metà del resto. L’istituto riaprirà i battenti oggi sotto l’amministrazione controllata della FDIC e si chiamerà IndyMac Federal Bank. Il costo del salvataggio dell’istituto si aggirerà attorno agli 8 miliardi di dollari. Il fallimento della IndyMac è il secondo grande crack bancario della crisi dei mutui subprime.

Il primo fu quello della Northern Rock, accaduto nell’autunno dell’anno scorso, che sta costando allo Stato britannico alcune decine di miliardi di dollari. È però il più grave degli ultimi 25 anni e nella graduatoria dei dissesti bancari americani si situa solo alle spalle di quello della Continental Illinois National Bank del 1984 e dell’American Savings & Loan di Stockton del 1988.

Ora vi è il grande timore che sia il primo di una serie di fallimenti delle 8.000 banche di piccole e medie dimensioni degli Stati Uniti, il cui stato di salute è molto precario. Infatti, come ha dichiarato Christopher Whalen, direttore della società di ricerca Institutional Risk Analytics, «molti temono che quanto è successo negli ultimi giorni in California sia solo un assaggio di quanto capiterà, poiché il fallimento della IndyMac è solo la punta dell’iceberg e vi saranno altre bancarotte».

Tutto ciò accade mentre si teme sulla sorte delle due grandi agenzie parastatali americane attive nel mercato dei mutui ipotecari. Secondo William Poole, ex membro del Direttorio della Fed, Fannie Mae e Freddie Mac sono prossime ad uno stato di insolvenza ed è quindi necessario un intervento immediato dello Stato federale. Indubbiamente, un dissesto di queste due agenzie, che non sono degli istituti bancari, farebbe apparire la bancarotta californiana una bagatella.

Infatti Fannie Mae e Freddie Mac finanziano o garantiscono la metà del totale delle ipoteche erogate negli Stati Uniti e hanno quindi passività che ammontano a 5.300 miliardi di dollari, ossia a circa il 40% del Pil statunitense. Evidentemente non verrà permesso che esse falliscano, ma il loro salvataggio sarà molto oneroso per lo Stato federale: 75 miliardi di dollari, se verrà scelta la via della loro ricapitalizzazione, oppure il raddoppio del debito pubblico americano, se lo Stato garantirà le obbligazioni che hanno erogato per finanziarsi.

Non sorprende che di fronte a questa prospettiva il dollaro sia ritornato ai minimi. Le difficoltà di Fannie Mae e di Freddie Mac e il crack dell’istituto californiano segnano un altro significativo peggioramento della crisi del sistema bancario. La montagna di crediti erogata negli ultimi anni e l’enorme volume di strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria rappresentano un macigno che non riescono ad erodere nemmeno i ripetuti interventi di salvataggio delle banche centrali e dello Stato federale americano. E ciò non può essere considerato una sorpresa.

Infatti l’economista Ludwig von Mises (1881-1973), appartenente alla cosiddetta Scuola austriaca, aveva scritto: «Non esiste modo di evitare il collasso finale di un boom generato dall’espansione indiscriminata del credito. L’unico interrogativo è se la crisi arriverà appena sarà abbandonata la politica dell’espansione del credito o in seguito sotto forma di totale distruzione del sistema e del suo sistema monetario».

A conclusioni analoghe era giunto anche l’economista americano Hyman Philip Minsky (1919-1996) nel suo libro tradotto in italiano con il titolo: «Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29». Vi è da sperare che le loro analisi non siano adeguate alla realtà attuale. Sta di fatto però che questa crisi, che è prossima a «festeggiare» il primo compleanno, non è assolutamente prossima alla conclusione. Anzi, di giorno in giorno diventa più grave e più pericolosa.

Alfonso Tuor

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15 luglio 2008

Grave crack bancario in California

Negli Stati Uniti è cominciata la corsa agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi. Presa d’assalto da migliaia di risparmiatori, che in due settimane hanno ritirato 1,3 miliardi di dollari, la IndyMac Bancorp, una banca californiana specializzata in mutui immobiliari, è infatti rimasta senza soldi ed è fallita. L’istituto, che a fine marzo valeva ancora 32 miliardi di dollari, è passato sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC).

