23 gennaio 2008

Banca d'Italia e realtà gattopardiana


Mentre i politici urlano e sbraitano sui salotti buoni della Tv, le grandi truffe e i grandi interessi mediatici e finanziari pensano ad altro.
Non è possibile che in uno Stato che si reputa piena di risorse si accanisce su pagliuzze senza vedere le classiche travi.
Il vuoto di potere delle Istituzioni, prima o poi sarà colmato, ma da chi?
Domanda ingenua che si liquida con: il soggetto più forte. Siamo in mano a banche private che fanno prima la moneta che lo stato, emettono moneta (privilegio di Stato nazionale)senza avere Stati, ma insieme virtuale di confini. Più forte di così?
Una domanda di un lettore di effedieffe chiede perchè si è arrivati a questa situazione e Cupertino si lancia in una disanima della situazione.


«… Bankitalia - come tutti gli istituti di emissione aventi il privilegio dell'emissione di moneta fiduciaria - si appropria di risorse dei cittadini in misura pari all'entità delle banconote in circolazione. La cosa è del resto ammessa apertis verbis … nella relazione al disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri il 10 febbraio 1993: '…In conseguenza, non si consente agli esecutivi degli Stati firmatari del Trattato (di Maastricht, ndr) di esercitare signoraggio in senso stretto: OVVERO DI APPROPRIAZIONE DI RISORSE ATTRAVERSO QUELLA FORMA DI DEBITO INESIGIBILE CHE E'LA MONETA INCONVERTIBILE A CORSO LEGALE' ».

Qui ci sia consentita una breve riflessione personale: se non sono gli Stati ad appropriarsi delle risorse derivanti dal signoraggio perché mai tali risorse devono essere di spettanza, in un modo o nell'altro del sistema central-bancario, che è prevalentemente di natura privatistica mentre le risorse da signoraggio sono un bene comune nazionale?
Altra riflessione: giuridicamente dire «debito inesigibile» è affermare un controsenso come dire che il fuoco è freddo.
Nessun debito può essere di per sé inesigibile, altrimenti non sarebbe debito.
Ora, dire che la moneta bancaria è debito inesigibile significa affermare un ingiusto privilegio a favore di chi, la Banca Centrale, emette moneta in forma di debito senza dover mai rispondere, a causa della inconvertibilità, della propria esposizione debitoria.

Ma continuiamo con la citazione di Salvatore Verde: «Benché questa situazione (la truffa bancaria dell'appropriazione di risorse da signoraggio, ndr) talvolta - come nel caso accennato - venga confessata, di solito viene invece occultata mediante l'espediente contabile di esporre al passivo del bilancio l'importo relativo alla circolazione (nel 1993: 92.507.777.422.000 lire) che invece - per il fatto di essere debito inesigibile - non vi dovrebbe figurare… Ne deriva che il bilancio di Bankitalia in realtà - come si dice in gergo contabile - 'quadra' solo aritmeticamente e formalmente, ma non sostanzialmente (altra riflessione personale: siamo di fronte ad un falso in bilancio? Giriamo la domanda, come tentò il compianto Giacinto Auriti, ma senza ottenere né risposta né giustizia, alla competente Procura della Repubblica o, visto che siamo in Europa, alla Corte di Giustizia Europea, se competente)».
«E meglio sarebbe - continua Verde - se i 93.508 miliardi circa venissero ripartiti imputandoli ad accantonamenti vari e fondi di riserva. O meglio ancora ad 'utili da ripartire', con grande beneficio dei signori partecipanti ed anche dello Stato che ne percepirebbe quota notevole come imposta sul reddito, a sollievo dei contribuenti o a decurtazione del debito pubblico».

Fermiamoci ancora per una riflessione: Verde sembra dire che il debito pubblico nasce a causa di questo trucco central-bancario e che correggere tale imbroglio comporterebbe una notevole riduzione del debito pubblico medesimo, senza dover tagliare pensioni, privatizzare servizi pubblici, ridurre prestazioni sanitarie e scolastiche, aumentare tasse, etc.
Anche Marx, da noi citato nel nostro articolo, riconosceva che: «L'accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche centrali…(perché) la Banca (dà) … con una mano per aver restituito di più con l'altra, (e) …, proprio mentre riceve…, rimane… creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che (ha) … dato».
Ma ascoltiamo ancora Salvatore Verde: «In sostanza, la voce 'Circolazione' che si legge alla prima riga del passivo del bilancio (di Bankitalia, ndr) dovrebbe scomparire, per apparire nelle 'note' al bilancio, oppure fra le 'voci' fuori bilancio se si volesse tenere in piedi la fictio secondo cui in un avvenire indeterminato abolendo il corso forzoso e tornando alla moneta-merce il debito cesserebbe di essere inestinguibile per tornare ad essere reale… lo Stato dovrebbe spiegare ai cittadini per quale ragione si consente ad una società per azioni sia pure 'sui generis' di appropriarsi di beni reali pari al valore di tale massa circolante di base monetaria. Infatti, lo Stato non ne usufruisce (specie dopo il 'divorzio': tra Tesoro e Banca centrale, ndr) dovendo anch'esso diventare debitore nei confronti di Bankitalia ogni volta che - essendo insufficienti le entrate fiscali e le vendite di beni demaniali - ha bisogno di denaro. L'INDEBITAMENTO NEI CONFRONTI DI BANKITALIA AVVIENE ORMAI QUASI ESCLUSIVAMENTE CONTRO IL RILASCIO DI TITOLI DEL DEBITO PUBBLICO SU CUI (LO STATO, ndr) DOVRA' PAGARE (NOI DOVREMO PAGARE) SALATISSIMI INTERESSI (E PROVVIGIONI). Mentre sarebbe tanto più semplice e meno oneroso se (lo Stato o - oggi - l'Unione di Stati, ndr) emettesse direttamente tutto il denaro di cui necessita mediante l'emissione di proprie banconote. Dove sta scritto - conclude Verde - che senza un Istituto Centrale di emissione la politica monetaria dev'essere fatalmente inflazionistica? E' solo un problema di buone leggi e di uomini capaci».

Anch'io osservavo che si tratta solo di controlli tecnici sull'esercizio del potere di emissione della monete che deve tornare ad essere un potere statuale perché afferente organicamente alla sovranità nazionale o - oggi - alla sovranità dell'Unione di Stati.
Da quanto sopra esposto quel che, però, è più importante desumere è che non è rilevante il fatto che la Banca Centrale non possa detenere essa stessa i titoli del debito pubblico rilasciati dallo Stato a fronte dell'emissione di moneta bancaria.
Infatti, anche se tali titoli sono venduti all'asta in favore del pubblico, su di essi lo Stato, ossia noi, paga salatissimi interessi che, in fin dei conti, sono originati dalla fraudolenta emissione bancaria della moneta circolante, a seguito della storica sottrazione di tale potere alla nazione sovrana.
Si tenga poi conto che, al di là di questo, il vero privilegio del sistema central-bancario è nella indebita appropriazione a suo favore di quel bene immateriale che, nell'articolo, ho definito, con l'Auriti, come «valore indotto» creato dalla accettazione fiduciaria della carta moneta da parte del pubblico e che costituisce il vero «potere d'acquisto» incorporato nel simbolo cartaceo.
E non si venga a dire che il valore al simbolo cartaceo lo conferisce la Banca Centrale emittente: si metta il Governatore della Banca Centrale Europea a stampare euro su un'isola deserta e si verifichi quanto valore avrà la carta da esso stampata.

