24 novembre 2007

I mutui subprime non pignorabili



STATI UNITI - La Deutsche Bank voleva pignorare 14 case di altrettanti proprietari che non riuscivano a pagare il mutuo a Cleveland, nell’Ohio.
Un giudice federale - di nome C.A. Boyko - ha dato torto alla potente banca.
Le cui azioni sono ulteriormente precipitate.
Ecco cosa attende i creditori esteri del debitore USA, si potrebbe concludere.
Ma la morale della storia è un’altra, molto più significativa.
E che suona vendetta per gli indebitati, e rovina per la speculazione.

Il giudice federale Boyko ha chiesto alla Deutsche di esibire i documenti comprovanti il titolo legale alle 14 case.
Le Deutsche Bank National Trust (la sussidiaria americana) non è stato in grado di farlo: non aveva in mano il contratto di mutuo vero e proprio, la prova dell’ipoteca gravante sugli immobili.
Tutto ciò che avevano erano delle «securities», obbligazioni, dove migliaia di mutui acquistati da piccole banche locali di prestito sono stati confezionati insieme dalla «ingegneria finanziaria» e rivenduti ad altri: fondi pensioni, privati risparmiatori, altre banche.

La Deutsche Bank stessa è stata sia confezionatrice di questi pacchetti tossici, sia - evidentemente - acquirente.
Si vendevano, eccome.
Standard & Poors assicurava che questi pacchetti erano AAA, ossia «sicuri», anche se (in una confezione che poteva contenere mille mutui) almeno un 20% erano stati contratti da debitori «subprime», ossia pagatori poco affidabili.
Ma si guadagnavano gli interessi su quelle «securities», consistenti nei ratei di mutuo che i più pagavano.

Si calcola che siano in circolazione 6.500 miliardi di dollari di questi pacchetti, titoli di debito «sostenuti» da patrimonio fisico, una casa («asset backed securities»).
Cifra eguale ai due terzi del reddito interno lordo americano.
Ed ora, grazie al giudice dell’Ohio, si scopre che - a causa della sofisticata struttura di quelle obbligazioni e della dispersione incredibile che hanno subito - non si riesce a sapere chi possieda il contratto di mutuo, il documento fisico comprovante l’ipoteca.

Miracolo della virtualizzazione estrema della finanza più disincarnata: tutto ciò che ha la Deutsche Bank è un documento, la famosa obbligazione-pacchetto, che rappresenta un «intento di cedere i diritti di mutuo».
Ma l’asset (l’immobile) che presuntivamente la «garantisce» («backed») non si sa di chi sia, né chi abbia in mano il documento relativo.
I geni della finanza creativa non avevano pensato a questo piccolo particolare.

Nel caso specifico, la Deutsche Bank ha agito come «Trustee» (fiduciario organizzatore) di «consorzi di cartolarizzazione» («securitization pools») di gruppi disparati di investitori sparsi per il mondo.
Ma il documento di mutuo richiesto dal giudice per provare che la banca era la creditrice e datrice del mutuo stesso, non è stato possibile esibirlo.
Dov’è?
Chi lo detiene?
Forse le piccole banche che hanno acceso il mutuo originario: ma quali?
Come identificarle, visto che la obbligazione («security») è un miscuglio di un migliaio di ipoteche diverse, anzi di porzioni di ipoteche?

Gli avvocati della Deutsche Bank hanno potuto solo sussurrare che in passato, per anni, le banche hanno potuto sequestrare i beni immobili a mutuo «securitizzato» senza suscitare obiezioni.
La risposta del giudice Boyko dovrà essere scritta nel marmo: «Le banche sembrano dare per scontato che siccome hanno fatto qualcosa per tanto tempo senza opposizione, la consuetudine equivalga alla legalità. Ora che questa pratica è stata messa alla prova, i loro argomenti legali deboli obbligano la corte a fermare la banca sul portone».

Si ritiene che siano forse due milioni di debitori con mutuo a tasso variabile (al 100% e con i primi due anni a tasso bassissimo); e che tra dicembre 2007 e luglio 2008 ben 690 miliardi di dollari di questi mutui subiranno un crudele rialzo degli interessi, perché il biennio di grazia scade.
E ciò proprio nel momento in cui la recessione si incrudelisce, e i redditi dei piccoli debitori probabilmente caleranno o cesseranno.
Centinaia di migliaia di abitanti ricorreranno all’ultima risorsa del debitore: non pagare il rateo mensile.
Si capisce bene perché, dopo questa sentenza - riguardante 14 villette unifamigliari, che la Deutsche Bank potrebbe comprarsi con un milionesimo dei suoi capitali - le azioni della banca tedesco -americana siano crollate.

Ora, se la decisione del giudice di Cleveland non sarà riformata dalla Corte suprema, milioni di debitori col mutuo andranno in fallimento, ma le banche non potranno sequestrare le case per rivenderle.
Per i piccoli proprietari insolventi sarà un dramma, anche perché le case tecnicamente requisibili crolleranno di prezzo (ma forse potranno continuare ad abitarle).
Ma per il sistema bancario americano (e quello internazionale che l’ha seguito nella follia) sarà come il grippaggio del motore in un’auto in corsa, o come uno di quegli ingorghi a croce uncinata dove nessuna auto può andare né avanti né indietro.
O meglio ancora, uno tsunami finanziario, come lo ha chiamato William Engdahl, a cui dobbiamo questa notizia .

Engdahl promette una seconda puntata, in cui specificherà le conseguenze.
Lo attendiamo con ansia, non riuscendo a comprendere sui due piedi tutti i titanici effetti convergenti e complessivi che questa sentenza avrà sul sistema finanziario mondiale e sull’economia sottostante; effetti sicuramente ampliati dalla globalizzazione stessa, che ha asportato le paratie difensive tra le economie nazionali.
La fantasia non arriva a tanto.
E si ha paura ad immaginare tutto.