I clienti della banca non perderanno i primi 100.000 dollari di deposito e recupereranno forse la metà del resto. L’istituto riaprirà i battenti oggi sotto l’amministrazione controllata della FDIC e si chiamerà IndyMac Federal Bank. Il costo del salvataggio dell’istituto si aggirerà attorno agli 8 miliardi di dollari. Il fallimento della IndyMac è il secondo grande crack bancario della crisi dei mutui subprime.

Il primo fu quello della Northern Rock, accaduto nell’autunno dell’anno scorso, che sta costando allo Stato britannico alcune decine di miliardi di dollari. È però il più grave degli ultimi 25 anni e nella graduatoria dei dissesti bancari americani si situa solo alle spalle di quello della Continental Illinois National Bank del 1984 e dell’American Savings & Loan di Stockton del 1988.

Ora vi è il grande timore che sia il primo di una serie di fallimenti delle 8.000 banche di piccole e medie dimensioni degli Stati Uniti, il cui stato di salute è molto precario. Infatti, come ha dichiarato Christopher Whalen, direttore della società di ricerca Institutional Risk Analytics, «molti temono che quanto è successo negli ultimi giorni in California sia solo un assaggio di quanto capiterà, poiché il fallimento della IndyMac è solo la punta dell’iceberg e vi saranno altre bancarotte».

Tutto ciò accade mentre si teme sulla sorte delle due grandi agenzie parastatali americane attive nel mercato dei mutui ipotecari. Secondo William Poole, ex membro del Direttorio della Fed, Fannie Mae e Freddie Mac sono prossime ad uno stato di insolvenza ed è quindi necessario un intervento immediato dello Stato federale. Indubbiamente, un dissesto di queste due agenzie, che non sono degli istituti bancari, farebbe apparire la bancarotta californiana una bagatella.

Infatti Fannie Mae e Freddie Mac finanziano o garantiscono la metà del totale delle ipoteche erogate negli Stati Uniti e hanno quindi passività che ammontano a 5.300 miliardi di dollari, ossia a circa il 40% del Pil statunitense. Evidentemente non verrà permesso che esse falliscano, ma il loro salvataggio sarà molto oneroso per lo Stato federale: 75 miliardi di dollari, se verrà scelta la via della loro ricapitalizzazione, oppure il raddoppio del debito pubblico americano, se lo Stato garantirà le obbligazioni che hanno erogato per finanziarsi.

Non sorprende che di fronte a questa prospettiva il dollaro sia ritornato ai minimi. Le difficoltà di Fannie Mae e di Freddie Mac e il crack dell’istituto californiano segnano un altro significativo peggioramento della crisi del sistema bancario. La montagna di crediti erogata negli ultimi anni e l’enorme volume di strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria rappresentano un macigno che non riescono ad erodere nemmeno i ripetuti interventi di salvataggio delle banche centrali e dello Stato federale americano. E ciò non può essere considerato una sorpresa.

Infatti l’economista Ludwig von Mises (1881-1973), appartenente alla cosiddetta Scuola austriaca, aveva scritto: «Non esiste modo di evitare il collasso finale di un boom generato dall’espansione indiscriminata del credito. L’unico interrogativo è se la crisi arriverà appena sarà abbandonata la politica dell’espansione del credito o in seguito sotto forma di totale distruzione del sistema e del suo sistema monetario».

A conclusioni analoghe era giunto anche l’economista americano Hyman Philip Minsky (1919-1996) nel suo libro tradotto in italiano con il titolo: «Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29». Vi è da sperare che le loro analisi non siano adeguate alla realtà attuale. Sta di fatto però che questa crisi, che è prossima a «festeggiare» il primo compleanno, non è assolutamente prossima alla conclusione. Anzi, di giorno in giorno diventa più grave e più pericolosa.

Alfonso Tuor

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