Per spiegare questa gravissima truffa, così evidente che non ce ne accorgiamo neanche, Auriti soleva fare questo esempio: «L'atteggiamento che la Banca Centrale assume nei confronti della collettività è analogo a quello di chi presta nasse vuote ai pescatori indebitando questi ultimi non solo della nasse ma anche del pesce che sarà pescato».
Fuor di metafora: le «nasse» sono i simboli cartacei che di per sé, al momento della stampa, non valgono assolutamente nulla mentre il pesce è il «valore indotto», ossia il valore che sarà incorporato, nei simboli cartacei, nel successivo momento della loro emissione e circolazione, dalla fiduciaria accettazione del pubblico, che quel valore, per l'appunto, crea.
Un'ultima annotazione sulla natura giuridica delle Banche Centrali.
Esse per lo più sono società per azioni partecipate pro-quota da diversi istituti assicurativi e dalle più importanti banche nazionali (o, oggi, europee), pubbliche ma soprattutto private.
In tal modo, le Banche Centrali risultano essere, benché esercitano poteri pubblici direttamente connessi con l'essenza stessa della sovranità, enti a carattere prevalentemente privatistico, i cui amministratori sono nominati dall'assemblea degli istituti «partecipanti».
La presenza della mano pubblica in tali assetti societari è andata sempre più diminuendo con i processi di privatizzazione degli ultimi vent'anni (si pensi, ad esempio, che la privatizzazione delle Casse di Risparmio, istituti «partecipanti» al capitale di Bankitalia, si trasformò, a suo tempo, automaticamente in una ulteriore privatizzazione della Banca d'Italia).
Sicché le stesse Banche Centrali sono rimaste esposte alle forze dirompenti di una finanza globale ormai incontrollabile dagli Stati.

Questo sistema di assetti societari e di nomine è rimasto sostanzialmente invariato anche a livello europeo con la costituzione della BCE.
In Italia, attualmente, dopo la nota vicenda di Fazio e dei «furbetti del quartiere», lo Stato è parzialmente rientrato in possesso di alcune quote di partecipazione al capitale di Bankitalia e di alcuni poteri in ordine alla nomina del Governatore (che non è più a tempo indeterminato come fu fino a Fazio).
Ma rimane il fatto che, anche per via della sua istituzionalizzazione con il Trattato di Maastricht, che si riflette anche nelle recenti riforme della nostra Costituzione, la Banca Centrale conserva tuttora la sua più totale autonomia nel decidere le politiche monetarie.
Anzi l'ultima riforma italiana, vista la qualità bassissima del nostro ceto politico, rischia di rovesciarsi in una ulteriore dipendenza della politica dalla finanza.
In altri termini, la Banca Centrale, che dovrebbe essere soltanto il «cassiere» dello Stato, magari con chiari ma limitati poteri di controllo, esclusivamente tecnico, per evitare l'abuso politico dello strumento monetario, è invece il «corpo», impolitico e di natura - si ripete - prevalentemente privatistica, che decide, per conto dello Stato o dell'Unione di Stati, ed al loro posto, i parametri finanziari entro i quali poi i politici, che altro non sono in tal sistema che i «camerieri dei banchieri centrali», possono elaborare i loro programmi di governo da sottoporre agli elettori.

Se i cittadini, però, pensano di essere ancora i veri sovrani e di essere soggetti politici di una democrazia, e non sudditi di una bancocrazia, sono solo dei poveri illusi.
Sembra che due secoli di lotte per togliere ai re cristiani la sovranità abbiano avuto come esito paradossale (ma non tanto per chi conosce i retroscena «esoterici» delle filosofie e delle rivoluzioni) quello di subordinare i popoli alla sudditanza alla consorteria central-bancaria.
Quindi, il problema non sta soltanto nei vantaggi economici lucrati immoralmente dal central-banchismo, che pure ci sono e sono immondi anche perché ricadono su pensionati, lavoratori di ogni categoria, imprenditori, ma sta soprattutto nella «castrazione» degli Stati e nell'appropriazione della sovranità monetaria, e quindi in ultima analisi della sovranità politica, da parte delle Banche Centrali e consorterie affini.

Luigi Copertino

22 gennaio 2008

Un Paese che sa di tappo tra politica e televisione


I fatti giornalieri superano la realtà romanzata dai tromboni appollaiati sulle barricate di monnezza eretta dall'opposizione. Meglio gli interessi di privati e/o di partito che nazionali? Non conviene nemmeno dirla la risposta, allora riviviamo la storia, il passato e, impariamo che la storia è unica e, un'esperienza già passata ma difficilmente ripetibile, anzi impossibile. A meno che si è autolesionisti.

Se avessi vent’anni oggi, non verrei particolarmente impressionato dall’ultima uscita domenicale di Berlusconi a difesa delle sue tv,contro ogni accordo sulla legge elettorale,né dalla rettifica alla moviola seguita in qualche modo il lunedì (“…e comunque la Gentiloni è un’aggressione nei miei confronti!”).Magari se fossi di Forza Italia penserei, articolando alla perfezione la lussureggiante grammatica mentale di quei paraggi:”Quanto è figo il Cavaliere,sa come gestire le danze della comunicazione,stop and go,e vai…!”.Oppure se fossi del Partito Democratico osserverei guardingo:”Vediamo come va a finire,speriamo che il nostro Cavaliere in lizza nel torneo,Veltroni, sia più furbo di lui”.Se fossi della Cosa Rossa probabilmente e senza speciale creatività lamenterei il solito “chiagne e fotte” berlusconiano,con una macchinalità pseudoemotiva sub specie politicante neppure così lontana dal disinteresse palese di un ventenne che invece se ne ritraesse inorridito.E senza commenti.