«Le conseguenze di questa sentenza sono così immense, che non è possibile descriverle», ha infatti confidato all’EIR un’alta fonte della finanza europea .
Questo personaggio ha chiesto in giro nell’ambiente, e ancora nessuno sapeva della sentenza dell’Ohio.
Solo per questo, secondo lui, la baracca della finanza globale sta ancora in qualche modo in piedi.

Questo personaggio paventa inoltre che dietro l’incapacità della Deutsche Bank di fornire il documento dell’ipoteca ci sia un trucco e un buco potenziale ancora più spaventoso: forse la finanza creativa ha moltiplicato gli «asset» presunti (gli immobili) a sostegno delle obbligazioni «asset backed», vendendone più e più volte i medesimi presunti «attivi».
Qualcosa da far impallidire Enron e Parmalat messe assieme.

Ora comincia una nuova fase, ha detto questa fonte, in cui anche i mutui «prime» (contratti da famiglie solvibili e targati AAA) stanno «andando sotto».
Poi, verso fine anno, andranno sotto le borse, la seconda gamba dell’illusionista prosperità finanziaria.
«In ogni consiglio d’amministrazione domina il panico più completo, in quanto nessuno riesce a prevedere le conseguenze delle loro azioni».
Come non bastasse, nota la fonte dell’EIR, dal primo gennaio andranno in vigore le nuove norme mondialiste per i mercati finanziali, il «Basilea II», che essenzialmente consistono nel sostituire i vecchi vincoli di capitale bancario con un sistema di rating.

Di fatto, gli obblighi per le banche di tenere una quota di capitale come riserva porteranno ad un abbassamento di questo limite, mentre tutto sarà «valutato» con il rating.
Ma queste norme sono state pensate nei tempi del boom finanziario, quando le agenzie di rating erano ritenute vangelo (prima del disastro sub-prime), e quando nessuno poteva immaginare che un AAA potesse diventare un rating a rischio…
Ed oggi nessuno sa cosa accadrà quando entrerà in vigore Basilea II.
Paralizzati dalla paura e dall’impotenza, i consigli d’amministrazione penseranno a come cavarsela: non dalla crisi, ma dai plotoni d’esecuzione?
Magari.
Ma non ci contate.
Sappiamo già chi sarà impiccato alla grande crisi.
Nino Galloni fornisce infatti un dato che dice come si è arrivati a questo .

Nel 2006, il prodotto interno lordo USA è stato di 13 mila miliardi di dollari; per contro, il reddito nazionale netto degli americani è stato di 9 mila miliardi.
Ciò vuol dire che per comprare ciò che producono, gli americani (una forza-lavoro tra le più produttive del mondo) ha dovuto indebitarsi per la differenza (4 mila miliardi) o poco meno.
Ciò significa che il lavoro è stato retribuito il 30% in meno della produzione che dà.
E per giunta, deve pagare alle banche o ad altri prestatori il 30% del proprio reddito annuo medio.
A chi è andata la differenza enorme - 4 trilioni - tra redditi e valore della produzione?

A enti come Goldman Sachs, alla speculazione in generale, e alle guerre.
Succede anche in Italia, ma a noi è meno chiaro per chi stentiamo con potere d’acquisto calante, e per chi dobbiamo indebitarci: per la Casta, l’idrovora del nostro differenziale.
E gli uni e gli altri hanno tutti i mezzi per tenerci buoni: compresi i plotoni d’esecuzione.

Maurizio Blondet

23 novembre 2007

Quando il Parlamento europeo accusò il “sistema” berlusconiano “Raiset”.