Se avessi avuto vent’anni il 20 novembre del 2002,quando una sentenza della Corte Costituzionale aveva obbligato Mediaset a spedire Rete 4 sul satellite entro il 31 dicembre del 2003 per liberare la concessione delle frequenze occupate da Rete 4 ,avrei opportunamente pensato che Berlusconi non fosse Presidente del Consiglio per la seconda volta per caso.Se invece avessi avuto vent’anni (non c’entra nell’iterazione né Paul Nizan né Gerry Scotti…) nel ’99,quando a Francesco Di Stefano per Europa 7 era stata assegnata la concessione di cui sopra, da osservatore non direttamente coinvolto dagli affari della politica ma solo attento alle libertà costituzionali e alle loro implicazioni sul piano delicatissimo e decisivo dell’informazione mi sarei immaginato finalmente una svolta nel sistema mediatico nazionale.

Come pure,se avessi avuto vent’anni un quinquennio prima,quando nel ’94 una sentenza sempre della Corte Costituzionale ordinava di spegnere la terza rete berlusconiana nell’ambito della legge di settore detta Maccanico,avrei credo ragionato sui cambiamenti epocali che il neonato maggioritario sia pure leggermente straccione,diciamo il Mattarellum,si apprestava a comportare in Italia nell’habitat televisivo.

Ma bypassando all’indietro i fasti dell’altra legge storica,la Mammì,un ventenne quale sarei potuto essere il 20 ottobre 1984,venendo a conoscenza che il presidente del Consiglio di allora,Bettino Craxi, dall’aereo presidenziale sul quale stava tornando da Londra telefonava al suo consiglio dei Ministri un preallarme per un istantaneo provvedimento a favore di Silvio Berlusconi cui il 16 ottobre,dunque solo quattro giorni prima -il decisionismo si vede nei frangenti più importanti,altro che i mollaccioni di ora…- i pretori avevano oscurato le reti, se (pur così giovane) avvertito nel ramo si sarebbe detto forse per la prima volta :”Toh,ma tu dimmi come sono avvinte le edere della politica e della televisione !”.Anche se poi la Camera aveva bocciato il decreto il 28 novembre successivo.Anche se sotto Natale,subito dopo, un nuovo decreto nel merito aveva prorogato la possibilità di trasmettere per l’allora (allora?) Sua Emittenza con tre reti intanto fino al 31 dicembre 1985,decreto convertito in legge grazie al voto decisivo di Almirante

(pro-memoria per i ventenni odierni: trattasi della preistoria di Fini e di alcuni baldi sessantenni di questo gennaio,della Rai,tra gli altri…).

Per maggiori informazioni consultare il libro di Elio Veltri “Da Craxi a craxi”,ed.Laterza, 1993,da cui si può utilmente estrarre anche l’intervento sulla questione da parte di Ugo Intini,sull’Avanti che dirigeva,che sui pretori citati scrisse parole di fuoco contro il “protagonismo” e la politicizzazione di alcuni magistrati.Tu guarda.Dov’è oggi?

E non vorrei qui dover considerare l’aneddoto, eccellente per uno che i vent’anni se li stesse scrostando alla fine degli anni ’70, di quando un Berlusconi ancora piacente e capelluto chiese e ottenne un incontro con Enrico Berlinguer, al Bottegone, per prostrarsi mettendo a disposizione del Pci il suo imberbe impero tv di allora.Il testimone ancora vivo di quella prostrazione racconta che il segretario comunista,che oggi nel pantheon democratico viene sostituito sembra da Craxi (cfr. il Fassino pre-birmano) lo mise alla porta con semplicità:”Scusi,ma qui non facciamo di queste cose”.Silvio imboccò prontamente l’uscio non lontano di Craxi.E chissà che oggi nel Pd (il cui Pantheon dunque ha compiuto la medesima operazione) non pensino che Berlinguer fosse solo un ingenuo senza prospettive….

Detto questo e non essendo ahimé ventenne,oggi dopo le ultime ripetitive esternazioni del Cavaliere sono costretto ad alcune conclusioni destinate ovviamente al silenzio, oppure,nella remota ipotesi che se ne voglia parlare, alla discussione di chiunque mediti di occuparsene con onestà intellettuale anche solo lillipuziana.

1)La questione politico-televisiva condiziona il Paese da quasi trent’anni.C’è un tappo alla bottiglia/Italia,ed è naturalmente Berlusconi,per cui questo Paese sa di tappo in tutte le cose che lo riguardano.Un odoraccio e un saporaccio.Chi osservi la faccenda da fuori,all’estero, se ne rende conto meglio,ma anche da dentro la cosa è chiarissima.Diresti: se stappi l’Italia,puoi ricominciare a coltivare e poi bere vino accettabile o addirittura selezionato,quello che ci sentiamo sventolare sotto il naso da tempo a partire da chi,come Furio Colombo,ne ha fatto una meritoria e ininterrotta campagna (a proposito di campagna,cfr.la sua formula “deformazione del paesaggio”).Già,ma la ricostruzione politico-televisiva di questi trent’anni ci dice che solo Berlinguer,e tanto tempo fa, ha messo alla porta Berlusconi.Quindi,che il tappo prima televisivo-imprenditoriale,poi da quasi tre lustri politico-televisivo-imprenditoriale,viene mantenuto a forza a chiudere la bottiglia dall’intiera classe politica del Paese nelle sue varie evoluzioni.

Anche qui,potrei fare il giochetto della memoria a ritroso,partendo dall’ultima Finanziaria che procrastina astutamente, dopo giochetti da “tre noci/dov’è il pisello?” spuntati dai più strani emendamenti,addirittura al 2012 la traduzione di tutto il sistema televisivo sul digitale terrestre. Fregando quindi in primis chi come il già citato Di Stefano di Europa 7 ha anche a suo favore una sentenza del 18 luglio 2005 del Consiglio di Stato che bollava la legge Gasparri come illegittima nella giurisdizione europea.All’epoca si parlava di “tutto sul digitale” entro il 2006,poi il termine con i soliti sistemi fu fatto slittare in extremis da una proroga-Landolfi al 2008 prima delle ultime elezioni vinte da Prodi (sì,da Prodi).

Va tutto nella stessa direzione di ciò che ho riassunto.Perché?

2)Non c’è dunque alcun ragionevole motivo per pensare che tale questione venga affrontata seriamente per risolverla e non per accroccarla in scambi,baratti,cessioni come fatto finora.In una palude navigata da finte polemiche mediatiche sulla “punitività” di una legge che applica sentenze costituzionali,da reali e a volte addirittura dichiarati urbi et orbi intenti del centrosinistra di non toccare nulla,dalla stanchezza di una pubblica opinione che a forza di decenni vanamente e superfetalmente spesi sulla questione e sulla successiva e collegata dizione “conflitto di interessi” (per Berlusconi come per l’intiera classe dirigente o addirittura l’intiero Paese) non ha più un’opinione,né pubblica né privata.Anzi,solo a sentir evocare il pasticcio per non essere tediata e raggirata mette mano alla pistola,specie se è davanti o dietro una montagna di “mondezza”.

3)Il problema del tappo non è quindi solo Berlusconi,magari lo fosse.Sono un po’ tutti.Al punto di far pensare con raccapriccio politico e letterario sollievo a che cosa accadrà quando prima o poi il tappo salterà malgrado tutte le indicazioni ultramondane del sindaco di Catania,Scapagnini.Che farà quella parte della politica che a parole detesta Berlusconi e nei fatti pare non poterne o volerne fare a meno?Se avessi vent’anni oggi sarei davvero preoccupato,molto preoccupato per questa ineluttabile eventualità.Come faremo con l’Italia stappata e con una sinistra che non l’ha saputa/voluta stappare fino alle estreme conseguenze che abbiamo sotto gli occhi?

Ma non ho vent’anni,e quindi temo “soltanto” per figli e nipoti:che volete che sia,come diceva Totò, quisquillie e pinzillacchere.

fonte: oliviero beha

21 gennaio 2008

Se Cuffaro ha vinto, lo Stato ha perso!


La standing ovation della cosca politica che ha salutato la condanna del governatore siciliano Totò Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi e la sua decisione di restare al suo posto sono perfettamente coerenti con la “ola” parlamentare che, mercoledì mattina, ha accompagnato l’attacco selvaggio del cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella alla magistratura che aveva appena arrestato sua moglie e altri 22 suoi compari di partito. Così come con il tifo da stadio che ha osannato la sua signora interrogata ieri in Tribunale. Ma anche con il silenzio tombale che, nella politica e nella magistratura, è seguito alla vergognosa, ributtante decisione all’unanimità della sezione disciplinare del Csm: Luigi De Magistris condannato alla gravissima sanzione della censura e alla pena accessoria del trasferimento lontano da Catanzaro, con l’impossibilità di esercitare ancora le funzioni di pm. Insomma: Cuffaro resta, Mastella è atteso dal governo come il figliol prodigo dal padre buono che prepara il vitello grasso, la first lady ceppalonica dirige il consiglio regionale dagli arresti domiciliari, mentre l’unico che se ne deve andare è De Magistris.

In attesa delle motivazioni della sentenza del Csm, va notato che il procuratore generale che ha sostenuto l’accusa contro De Magistris è Vito D’Ambrosio, ex presidente Ds della Regione Marche, mentre il presidente della sezione disciplinare è l’ex democristiano ed ex margherito Nicola Mancino. Due politici del centrosinistra che giudicano un magistrato che indagava su politici del centrosinistra. E meno male che il Csm è l’organo di “autogoverno” (poi ci sono i membri togati, cioè i magistrati, che han votato unanimi a braccetto con i politici per cacciare il loro giovane collega: speriamo che un giorno si vergognino di quello che hanno fatto).

Anche per Totò Vasa Vasa bisogna attendere le motivazioni della sentenza per sapere come mai il Tribunale non gli abbia applicato l’aggravante della volontà di favorire Cosa Nostra. Ma non si può certo dire che sia stata una sorpresa. C’era chi l’aveva prevista fin dal 2004 e aveva fatto di tutto per scongiurarla: i pm “dissidenti” dalla linea dell’allora procuratore Piero Grasso e del suo fedelissimo aggiunto Giuseppe Pignatone. E cioè Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Guido Lo Forte e altri, tutti schierati con il pm che aveva avviato le indagini su Cuffaro: Gaetano Paci, il quale nel 2004 fu protagonista di un duro braccio di ferro con i colleghi che indagavano con lui ma che, in ossequio alla linea Grasso, non ne volevano sapere di contestare a Cuffaro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, peraltro affibbiato a tutti i suoi coimputati, quasi tutti arrestati proprio per quel delitto. Paci ne faceva anzitutto una questione di equità: come si può accusare Cuffaro di essere il capo della banda delle talpe che informavano i mafiosi e poi contestargli soltanto due episodi di favoreggiamento, accusando tutti gli altri (e arrestandone un buon numero) per concorso esterno? La legge è uguale per tutti o i politici sono più uguali degli altri? C’era poi una questione tecnica: avendo dichiarazioni di mafiosi pentiti, ampiamente riscontrate, sul fatto che fin dal 1991 Cuffaro si era messo nelle mani di Cosa Nostra, andando a chiedere al mafioso Angelo Siino i voti per la sua prima elezione all’Assemblea Regionale, era molto più facile dimostrare che il governatore è da oltre 15 anni un fiancheggiatore esterno della mafia. Per il favoreggiamento mafioso, invece, occorre provare che, quando avvertì - tramite i suoi uomini - il boss Giuseppe Guttadauro che aveva la casa piena di microspie, Cuffaro voleva favorire l’intera Cosa Nostra. Una prova difficilissima, anche perché è più logico pensare che Cuffaro intendesse favorire anzitutto se stesso: se Guttadauro avesse continuato a parlare (ascoltato dagli inquirenti), avrebbe messo nei guai alcuni fedelissimi del governatore che frequentavano abitualmente il boss. Paci pagò a carissimo prezzo l’aver tenuto la schiena dritta: il suo capo, cioè Piero Grasso, lo estromise brutalmente dalle indagini che lui stesso aveva avviato. Due anni dopo anche il pm Di Matteo sostenne la necessità di contestare a Cuffaro il concorso esterno, ma anche lui finì in minoranza e dovette lasciare il processo. I pm superstiti, cioè Pignatone, De Lucia e Prestipino, seguitarono caparbiamente a tener duro sulla linea morbida (intanto, per fortuna, il nuovo procuratore Francesco Messineo e l’aggiunto Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, aprivano un nuovo fascicolo sul governatore, per concorso esterno). E venerdì sono andati a sbattere contro il Tribunale, che li ha duramente sconfessati (anche se nessuno lo scrive).

Ora il procuratore Grasso fa come la volpe con l’uva: siccome non è riuscito ad afferrarla, dice che era acerba. Sul Corriere, afferma che la prova necessaria per condannare Cuffaro per favoreggiamento mafioso era “una prova diabolica, complicata da trovare”. Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Ingroia e altri colleghi da lui emarginati gliel’avevano detto per anni. Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, ci sono fior di sentenze dei giudici di Palermo che condannano personaggi ben più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. La verità è che la contestazione del favoreggiamento mafioso, ora derubricato a favoreggiamento non mafioso, ha di fatto salvato Cuffaro da un processo che poteva segnare la fine della sua carriera politica. Senza l’aggravante mafiosa, il governatore beneficia dell’indulto e i 5 anni di pena diventano 2. Niente carcere, dunque, in caso di condanna definitiva. C’è l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma non scatterà mai perché il reato cadrà in prescrizione - grazie alla legge ex Cirielli - tra un paio d’anni, probabilmente prima che si chiuda il processo d’appello. Così, paradossalmente, Totò pur condannato ha vinto la sua partita, mentre la vecchia Procura l’ha rovinosamente persa. Perché non ha voluto giocarla.
Salvatore Salvato

23 gennaio 2008

Banca d'Italia e realtà gattopardiana


Mentre i politici urlano e sbraitano sui salotti buoni della Tv, le grandi truffe e i grandi interessi mediatici e finanziari pensano ad altro.
Non è possibile che in uno Stato che si reputa piena di risorse si accanisce su pagliuzze senza vedere le classiche travi.
Il vuoto di potere delle Istituzioni, prima o poi sarà colmato, ma da chi?
Domanda ingenua che si liquida con: il soggetto più forte. Siamo in mano a banche private che fanno prima la moneta che lo stato, emettono moneta (privilegio di Stato nazionale)senza avere Stati, ma insieme virtuale di confini. Più forte di così?
Una domanda di un lettore di effedieffe chiede perchè si è arrivati a questa situazione e Cupertino si lancia in una disanima della situazione.