Correva l’anno 2004, era di aprile e il Parlamento europeo, poco prima di chiudere i battenti per le nuove elezioni continentali, approvava a larga maggioranza trasversale una deliberazione sul pluralismo nei media, la libertà di comunicazione e i conflitti di interesse. In Italia era in piena funzione il “regime berlusconiano” nei media e, anche alla luce delle recenti intercettazioni telefoniche, esisteva un sistema di comprimere la realtà ad uso e consumo del Cavaliere di Arcore. L’anomalia italiana, rispetto alla situazione degli altri paesi europei saltò agli occhi dell’intero Parlamento europeo, allertato anche dagli esposti presentati da Articolo 21, dalla FNSI e dalla CGIL. “Parole al vento”, forse? Ma quell’atto di accusa istituzionale ora suona come profetico e anche come un monito a quanti tra gli organi di stampa, opinionisti “terzisti e cerchiobottisti”, preferirono voltarsi dall’altra parte o parlare di eccesso furore antiberlusconiano. Da allora l’Italia venne inserita nella lista degli “osservati speciali” dalle istituzioni internazionali che la retrocessero negli ultimi posti della speciale classifica sulla libertà fondamentali, come quella dell’informazione e del pluralismo. Ci voleva ,come sempre nella recente storia nazionale, l’intervento della magistratura, perché partiti e grande stampa si accorgessero del cancro che si stava insediando nel nostro sistema mediatico, senza che finora ( a 18 mesi dalla vittoria del centrosinistra) venisse cambiato lo stato delle cose. Speriamo che la lezione serva a qualcosa!
Ecco qui di seguito la parte della Risoluzione del Parlamento europeo.
"Situazione in Italia:
55. rileva che il tasso di concentrazione del mercato televisivo in Italia è oggi il più elevato d'Europa e che, nonostante l'offerta televisiva italiana consti di dodici canali nazionali e da dieci a quindici canali regionali e locali, il mercato è caratterizzato dal duopolio tra RAI e Mediaset, che complessivamente detengono quasi il 90% della quota totale di telespettatori e raccolgono il 96,8% delle risorse pubblicitarie, contro l'88% della Germania, l'82% della Gran Bretagna, il 77% della Francia e il 58% della Spagna;
56. rileva che il gruppo Mediaset è il più importante gruppo privato italiano nel settore delle comunicazioni e dei media televisivi e uno dei maggiori a livello mondiale, controllando tra l'altro reti televisive (RTI S.p.A.) e concessionarie di pubblicità (Publitalia '80), entrambe riconosciute formalmente in posizione dominante e in violazione della normativa nazionale (legge 249/97) dall'Autorità per la garanzia delle comunicazioni (delibera 226/03 ;
57. rileva che uno dei settori nel quale più evidente è il conflitto di interessi è quello della pubblicità, tanto che il gruppo Mediaset nel 2001 ha ottenuto i 2/3 delle risorse pubblicitarie televisive, pari ad un ammontare di 2500 milioni di euro, e che le principali società italiane hanno trasferito gran parte degli investimenti pubblicitari dalla carta stampata alle reti Mediaset e dalla Rai a Mediaset ;
58. rileva che il Presidente del Consiglio non ha risolto il suo conflitto di interessi, come si era esplicitamente impegnato, bensì ha incrementato la sua quota di controllo societario della società Mediaset (dal 48,639% al 51,023%): questa ha così ridotto drasticamente il proprio indebitamento netto, attraverso un sensibile incremento degli introiti pubblicitari a scapito delle entrate (e degli indici di ascolto) della concorrenza e, soprattutto, del finanziamento pubblicitario della carta stampata;
59. lamenta le ripetute e documentate ingerenze, pressioni e censure governative nell'organigramma e nella programmazione del servizio televisivo pubblico Rai (perfino nei programmi di satira), a partire dall'allontanamento di tre noti professionisti su clamorosa richiesta pubblica del Presidente del Consiglio nell'aprile 2002 – in un quadro in cui la maggioranza assoluta del consiglio di amministrazione della Rai e dell'apposito organo parlamentare di controllo è composta da membri dei partiti di governo; tali pressioni sono state poi estese anche su altri media non di sua proprietà, che hanno condotto fra l'altro, nel maggio 2003, alle dimissioni del direttore del Corriere della Sera;
60. rileva pertanto che il sistema italiano presenta un'anomalia dovuta a una combinazione unica di poteri economico, politico e mediatico nelle mani di un solo uomo, l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri italiano e al fatto che il governo italiano è, direttamente o indirettamente, in controllo di tutti i canali televisivi nazionali;
61. prende atto del fatto che in Italia da decenni il sistema radiotelevisivo opera in una situazione di assenza di legalità, accertata ripetutamente dalla Corte costituzionale e di fronte alla quale il concorso del legislatore ordinario e delle istituzioni preposte è risultato incapace del ritorno ad un regime legale; Rai e Mediaset continuano a controllare ciascuna tre emittenti televisive analogiche terrestri, malgrado la Corte costituzionale, con la sentenza n. 420 del 1994, avesse statuito che non è consentito ad uno stesso soggetto di irradiare più del 20% dei programmi televisivi su frequenze terrestri in ambito nazionale (vale a dire più di due programmi), ed avesse definito il regime normativo della legge n. 223/90 contrario alla Costituzione italiana, pur essendo un "regime transitorio"; nemmeno la legge 249/97 (Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo) aveva accolto le prescrizioni della Corte costituzionale che, con la sentenza 466/02, ne dichiarò l'illegittimità costituzionale limitatamente all'articolo 3, comma 7, "nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi, irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso articolo 3, devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo";
62. prende atto del fatto che la Corte costituzionale italiana, nel novembre 2002 (causa 466/2002), ha dichiarato che " ...la formazione dell'esistente sistema televisivo italiano privato in ambito nazionale ed in tecnica analogica trae origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze (esercizio di impianti senza rilascio di concessioni e autorizzazioni), al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle frequenze e di pianificazione effettiva dell'etere ... La descritta situazione di fatto non garantisce, pertanto, l'attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, che rappresenta uno degli "imperativi" ineludibili emergenti dalla giurisprudenza costituzionale in materia ... In questo quadro la protrazione della situazione (peraltro aggravata) già ritenuta illegittima dalla sentenza n° 420 del 1994 ed il mantenimento delle reti considerate ancora "eccedenti" dal legislatore del 1997 esigono, ai fini della compatibilità con i principi costituzionali, che sia previsto un termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile" , e del fatto che ciononostante il termine per la riforma del settore audiovisivo non è stato rispettato e che il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge per la riforma del settore audiovisivo per un nuovo esame in quanto non conforme ai principi dichiarati dalla Corte costituzionale ;
63. prende atto altresì del fatto che gli indirizzi stabiliti dalla commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi per la concessionaria unica del servizio pubblico radiotelevisivo, come pure le numerose delibere, che certificano violazioni di legge da parte delle emittenti, adottate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (incaricata di far rispettare le leggi nel settore radiotelevisivo), non vengono rispettati dalle emittenti stesse che continuano a consentire l'accesso ai media televisivi nazionali in modo sostanzialmente arbitrario, persino in campagna elettorale;
64. auspica che la definizione legislativa, contenuta nel progetto di legge per la riforma del settore audiovisivo (Legge Gasparri, articolo 2, lettera G), del "sistema integrato delle comunicazioni" quale unico mercato rilevante non sia in contrasto con le regole comunitarie in materia di concorrenza, ai sensi dell'articolo 82 del trattato CE e di numerose sentenze della Corte di giustizia e non renda impossibile una definizione chiara e certa del mercato di riferimento;
65. auspica altresì che il "sistema di assegnazione delle frequenze", previsto dal progetto di legge Gasparri, non costituisca una mera legittimazione della situazione di fatto e che non si ponga in contrasto in particolare con la direttiva 2002/21/CE, con l'articolo 7 della direttiva 2002/20/CE e con la direttiva 2002/77/CE, le quali prevedono, fra l'altro, che l'attribuzione delle frequenze radio per i servizi di comunicazione elettronica si debba fondare su criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati;
66. sottolinea la sua profonda preoccupazione circa la non applicazione della legge e la non esecuzione delle sentenze della Corte costituzionale, in violazione del principio di legalità e dello Stato di diritto, nonché circa l'incapacità di riformare il settore audiovisivo, in conseguenza delle quali da decenni risulta considerevolmente indebolito il diritto dei cittadini a un'informazione pluralistica, diritto riconosciuto anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
67. esprime preoccupazione per il fatto che la situazione vigente in Italia possa insorgere in altri Stati membri e nei paesi in via di adesione qualora un magnate dei media decidesse di entrare in politica;
68. si rammarica che il Parlamento italiano non abbia ancora approvato una normativa per risolvere il conflitto di interessi del Presidente del Consiglio, così come era stato promesso che sarebbe avvenuto entro i primi cento giorni del governo;
69. ritiene che l'adozione di una riforma generale del settore audiovisivo possa essere facilitata qualora contenga salvaguardie specifiche e adeguate volte a prevenire attuali o futuri conflitti di interessi nelle attività dei responsabili locali, regionali o nazionali che detengono interessi sostanziali nel settore audiovisivo privato;
70. auspica inoltre che il disegno di legge Frattini sul conflitto di interessi non si limiti ad un riconoscimento di fatto del conflitto di interessi del Premier, ma preveda dispositivi adeguati per evitare il perdurare di questa situazione;
71. si rammarica del fatto che, se gli obblighi degli Stati membri di assicurare il pluralismo dei media fossero stati definiti dopo il Libro verde sul pluralismo del 1992, probabilmente si sarebbe potuta evitare l'attuale situazione in Italia.
Al monito del Parlamento europeo il governo di Berlusconi rispose a suo modo: da difensore dell'azienda del "padre- padrone". Furono così approvate due leggi "vergogna", la Frattini per il conflitto d'interessi e la Gasparri sulla riforma della Rai ed il sistema dei media. Oggi sappiamo a chi facevano comodo.
Gianni Rossi

21 novembre 2007

La lunga mano di Berlusconi sulla Rai


Un asse segreto tra dirigenti Rai e Mediaset per oscurare la vittoria elettorale dell'Ulivo nelle elezioni regionali del 2005. E' quanto trapela dalla pubblicazione su Repubblica dei brogliacci delle intercettazioni depositate nell'ambito dell'inchiesta sul fallimento di HDC, la holding dell' ex sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi, Luigi Crespi.

Tra le varie sintesi pubblicate sulla doppia pagina di Repubblica, ve ne è una del dirigente rai ed ex segretaria del cavaliere Debora Bergamini. Alle 15 del 22 aprile "Debbi" afferma, secondo le indagini, "che Cattaneo (all'allora direttore generale rai, ndr) ha chiesto di condividere i loro pareri con quelli di Vespa al quale avrebbe chiesto di non confrontare i voti attuali con quelli delle scorse regionali".

Insomma, un sistematico tentativo di minimizzare la portata della vitoria dell'Ulivo alle regionali, tanto che alle 16 "Debbi" Bergamini avrebbe affermato che Benito (Benassi, vice direttore marketing Rai) ha intuito che il dg ' Cattaneo, " vuole che nella rappresentazione dei risultati elettorali si faccia piu' confusione possibile per camuffare la loro portata".

Debora Bergamini chiama il responsabile della prima rete e secondo gli investigatori che li intercettano "lo informa della programmazione televisiva di Canale 5. Del Noce dice di aver parlato con Rossella (allora direttore del Tg5, ndr). Debora dice di aver parlato con Mauro Crippa di Mediaset".

Il lunedi' 4 aprile, la Bergamini, secondo le intercettazioni, avrebbe parlato al telefono con un responsabile Mediaset dicendo che "loro fanno la prima serata sul Due per le elezioni e gli chiede di mettere una cosa forte in prima serata su Canale 5".

Insomma, il servizio pubblico messo al servizio della disinformatia in una rete fittissima di contatti tra i dirigenti fedeli a Berlusconi sia a Mediaset, della quale è come tutti sappiamo, il "mero proprietario", sia in Rai di cui appare dalle intercettazioni il padrone di fatto. Fatti salvi i non frequentissimi atti di seria resistenza da parte di alcuni dirigenti e giornalisti del servizio pubblico. Secondo Repubblica, vi sarebbero state anche telefonate ad Arcore ma quelle non possono essere trascritte perché riguardano la residenza di un parlamentare.

Il quadro che ne viene fuori è sconfortante. Notisti politici che si raccomandano al Cavaliere e subito dopo approdano in parlamento. Interventi del Tiger Team di Berlusconi in Rai per non far pesare persino la morte del Papa sull'affluenza alle urne e sulla guida del festival di Sanremo. La programmazione soggiogata agli interessi politico mediatici dell'allora presidente del consiglio al punto che il direttore generale Cattaneo, secondo gli investigatori della Finanza, "per Bergamini dice di aver parlato con Bonaiuti che era con Piersilvio, ma lui sta tenendo duro anche con gli altri dicendo che non è il caso di mandare in onda i dati.".

Erano i tempi in cui noi di articolo21 parlavamo di bavaglio mediatico, ma non sapevamo sino a qual punto e con quale intelligente metodica intesa col concorrente Mediaset.

Berlusconi, quello dell'edito contro Biagi, Santoro e Luttazzi, e con la consueta faccia di bronzo, aveva detto che in Rai, non avrebbe spostato una pianta. Già, nessuna pianta, tranne quella organica, a cominciare dal dg per piegarli ai suoi interessi d'intesa con la rete concorrente.

Bene ha fatto l'attuale dg Cappon a preannunciare azioni di tutela legale. Ma quel che vorrebbero i lavoratori rai e gli abbonati è un'autentica tutela politica, etica e morale del pubblico interesse. Perché non tutto quel che è lecito è opportuno.