«… Bankitalia - come tutti gli istituti di emissione aventi il privilegio dell'emissione di moneta fiduciaria - si appropria di risorse dei cittadini in misura pari all'entità delle banconote in circolazione. La cosa è del resto ammessa apertis verbis … nella relazione al disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri il 10 febbraio 1993: '…In conseguenza, non si consente agli esecutivi degli Stati firmatari del Trattato (di Maastricht, ndr) di esercitare signoraggio in senso stretto: OVVERO DI APPROPRIAZIONE DI RISORSE ATTRAVERSO QUELLA FORMA DI DEBITO INESIGIBILE CHE E'LA MONETA INCONVERTIBILE A CORSO LEGALE' ».

Qui ci sia consentita una breve riflessione personale: se non sono gli Stati ad appropriarsi delle risorse derivanti dal signoraggio perché mai tali risorse devono essere di spettanza, in un modo o nell'altro del sistema central-bancario, che è prevalentemente di natura privatistica mentre le risorse da signoraggio sono un bene comune nazionale?
Altra riflessione: giuridicamente dire «debito inesigibile» è affermare un controsenso come dire che il fuoco è freddo.
Nessun debito può essere di per sé inesigibile, altrimenti non sarebbe debito.
Ora, dire che la moneta bancaria è debito inesigibile significa affermare un ingiusto privilegio a favore di chi, la Banca Centrale, emette moneta in forma di debito senza dover mai rispondere, a causa della inconvertibilità, della propria esposizione debitoria.

Ma continuiamo con la citazione di Salvatore Verde: «Benché questa situazione (la truffa bancaria dell'appropriazione di risorse da signoraggio, ndr) talvolta - come nel caso accennato - venga confessata, di solito viene invece occultata mediante l'espediente contabile di esporre al passivo del bilancio l'importo relativo alla circolazione (nel 1993: 92.507.777.422.000 lire) che invece - per il fatto di essere debito inesigibile - non vi dovrebbe figurare… Ne deriva che il bilancio di Bankitalia in realtà - come si dice in gergo contabile - 'quadra' solo aritmeticamente e formalmente, ma non sostanzialmente (altra riflessione personale: siamo di fronte ad un falso in bilancio? Giriamo la domanda, come tentò il compianto Giacinto Auriti, ma senza ottenere né risposta né giustizia, alla competente Procura della Repubblica o, visto che siamo in Europa, alla Corte di Giustizia Europea, se competente)».
«E meglio sarebbe - continua Verde - se i 93.508 miliardi circa venissero ripartiti imputandoli ad accantonamenti vari e fondi di riserva. O meglio ancora ad 'utili da ripartire', con grande beneficio dei signori partecipanti ed anche dello Stato che ne percepirebbe quota notevole come imposta sul reddito, a sollievo dei contribuenti o a decurtazione del debito pubblico».

Fermiamoci ancora per una riflessione: Verde sembra dire che il debito pubblico nasce a causa di questo trucco central-bancario e che correggere tale imbroglio comporterebbe una notevole riduzione del debito pubblico medesimo, senza dover tagliare pensioni, privatizzare servizi pubblici, ridurre prestazioni sanitarie e scolastiche, aumentare tasse, etc.
Anche Marx, da noi citato nel nostro articolo, riconosceva che: «L'accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche centrali…(perché) la Banca (dà) … con una mano per aver restituito di più con l'altra, (e) …, proprio mentre riceve…, rimane… creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che (ha) … dato».
Ma ascoltiamo ancora Salvatore Verde: «In sostanza, la voce 'Circolazione' che si legge alla prima riga del passivo del bilancio (di Bankitalia, ndr) dovrebbe scomparire, per apparire nelle 'note' al bilancio, oppure fra le 'voci' fuori bilancio se si volesse tenere in piedi la fictio secondo cui in un avvenire indeterminato abolendo il corso forzoso e tornando alla moneta-merce il debito cesserebbe di essere inestinguibile per tornare ad essere reale… lo Stato dovrebbe spiegare ai cittadini per quale ragione si consente ad una società per azioni sia pure 'sui generis' di appropriarsi di beni reali pari al valore di tale massa circolante di base monetaria. Infatti, lo Stato non ne usufruisce (specie dopo il 'divorzio': tra Tesoro e Banca centrale, ndr) dovendo anch'esso diventare debitore nei confronti di Bankitalia ogni volta che - essendo insufficienti le entrate fiscali e le vendite di beni demaniali - ha bisogno di denaro. L'INDEBITAMENTO NEI CONFRONTI DI BANKITALIA AVVIENE ORMAI QUASI ESCLUSIVAMENTE CONTRO IL RILASCIO DI TITOLI DEL DEBITO PUBBLICO SU CUI (LO STATO, ndr) DOVRA' PAGARE (NOI DOVREMO PAGARE) SALATISSIMI INTERESSI (E PROVVIGIONI). Mentre sarebbe tanto più semplice e meno oneroso se (lo Stato o - oggi - l'Unione di Stati, ndr) emettesse direttamente tutto il denaro di cui necessita mediante l'emissione di proprie banconote. Dove sta scritto - conclude Verde - che senza un Istituto Centrale di emissione la politica monetaria dev'essere fatalmente inflazionistica? E' solo un problema di buone leggi e di uomini capaci».