Certo appaiono poco opportuni, decisamente contrari agli interessi della Rai, i Tiger Team di Supersilvio, i dg oscuratori e i dirigenti imbavagliatori, le infiltrazioni di interessi indicibili nella macchina del servizio pubblico. Mai più asservito. Mai più.
Ulderico Fortezza

24 novembre 2007

I mutui subprime non pignorabili



STATI UNITI - La Deutsche Bank voleva pignorare 14 case di altrettanti proprietari che non riuscivano a pagare il mutuo a Cleveland, nell’Ohio.
Un giudice federale - di nome C.A. Boyko - ha dato torto alla potente banca.
Le cui azioni sono ulteriormente precipitate.
Ecco cosa attende i creditori esteri del debitore USA, si potrebbe concludere.
Ma la morale della storia è un’altra, molto più significativa.
E che suona vendetta per gli indebitati, e rovina per la speculazione.

Il giudice federale Boyko ha chiesto alla Deutsche di esibire i documenti comprovanti il titolo legale alle 14 case.
Le Deutsche Bank National Trust (la sussidiaria americana) non è stato in grado di farlo: non aveva in mano il contratto di mutuo vero e proprio, la prova dell’ipoteca gravante sugli immobili.
Tutto ciò che avevano erano delle «securities», obbligazioni, dove migliaia di mutui acquistati da piccole banche locali di prestito sono stati confezionati insieme dalla «ingegneria finanziaria» e rivenduti ad altri: fondi pensioni, privati risparmiatori, altre banche.

La Deutsche Bank stessa è stata sia confezionatrice di questi pacchetti tossici, sia - evidentemente - acquirente.
Si vendevano, eccome.
Standard & Poors assicurava che questi pacchetti erano AAA, ossia «sicuri», anche se (in una confezione che poteva contenere mille mutui) almeno un 20% erano stati contratti da debitori «subprime», ossia pagatori poco affidabili.
Ma si guadagnavano gli interessi su quelle «securities», consistenti nei ratei di mutuo che i più pagavano.

Si calcola che siano in circolazione 6.500 miliardi di dollari di questi pacchetti, titoli di debito «sostenuti» da patrimonio fisico, una casa («asset backed securities»).
Cifra eguale ai due terzi del reddito interno lordo americano.
Ed ora, grazie al giudice dell’Ohio, si scopre che - a causa della sofisticata struttura di quelle obbligazioni e della dispersione incredibile che hanno subito - non si riesce a sapere chi possieda il contratto di mutuo, il documento fisico comprovante l’ipoteca.

Miracolo della virtualizzazione estrema della finanza più disincarnata: tutto ciò che ha la Deutsche Bank è un documento, la famosa obbligazione-pacchetto, che rappresenta un «intento di cedere i diritti di mutuo».
Ma l’asset (l’immobile) che presuntivamente la «garantisce» («backed») non si sa di chi sia, né chi abbia in mano il documento relativo.
I geni della finanza creativa non avevano pensato a questo piccolo particolare.

Nel caso specifico, la Deutsche Bank ha agito come «Trustee» (fiduciario organizzatore) di «consorzi di cartolarizzazione» («securitization pools») di gruppi disparati di investitori sparsi per il mondo.
Ma il documento di mutuo richiesto dal giudice per provare che la banca era la creditrice e datrice del mutuo stesso, non è stato possibile esibirlo.
Dov’è?
Chi lo detiene?
Forse le piccole banche che hanno acceso il mutuo originario: ma quali?
Come identificarle, visto che la obbligazione («security») è un miscuglio di un migliaio di ipoteche diverse, anzi di porzioni di ipoteche?

Gli avvocati della Deutsche Bank hanno potuto solo sussurrare che in passato, per anni, le banche hanno potuto sequestrare i beni immobili a mutuo «securitizzato» senza suscitare obiezioni.
La risposta del giudice Boyko dovrà essere scritta nel marmo: «Le banche sembrano dare per scontato che siccome hanno fatto qualcosa per tanto tempo senza opposizione, la consuetudine equivalga alla legalità. Ora che questa pratica è stata messa alla prova, i loro argomenti legali deboli obbligano la corte a fermare la banca sul portone».

Si ritiene che siano forse due milioni di debitori con mutuo a tasso variabile (al 100% e con i primi due anni a tasso bassissimo); e che tra dicembre 2007 e luglio 2008 ben 690 miliardi di dollari di questi mutui subiranno un crudele rialzo degli interessi, perché il biennio di grazia scade.
E ciò proprio nel momento in cui la recessione si incrudelisce, e i redditi dei piccoli debitori probabilmente caleranno o cesseranno.
Centinaia di migliaia di abitanti ricorreranno all’ultima risorsa del debitore: non pagare il rateo mensile.
Si capisce bene perché, dopo questa sentenza - riguardante 14 villette unifamigliari, che la Deutsche Bank potrebbe comprarsi con un milionesimo dei suoi capitali - le azioni della banca tedesco -americana siano crollate.

Ora, se la decisione del giudice di Cleveland non sarà riformata dalla Corte suprema, milioni di debitori col mutuo andranno in fallimento, ma le banche non potranno sequestrare le case per rivenderle.
Per i piccoli proprietari insolventi sarà un dramma, anche perché le case tecnicamente requisibili crolleranno di prezzo (ma forse potranno continuare ad abitarle).
Ma per il sistema bancario americano (e quello internazionale che l’ha seguito nella follia) sarà come il grippaggio del motore in un’auto in corsa, o come uno di quegli ingorghi a croce uncinata dove nessuna auto può andare né avanti né indietro.
O meglio ancora, uno tsunami finanziario, come lo ha chiamato William Engdahl, a cui dobbiamo questa notizia .

Engdahl promette una seconda puntata, in cui specificherà le conseguenze.
Lo attendiamo con ansia, non riuscendo a comprendere sui due piedi tutti i titanici effetti convergenti e complessivi che questa sentenza avrà sul sistema finanziario mondiale e sull’economia sottostante; effetti sicuramente ampliati dalla globalizzazione stessa, che ha asportato le paratie difensive tra le economie nazionali.
La fantasia non arriva a tanto.
E si ha paura ad immaginare tutto.

«Le conseguenze di questa sentenza sono così immense, che non è possibile descriverle», ha infatti confidato all’EIR un’alta fonte della finanza europea .
Questo personaggio ha chiesto in giro nell’ambiente, e ancora nessuno sapeva della sentenza dell’Ohio.
Solo per questo, secondo lui, la baracca della finanza globale sta ancora in qualche modo in piedi.

Questo personaggio paventa inoltre che dietro l’incapacità della Deutsche Bank di fornire il documento dell’ipoteca ci sia un trucco e un buco potenziale ancora più spaventoso: forse la finanza creativa ha moltiplicato gli «asset» presunti (gli immobili) a sostegno delle obbligazioni «asset backed», vendendone più e più volte i medesimi presunti «attivi».
Qualcosa da far impallidire Enron e Parmalat messe assieme.

Ora comincia una nuova fase, ha detto questa fonte, in cui anche i mutui «prime» (contratti da famiglie solvibili e targati AAA) stanno «andando sotto».
Poi, verso fine anno, andranno sotto le borse, la seconda gamba dell’illusionista prosperità finanziaria.
«In ogni consiglio d’amministrazione domina il panico più completo, in quanto nessuno riesce a prevedere le conseguenze delle loro azioni».
Come non bastasse, nota la fonte dell’EIR, dal primo gennaio andranno in vigore le nuove norme mondialiste per i mercati finanziali, il «Basilea II», che essenzialmente consistono nel sostituire i vecchi vincoli di capitale bancario con un sistema di rating.

Di fatto, gli obblighi per le banche di tenere una quota di capitale come riserva porteranno ad un abbassamento di questo limite, mentre tutto sarà «valutato» con il rating.
Ma queste norme sono state pensate nei tempi del boom finanziario, quando le agenzie di rating erano ritenute vangelo (prima del disastro sub-prime), e quando nessuno poteva immaginare che un AAA potesse diventare un rating a rischio…
Ed oggi nessuno sa cosa accadrà quando entrerà in vigore Basilea II.
Paralizzati dalla paura e dall’impotenza, i consigli d’amministrazione penseranno a come cavarsela: non dalla crisi, ma dai plotoni d’esecuzione?
Magari.
Ma non ci contate.
Sappiamo già chi sarà impiccato alla grande crisi.
Nino Galloni fornisce infatti un dato che dice come si è arrivati a questo .

Nel 2006, il prodotto interno lordo USA è stato di 13 mila miliardi di dollari; per contro, il reddito nazionale netto degli americani è stato di 9 mila miliardi.
Ciò vuol dire che per comprare ciò che producono, gli americani (una forza-lavoro tra le più produttive del mondo) ha dovuto indebitarsi per la differenza (4 mila miliardi) o poco meno.
Ciò significa che il lavoro è stato retribuito il 30% in meno della produzione che dà.
E per giunta, deve pagare alle banche o ad altri prestatori il 30% del proprio reddito annuo medio.
A chi è andata la differenza enorme - 4 trilioni - tra redditi e valore della produzione?

A enti come Goldman Sachs, alla speculazione in generale, e alle guerre.
Succede anche in Italia, ma a noi è meno chiaro per chi stentiamo con potere d’acquisto calante, e per chi dobbiamo indebitarci: per la Casta, l’idrovora del nostro differenziale.
E gli uni e gli altri hanno tutti i mezzi per tenerci buoni: compresi i plotoni d’esecuzione.

Maurizio Blondet

23 novembre 2007

Quando il Parlamento europeo accusò il “sistema” berlusconiano “Raiset”.