Anch'io osservavo che si tratta solo di controlli tecnici sull'esercizio del potere di emissione della monete che deve tornare ad essere un potere statuale perché afferente organicamente alla sovranità nazionale o - oggi - alla sovranità dell'Unione di Stati.
Da quanto sopra esposto quel che, però, è più importante desumere è che non è rilevante il fatto che la Banca Centrale non possa detenere essa stessa i titoli del debito pubblico rilasciati dallo Stato a fronte dell'emissione di moneta bancaria.
Infatti, anche se tali titoli sono venduti all'asta in favore del pubblico, su di essi lo Stato, ossia noi, paga salatissimi interessi che, in fin dei conti, sono originati dalla fraudolenta emissione bancaria della moneta circolante, a seguito della storica sottrazione di tale potere alla nazione sovrana.
Si tenga poi conto che, al di là di questo, il vero privilegio del sistema central-bancario è nella indebita appropriazione a suo favore di quel bene immateriale che, nell'articolo, ho definito, con l'Auriti, come «valore indotto» creato dalla accettazione fiduciaria della carta moneta da parte del pubblico e che costituisce il vero «potere d'acquisto» incorporato nel simbolo cartaceo.
E non si venga a dire che il valore al simbolo cartaceo lo conferisce la Banca Centrale emittente: si metta il Governatore della Banca Centrale Europea a stampare euro su un'isola deserta e si verifichi quanto valore avrà la carta da esso stampata.

Per spiegare questa gravissima truffa, così evidente che non ce ne accorgiamo neanche, Auriti soleva fare questo esempio: «L'atteggiamento che la Banca Centrale assume nei confronti della collettività è analogo a quello di chi presta nasse vuote ai pescatori indebitando questi ultimi non solo della nasse ma anche del pesce che sarà pescato».
Fuor di metafora: le «nasse» sono i simboli cartacei che di per sé, al momento della stampa, non valgono assolutamente nulla mentre il pesce è il «valore indotto», ossia il valore che sarà incorporato, nei simboli cartacei, nel successivo momento della loro emissione e circolazione, dalla fiduciaria accettazione del pubblico, che quel valore, per l'appunto, crea.
Un'ultima annotazione sulla natura giuridica delle Banche Centrali.
Esse per lo più sono società per azioni partecipate pro-quota da diversi istituti assicurativi e dalle più importanti banche nazionali (o, oggi, europee), pubbliche ma soprattutto private.
In tal modo, le Banche Centrali risultano essere, benché esercitano poteri pubblici direttamente connessi con l'essenza stessa della sovranità, enti a carattere prevalentemente privatistico, i cui amministratori sono nominati dall'assemblea degli istituti «partecipanti».
La presenza della mano pubblica in tali assetti societari è andata sempre più diminuendo con i processi di privatizzazione degli ultimi vent'anni (si pensi, ad esempio, che la privatizzazione delle Casse di Risparmio, istituti «partecipanti» al capitale di Bankitalia, si trasformò, a suo tempo, automaticamente in una ulteriore privatizzazione della Banca d'Italia).
Sicché le stesse Banche Centrali sono rimaste esposte alle forze dirompenti di una finanza globale ormai incontrollabile dagli Stati.

Questo sistema di assetti societari e di nomine è rimasto sostanzialmente invariato anche a livello europeo con la costituzione della BCE.
In Italia, attualmente, dopo la nota vicenda di Fazio e dei «furbetti del quartiere», lo Stato è parzialmente rientrato in possesso di alcune quote di partecipazione al capitale di Bankitalia e di alcuni poteri in ordine alla nomina del Governatore (che non è più a tempo indeterminato come fu fino a Fazio).
Ma rimane il fatto che, anche per via della sua istituzionalizzazione con il Trattato di Maastricht, che si riflette anche nelle recenti riforme della nostra Costituzione, la Banca Centrale conserva tuttora la sua più totale autonomia nel decidere le politiche monetarie.
Anzi l'ultima riforma italiana, vista la qualità bassissima del nostro ceto politico, rischia di rovesciarsi in una ulteriore dipendenza della politica dalla finanza.
In altri termini, la Banca Centrale, che dovrebbe essere soltanto il «cassiere» dello Stato, magari con chiari ma limitati poteri di controllo, esclusivamente tecnico, per evitare l'abuso politico dello strumento monetario, è invece il «corpo», impolitico e di natura - si ripete - prevalentemente privatistica, che decide, per conto dello Stato o dell'Unione di Stati, ed al loro posto, i parametri finanziari entro i quali poi i politici, che altro non sono in tal sistema che i «camerieri dei banchieri centrali», possono elaborare i loro programmi di governo da sottoporre agli elettori.

Se i cittadini, però, pensano di essere ancora i veri sovrani e di essere soggetti politici di una democrazia, e non sudditi di una bancocrazia, sono solo dei poveri illusi.
Sembra che due secoli di lotte per togliere ai re cristiani la sovranità abbiano avuto come esito paradossale (ma non tanto per chi conosce i retroscena «esoterici» delle filosofie e delle rivoluzioni) quello di subordinare i popoli alla sudditanza alla consorteria central-bancaria.
Quindi, il problema non sta soltanto nei vantaggi economici lucrati immoralmente dal central-banchismo, che pure ci sono e sono immondi anche perché ricadono su pensionati, lavoratori di ogni categoria, imprenditori, ma sta soprattutto nella «castrazione» degli Stati e nell'appropriazione della sovranità monetaria, e quindi in ultima analisi della sovranità politica, da parte delle Banche Centrali e consorterie affini.

Luigi Copertino

22 gennaio 2008

Un Paese che sa di tappo tra politica e televisione


I fatti giornalieri superano la realtà romanzata dai tromboni appollaiati sulle barricate di monnezza eretta dall'opposizione. Meglio gli interessi di privati e/o di partito che nazionali? Non conviene nemmeno dirla la risposta, allora riviviamo la storia, il passato e, impariamo che la storia è unica e, un'esperienza già passata ma difficilmente ripetibile, anzi impossibile. A meno che si è autolesionisti.

Se avessi vent’anni oggi, non verrei particolarmente impressionato dall’ultima uscita domenicale di Berlusconi a difesa delle sue tv,contro ogni accordo sulla legge elettorale,né dalla rettifica alla moviola seguita in qualche modo il lunedì (“…e comunque la Gentiloni è un’aggressione nei miei confronti!”).Magari se fossi di Forza Italia penserei, articolando alla perfezione la lussureggiante grammatica mentale di quei paraggi:”Quanto è figo il Cavaliere,sa come gestire le danze della comunicazione,stop and go,e vai…!”.Oppure se fossi del Partito Democratico osserverei guardingo:”Vediamo come va a finire,speriamo che il nostro Cavaliere in lizza nel torneo,Veltroni, sia più furbo di lui”.Se fossi della Cosa Rossa probabilmente e senza speciale creatività lamenterei il solito “chiagne e fotte” berlusconiano,con una macchinalità pseudoemotiva sub specie politicante neppure così lontana dal disinteresse palese di un ventenne che invece se ne ritraesse inorridito.E senza commenti.