Correva l’anno 2004, era di aprile e il Parlamento europeo, poco prima di chiudere i battenti per le nuove elezioni continentali, approvava a larga maggioranza trasversale una deliberazione sul pluralismo nei media, la libertà di comunicazione e i conflitti di interesse. In Italia era in piena funzione il “regime berlusconiano” nei media e, anche alla luce delle recenti intercettazioni telefoniche, esisteva un sistema di comprimere la realtà ad uso e consumo del Cavaliere di Arcore. L’anomalia italiana, rispetto alla situazione degli altri paesi europei saltò agli occhi dell’intero Parlamento europeo, allertato anche dagli esposti presentati da Articolo 21, dalla FNSI e dalla CGIL. “Parole al vento”, forse? Ma quell’atto di accusa istituzionale ora suona come profetico e anche come un monito a quanti tra gli organi di stampa, opinionisti “terzisti e cerchiobottisti”, preferirono voltarsi dall’altra parte o parlare di eccesso furore antiberlusconiano. Da allora l’Italia venne inserita nella lista degli “osservati speciali” dalle istituzioni internazionali che la retrocessero negli ultimi posti della speciale classifica sulla libertà fondamentali, come quella dell’informazione e del pluralismo. Ci voleva ,come sempre nella recente storia nazionale, l’intervento della magistratura, perché partiti e grande stampa si accorgessero del cancro che si stava insediando nel nostro sistema mediatico, senza che finora ( a 18 mesi dalla vittoria del centrosinistra) venisse cambiato lo stato delle cose. Speriamo che la lezione serva a qualcosa!
Ecco qui di seguito la parte della Risoluzione del Parlamento europeo.
"Situazione in Italia:
55. rileva che il tasso di concentrazione del mercato televisivo in Italia è oggi il più elevato d'Europa e che, nonostante l'offerta televisiva italiana consti di dodici canali nazionali e da dieci a quindici canali regionali e locali, il mercato è caratterizzato dal duopolio tra RAI e Mediaset, che complessivamente detengono quasi il 90% della quota totale di telespettatori e raccolgono il 96,8% delle risorse pubblicitarie, contro l'88% della Germania, l'82% della Gran Bretagna, il 77% della Francia e il 58% della Spagna;
56. rileva che il gruppo Mediaset è il più importante gruppo privato italiano nel settore delle comunicazioni e dei media televisivi e uno dei maggiori a livello mondiale, controllando tra l'altro reti televisive (RTI S.p.A.) e concessionarie di pubblicità (Publitalia '80), entrambe riconosciute formalmente in posizione dominante e in violazione della normativa nazionale (legge 249/97) dall'Autorità per la garanzia delle comunicazioni (delibera 226/03 ;
57. rileva che uno dei settori nel quale più evidente è il conflitto di interessi è quello della pubblicità, tanto che il gruppo Mediaset nel 2001 ha ottenuto i 2/3 delle risorse pubblicitarie televisive, pari ad un ammontare di 2500 milioni di euro, e che le principali società italiane hanno trasferito gran parte degli investimenti pubblicitari dalla carta stampata alle reti Mediaset e dalla Rai a Mediaset ;
58. rileva che il Presidente del Consiglio non ha risolto il suo conflitto di interessi, come si era esplicitamente impegnato, bensì ha incrementato la sua quota di controllo societario della società Mediaset (dal 48,639% al 51,023%): questa ha così ridotto drasticamente il proprio indebitamento netto, attraverso un sensibile incremento degli introiti pubblicitari a scapito delle entrate (e degli indici di ascolto) della concorrenza e, soprattutto, del finanziamento pubblicitario della carta stampata;
59. lamenta le ripetute e documentate ingerenze, pressioni e censure governative nell'organigramma e nella programmazione del servizio televisivo pubblico Rai (perfino nei programmi di satira), a partire dall'allontanamento di tre noti professionisti su clamorosa richiesta pubblica del Presidente del Consiglio nell'aprile 2002 – in un quadro in cui la maggioranza assoluta del consiglio di amministrazione della Rai e dell'apposito organo parlamentare di controllo è composta da membri dei partiti di governo; tali pressioni sono state poi estese anche su altri media non di sua proprietà, che hanno condotto fra l'altro, nel maggio 2003, alle dimissioni del direttore del Corriere della Sera;
60. rileva pertanto che il sistema italiano presenta un'anomalia dovuta a una combinazione unica di poteri economico, politico e mediatico nelle mani di un solo uomo, l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri italiano e al fatto che il governo italiano è, direttamente o indirettamente, in controllo di tutti i canali televisivi nazionali;
61. prende atto del fatto che in Italia da decenni il sistema radiotelevisivo opera in una situazione di assenza di legalità, accertata ripetutamente dalla Corte costituzionale e di fronte alla quale il concorso del legislatore ordinario e delle istituzioni preposte è risultato incapace del ritorno ad un regime legale; Rai e Mediaset continuano a controllare ciascuna tre emittenti televisive analogiche terrestri, malgrado la Corte costituzionale, con la sentenza n. 420 del 1994, avesse statuito che non è consentito ad uno stesso soggetto di irradiare più del 20% dei programmi televisivi su frequenze terrestri in ambito nazionale (vale a dire più di due programmi), ed avesse definito il regime normativo della legge n. 223/90 contrario alla Costituzione italiana, pur essendo un "regime transitorio"; nemmeno la legge 249/97 (Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo) aveva accolto le prescrizioni della Corte costituzionale che, con la sentenza 466/02, ne dichiarò l'illegittimità costituzionale limitatamente all'articolo 3, comma 7, "nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi, irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso articolo 3, devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo";
62. prende atto del fatto che la Corte costituzionale italiana, nel novembre 2002 (causa 466/2002), ha dichiarato che " ...la formazione dell'esistente sistema televisivo italiano privato in ambito nazionale ed in tecnica analogica trae origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze (esercizio di impianti senza rilascio di concessioni e autorizzazioni), al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle frequenze e di pianificazione effettiva dell'etere ... La descritta situazione di fatto non garantisce, pertanto, l'attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, che rappresenta uno degli "imperativi" ineludibili emergenti dalla giurisprudenza costituzionale in materia ... In questo quadro la protrazione della situazione (peraltro aggravata) già ritenuta illegittima dalla sentenza n° 420 del 1994 ed il mantenimento delle reti considerate ancora "eccedenti" dal legislatore del 1997 esigono, ai fini della compatibilità con i principi costituzionali, che sia previsto un termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile" , e del fatto che ciononostante il termine per la riforma del settore audiovisivo non è stato rispettato e che il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge per la riforma del settore audiovisivo per un nuovo esame in quanto non conforme ai principi dichiarati dalla Corte costituzionale ;
63. prende atto altresì del fatto che gli indirizzi stabiliti dalla commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi per la concessionaria unica del servizio pubblico radiotelevisivo, come pure le numerose delibere, che certificano violazioni di legge da parte delle emittenti, adottate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (incaricata di far rispettare le leggi nel settore radiotelevisivo), non vengono rispettati dalle emittenti stesse che continuano a consentire l'accesso ai media televisivi nazionali in modo sostanzialmente arbitrario, persino in campagna elettorale;
64. auspica che la definizione legislativa, contenuta nel progetto di legge per la riforma del settore audiovisivo (Legge Gasparri, articolo 2, lettera G), del "sistema integrato delle comunicazioni" quale unico mercato rilevante non sia in contrasto con le regole comunitarie in materia di concorrenza, ai sensi dell'articolo 82 del trattato CE e di numerose sentenze della Corte di giustizia e non renda impossibile una definizione chiara e certa del mercato di riferimento;
65. auspica altresì che il "sistema di assegnazione delle frequenze", previsto dal progetto di legge Gasparri, non costituisca una mera legittimazione della situazione di fatto e che non si ponga in contrasto in particolare con la direttiva 2002/21/CE, con l'articolo 7 della direttiva 2002/20/CE e con la direttiva 2002/77/CE, le quali prevedono, fra l'altro, che l'attribuzione delle frequenze radio per i servizi di comunicazione elettronica si debba fondare su criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati;
66. sottolinea la sua profonda preoccupazione circa la non applicazione della legge e la non esecuzione delle sentenze della Corte costituzionale, in violazione del principio di legalità e dello Stato di diritto, nonché circa l'incapacità di riformare il settore audiovisivo, in conseguenza delle quali da decenni risulta considerevolmente indebolito il diritto dei cittadini a un'informazione pluralistica, diritto riconosciuto anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
67. esprime preoccupazione per il fatto che la situazione vigente in Italia possa insorgere in altri Stati membri e nei paesi in via di adesione qualora un magnate dei media decidesse di entrare in politica;
68. si rammarica che il Parlamento italiano non abbia ancora approvato una normativa per risolvere il conflitto di interessi del Presidente del Consiglio, così come era stato promesso che sarebbe avvenuto entro i primi cento giorni del governo;
69. ritiene che l'adozione di una riforma generale del settore audiovisivo possa essere facilitata qualora contenga salvaguardie specifiche e adeguate volte a prevenire attuali o futuri conflitti di interessi nelle attività dei responsabili locali, regionali o nazionali che detengono interessi sostanziali nel settore audiovisivo privato;
70. auspica inoltre che il disegno di legge Frattini sul conflitto di interessi non si limiti ad un riconoscimento di fatto del conflitto di interessi del Premier, ma preveda dispositivi adeguati per evitare il perdurare di questa situazione;
71. si rammarica del fatto che, se gli obblighi degli Stati membri di assicurare il pluralismo dei media fossero stati definiti dopo il Libro verde sul pluralismo del 1992, probabilmente si sarebbe potuta evitare l'attuale situazione in Italia.
Al monito del Parlamento europeo il governo di Berlusconi rispose a suo modo: da difensore dell'azienda del "padre- padrone". Furono così approvate due leggi "vergogna", la Frattini per il conflitto d'interessi e la Gasparri sulla riforma della Rai ed il sistema dei media. Oggi sappiamo a chi facevano comodo.
Gianni Rossi