Se avessi avuto vent’anni il 20 novembre del 2002,quando una sentenza della Corte Costituzionale aveva obbligato Mediaset a spedire Rete 4 sul satellite entro il 31 dicembre del 2003 per liberare la concessione delle frequenze occupate da Rete 4 ,avrei opportunamente pensato che Berlusconi non fosse Presidente del Consiglio per la seconda volta per caso.Se invece avessi avuto vent’anni (non c’entra nell’iterazione né Paul Nizan né Gerry Scotti…) nel ’99,quando a Francesco Di Stefano per Europa 7 era stata assegnata la concessione di cui sopra, da osservatore non direttamente coinvolto dagli affari della politica ma solo attento alle libertà costituzionali e alle loro implicazioni sul piano delicatissimo e decisivo dell’informazione mi sarei immaginato finalmente una svolta nel sistema mediatico nazionale.

Come pure,se avessi avuto vent’anni un quinquennio prima,quando nel ’94 una sentenza sempre della Corte Costituzionale ordinava di spegnere la terza rete berlusconiana nell’ambito della legge di settore detta Maccanico,avrei credo ragionato sui cambiamenti epocali che il neonato maggioritario sia pure leggermente straccione,diciamo il Mattarellum,si apprestava a comportare in Italia nell’habitat televisivo.

Ma bypassando all’indietro i fasti dell’altra legge storica,la Mammì,un ventenne quale sarei potuto essere il 20 ottobre 1984,venendo a conoscenza che il presidente del Consiglio di allora,Bettino Craxi, dall’aereo presidenziale sul quale stava tornando da Londra telefonava al suo consiglio dei Ministri un preallarme per un istantaneo provvedimento a favore di Silvio Berlusconi cui il 16 ottobre,dunque solo quattro giorni prima -il decisionismo si vede nei frangenti più importanti,altro che i mollaccioni di ora…- i pretori avevano oscurato le reti, se (pur così giovane) avvertito nel ramo si sarebbe detto forse per la prima volta :”Toh,ma tu dimmi come sono avvinte le edere della politica e della televisione !”.Anche se poi la Camera aveva bocciato il decreto il 28 novembre successivo.Anche se sotto Natale,subito dopo, un nuovo decreto nel merito aveva prorogato la possibilità di trasmettere per l’allora (allora?) Sua Emittenza con tre reti intanto fino al 31 dicembre 1985,decreto convertito in legge grazie al voto decisivo di Almirante

(pro-memoria per i ventenni odierni: trattasi della preistoria di Fini e di alcuni baldi sessantenni di questo gennaio,della Rai,tra gli altri…).

Per maggiori informazioni consultare il libro di Elio Veltri “Da Craxi a craxi”,ed.Laterza, 1993,da cui si può utilmente estrarre anche l’intervento sulla questione da parte di Ugo Intini,sull’Avanti che dirigeva,che sui pretori citati scrisse parole di fuoco contro il “protagonismo” e la politicizzazione di alcuni magistrati.Tu guarda.Dov’è oggi?

E non vorrei qui dover considerare l’aneddoto, eccellente per uno che i vent’anni se li stesse scrostando alla fine degli anni ’70, di quando un Berlusconi ancora piacente e capelluto chiese e ottenne un incontro con Enrico Berlinguer, al Bottegone, per prostrarsi mettendo a disposizione del Pci il suo imberbe impero tv di allora.Il testimone ancora vivo di quella prostrazione racconta che il segretario comunista,che oggi nel pantheon democratico viene sostituito sembra da Craxi (cfr. il Fassino pre-birmano) lo mise alla porta con semplicità:”Scusi,ma qui non facciamo di queste cose”.Silvio imboccò prontamente l’uscio non lontano di Craxi.E chissà che oggi nel Pd (il cui Pantheon dunque ha compiuto la medesima operazione) non pensino che Berlinguer fosse solo un ingenuo senza prospettive….

Detto questo e non essendo ahimé ventenne,oggi dopo le ultime ripetitive esternazioni del Cavaliere sono costretto ad alcune conclusioni destinate ovviamente al silenzio, oppure,nella remota ipotesi che se ne voglia parlare, alla discussione di chiunque mediti di occuparsene con onestà intellettuale anche solo lillipuziana.

1)La questione politico-televisiva condiziona il Paese da quasi trent’anni.C’è un tappo alla bottiglia/Italia,ed è naturalmente Berlusconi,per cui questo Paese sa di tappo in tutte le cose che lo riguardano.Un odoraccio e un saporaccio.Chi osservi la faccenda da fuori,all’estero, se ne rende conto meglio,ma anche da dentro la cosa è chiarissima.Diresti: se stappi l’Italia,puoi ricominciare a coltivare e poi bere vino accettabile o addirittura selezionato,quello che ci sentiamo sventolare sotto il naso da tempo a partire da chi,come Furio Colombo,ne ha fatto una meritoria e ininterrotta campagna (a proposito di campagna,cfr.la sua formula “deformazione del paesaggio”).Già,ma la ricostruzione politico-televisiva di questi trent’anni ci dice che solo Berlinguer,e tanto tempo fa, ha messo alla porta Berlusconi.Quindi,che il tappo prima televisivo-imprenditoriale,poi da quasi tre lustri politico-televisivo-imprenditoriale,viene mantenuto a forza a chiudere la bottiglia dall’intiera classe politica del Paese nelle sue varie evoluzioni.

Anche qui,potrei fare il giochetto della memoria a ritroso,partendo dall’ultima Finanziaria che procrastina astutamente, dopo giochetti da “tre noci/dov’è il pisello?” spuntati dai più strani emendamenti,addirittura al 2012 la traduzione di tutto il sistema televisivo sul digitale terrestre. Fregando quindi in primis chi come il già citato Di Stefano di Europa 7 ha anche a suo favore una sentenza del 18 luglio 2005 del Consiglio di Stato che bollava la legge Gasparri come illegittima nella giurisdizione europea.All’epoca si parlava di “tutto sul digitale” entro il 2006,poi il termine con i soliti sistemi fu fatto slittare in extremis da una proroga-Landolfi al 2008 prima delle ultime elezioni vinte da Prodi (sì,da Prodi).

Va tutto nella stessa direzione di ciò che ho riassunto.Perché?

2)Non c’è dunque alcun ragionevole motivo per pensare che tale questione venga affrontata seriamente per risolverla e non per accroccarla in scambi,baratti,cessioni come fatto finora.In una palude navigata da finte polemiche mediatiche sulla “punitività” di una legge che applica sentenze costituzionali,da reali e a volte addirittura dichiarati urbi et orbi intenti del centrosinistra di non toccare nulla,dalla stanchezza di una pubblica opinione che a forza di decenni vanamente e superfetalmente spesi sulla questione e sulla successiva e collegata dizione “conflitto di interessi” (per Berlusconi come per l’intiera classe dirigente o addirittura l’intiero Paese) non ha più un’opinione,né pubblica né privata.Anzi,solo a sentir evocare il pasticcio per non essere tediata e raggirata mette mano alla pistola,specie se è davanti o dietro una montagna di “mondezza”.