21 novembre 2007

La lunga mano di Berlusconi sulla Rai


Un asse segreto tra dirigenti Rai e Mediaset per oscurare la vittoria elettorale dell'Ulivo nelle elezioni regionali del 2005. E' quanto trapela dalla pubblicazione su Repubblica dei brogliacci delle intercettazioni depositate nell'ambito dell'inchiesta sul fallimento di HDC, la holding dell' ex sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi, Luigi Crespi.

Tra le varie sintesi pubblicate sulla doppia pagina di Repubblica, ve ne è una del dirigente rai ed ex segretaria del cavaliere Debora Bergamini. Alle 15 del 22 aprile "Debbi" afferma, secondo le indagini, "che Cattaneo (all'allora direttore generale rai, ndr) ha chiesto di condividere i loro pareri con quelli di Vespa al quale avrebbe chiesto di non confrontare i voti attuali con quelli delle scorse regionali".

Insomma, un sistematico tentativo di minimizzare la portata della vitoria dell'Ulivo alle regionali, tanto che alle 16 "Debbi" Bergamini avrebbe affermato che Benito (Benassi, vice direttore marketing Rai) ha intuito che il dg ' Cattaneo, " vuole che nella rappresentazione dei risultati elettorali si faccia piu' confusione possibile per camuffare la loro portata".

Debora Bergamini chiama il responsabile della prima rete e secondo gli investigatori che li intercettano "lo informa della programmazione televisiva di Canale 5. Del Noce dice di aver parlato con Rossella (allora direttore del Tg5, ndr). Debora dice di aver parlato con Mauro Crippa di Mediaset".

Il lunedi' 4 aprile, la Bergamini, secondo le intercettazioni, avrebbe parlato al telefono con un responsabile Mediaset dicendo che "loro fanno la prima serata sul Due per le elezioni e gli chiede di mettere una cosa forte in prima serata su Canale 5".

Insomma, il servizio pubblico messo al servizio della disinformatia in una rete fittissima di contatti tra i dirigenti fedeli a Berlusconi sia a Mediaset, della quale è come tutti sappiamo, il "mero proprietario", sia in Rai di cui appare dalle intercettazioni il padrone di fatto. Fatti salvi i non frequentissimi atti di seria resistenza da parte di alcuni dirigenti e giornalisti del servizio pubblico. Secondo Repubblica, vi sarebbero state anche telefonate ad Arcore ma quelle non possono essere trascritte perché riguardano la residenza di un parlamentare.

Il quadro che ne viene fuori è sconfortante. Notisti politici che si raccomandano al Cavaliere e subito dopo approdano in parlamento. Interventi del Tiger Team di Berlusconi in Rai per non far pesare persino la morte del Papa sull'affluenza alle urne e sulla guida del festival di Sanremo. La programmazione soggiogata agli interessi politico mediatici dell'allora presidente del consiglio al punto che il direttore generale Cattaneo, secondo gli investigatori della Finanza, "per Bergamini dice di aver parlato con Bonaiuti che era con Piersilvio, ma lui sta tenendo duro anche con gli altri dicendo che non è il caso di mandare in onda i dati.".

Erano i tempi in cui noi di articolo21 parlavamo di bavaglio mediatico, ma non sapevamo sino a qual punto e con quale intelligente metodica intesa col concorrente Mediaset.

Berlusconi, quello dell'edito contro Biagi, Santoro e Luttazzi, e con la consueta faccia di bronzo, aveva detto che in Rai, non avrebbe spostato una pianta. Già, nessuna pianta, tranne quella organica, a cominciare dal dg per piegarli ai suoi interessi d'intesa con la rete concorrente.

Bene ha fatto l'attuale dg Cappon a preannunciare azioni di tutela legale. Ma quel che vorrebbero i lavoratori rai e gli abbonati è un'autentica tutela politica, etica e morale del pubblico interesse. Perché non tutto quel che è lecito è opportuno.

Certo appaiono poco opportuni, decisamente contrari agli interessi della Rai, i Tiger Team di Supersilvio, i dg oscuratori e i dirigenti imbavagliatori, le infiltrazioni di interessi indicibili nella macchina del servizio pubblico. Mai più asservito. Mai più.
Ulderico Fortezza