3)Il problema del tappo non è quindi solo Berlusconi,magari lo fosse.Sono un po’ tutti.Al punto di far pensare con raccapriccio politico e letterario sollievo a che cosa accadrà quando prima o poi il tappo salterà malgrado tutte le indicazioni ultramondane del sindaco di Catania,Scapagnini.Che farà quella parte della politica che a parole detesta Berlusconi e nei fatti pare non poterne o volerne fare a meno?Se avessi vent’anni oggi sarei davvero preoccupato,molto preoccupato per questa ineluttabile eventualità.Come faremo con l’Italia stappata e con una sinistra che non l’ha saputa/voluta stappare fino alle estreme conseguenze che abbiamo sotto gli occhi?

Ma non ho vent’anni,e quindi temo “soltanto” per figli e nipoti:che volete che sia,come diceva Totò, quisquillie e pinzillacchere.

fonte: oliviero beha

21 gennaio 2008

Se Cuffaro ha vinto, lo Stato ha perso!


La standing ovation della cosca politica che ha salutato la condanna del governatore siciliano Totò Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi e la sua decisione di restare al suo posto sono perfettamente coerenti con la “ola” parlamentare che, mercoledì mattina, ha accompagnato l’attacco selvaggio del cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella alla magistratura che aveva appena arrestato sua moglie e altri 22 suoi compari di partito. Così come con il tifo da stadio che ha osannato la sua signora interrogata ieri in Tribunale. Ma anche con il silenzio tombale che, nella politica e nella magistratura, è seguito alla vergognosa, ributtante decisione all’unanimità della sezione disciplinare del Csm: Luigi De Magistris condannato alla gravissima sanzione della censura e alla pena accessoria del trasferimento lontano da Catanzaro, con l’impossibilità di esercitare ancora le funzioni di pm. Insomma: Cuffaro resta, Mastella è atteso dal governo come il figliol prodigo dal padre buono che prepara il vitello grasso, la first lady ceppalonica dirige il consiglio regionale dagli arresti domiciliari, mentre l’unico che se ne deve andare è De Magistris.

In attesa delle motivazioni della sentenza del Csm, va notato che il procuratore generale che ha sostenuto l’accusa contro De Magistris è Vito D’Ambrosio, ex presidente Ds della Regione Marche, mentre il presidente della sezione disciplinare è l’ex democristiano ed ex margherito Nicola Mancino. Due politici del centrosinistra che giudicano un magistrato che indagava su politici del centrosinistra. E meno male che il Csm è l’organo di “autogoverno” (poi ci sono i membri togati, cioè i magistrati, che han votato unanimi a braccetto con i politici per cacciare il loro giovane collega: speriamo che un giorno si vergognino di quello che hanno fatto).

Anche per Totò Vasa Vasa bisogna attendere le motivazioni della sentenza per sapere come mai il Tribunale non gli abbia applicato l’aggravante della volontà di favorire Cosa Nostra. Ma non si può certo dire che sia stata una sorpresa. C’era chi l’aveva prevista fin dal 2004 e aveva fatto di tutto per scongiurarla: i pm “dissidenti” dalla linea dell’allora procuratore Piero Grasso e del suo fedelissimo aggiunto Giuseppe Pignatone. E cioè Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Guido Lo Forte e altri, tutti schierati con il pm che aveva avviato le indagini su Cuffaro: Gaetano Paci, il quale nel 2004 fu protagonista di un duro braccio di ferro con i colleghi che indagavano con lui ma che, in ossequio alla linea Grasso, non ne volevano sapere di contestare a Cuffaro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, peraltro affibbiato a tutti i suoi coimputati, quasi tutti arrestati proprio per quel delitto. Paci ne faceva anzitutto una questione di equità: come si può accusare Cuffaro di essere il capo della banda delle talpe che informavano i mafiosi e poi contestargli soltanto due episodi di favoreggiamento, accusando tutti gli altri (e arrestandone un buon numero) per concorso esterno? La legge è uguale per tutti o i politici sono più uguali degli altri? C’era poi una questione tecnica: avendo dichiarazioni di mafiosi pentiti, ampiamente riscontrate, sul fatto che fin dal 1991 Cuffaro si era messo nelle mani di Cosa Nostra, andando a chiedere al mafioso Angelo Siino i voti per la sua prima elezione all’Assemblea Regionale, era molto più facile dimostrare che il governatore è da oltre 15 anni un fiancheggiatore esterno della mafia. Per il favoreggiamento mafioso, invece, occorre provare che, quando avvertì - tramite i suoi uomini - il boss Giuseppe Guttadauro che aveva la casa piena di microspie, Cuffaro voleva favorire l’intera Cosa Nostra. Una prova difficilissima, anche perché è più logico pensare che Cuffaro intendesse favorire anzitutto se stesso: se Guttadauro avesse continuato a parlare (ascoltato dagli inquirenti), avrebbe messo nei guai alcuni fedelissimi del governatore che frequentavano abitualmente il boss. Paci pagò a carissimo prezzo l’aver tenuto la schiena dritta: il suo capo, cioè Piero Grasso, lo estromise brutalmente dalle indagini che lui stesso aveva avviato. Due anni dopo anche il pm Di Matteo sostenne la necessità di contestare a Cuffaro il concorso esterno, ma anche lui finì in minoranza e dovette lasciare il processo. I pm superstiti, cioè Pignatone, De Lucia e Prestipino, seguitarono caparbiamente a tener duro sulla linea morbida (intanto, per fortuna, il nuovo procuratore Francesco Messineo e l’aggiunto Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, aprivano un nuovo fascicolo sul governatore, per concorso esterno). E venerdì sono andati a sbattere contro il Tribunale, che li ha duramente sconfessati (anche se nessuno lo scrive).

Ora il procuratore Grasso fa come la volpe con l’uva: siccome non è riuscito ad afferrarla, dice che era acerba. Sul Corriere, afferma che la prova necessaria per condannare Cuffaro per favoreggiamento mafioso era “una prova diabolica, complicata da trovare”. Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Ingroia e altri colleghi da lui emarginati gliel’avevano detto per anni. Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, ci sono fior di sentenze dei giudici di Palermo che condannano personaggi ben più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. La verità è che la contestazione del favoreggiamento mafioso, ora derubricato a favoreggiamento non mafioso, ha di fatto salvato Cuffaro da un processo che poteva segnare la fine della sua carriera politica. Senza l’aggravante mafiosa, il governatore beneficia dell’indulto e i 5 anni di pena diventano 2. Niente carcere, dunque, in caso di condanna definitiva. C’è l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma non scatterà mai perché il reato cadrà in prescrizione - grazie alla legge ex Cirielli - tra un paio d’anni, probabilmente prima che si chiuda il processo d’appello. Così, paradossalmente, Totò pur condannato ha vinto la sua partita, mentre la vecchia Procura l’ha rovinosamente persa. Perché non ha voluto giocarla.
Salvatore Salvato