26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

24 luglio 2011

Stress test e contenzioso sommerso






La scorsa settimana abbiamo avuto comunicazione che Bankitalia – BCE hanno eseguito lo stress test sulle 5 maggiori banche italiane, e che tutte lo hanno superato. Quanto vale questo risultato e il metodo che lo ha prodotto? Perché i mercati l’hanno bocciato, affondando le azioni bancarie?

Base degli stress test, ossia dei test di solidità delle banche rispetto a possibili shock finanziari, è la consistenza patrimoniale delle banche medesime. Il grosso dell’attivo patrimoniale delle banche è dato, ovviamente, dai crediti verso i clienti e verso gli stati. Quindi il punto di partenza di ogni stress test dovrebbe essere la verifica dell’effettiva sussistenza dei crediti vantati in portafoglio, e del grado di solvibilità dei rispettivi debitori.

Gli stress test sinora condotti, a quanto si capisce, si basano sui dati di bilancio dichiarati dalle banche stesse, e non verificano se essi siano veritieri oppure no: vedi il press release 23.07.11 della BCE. Eppure, molti, recenti e clamorosi episodi di crack finanziari hanno dimostrato che sovente le grandi società (Parmalat, Halliburton, Lehman Brothers), così come fanno le piccole, al fine di ottenere o mantenere crediti o investimenti, dichiarano dati molto migliori di quelli reali. Sappiamo inoltre che tutte le società sono in grado di aggiustare i bilanci, quando serve, e che molte lo fanno (window dressing). Quindi il prendere per veri i dati dichiarati dalle banche che si dovrebbe controllare rende gli stress test pressoché inutili, come certificazione di solidità delle banche che lo superano. Se poi si deve controllare se una impresa sia solida oppure no, cioè se si vuole fugare il dubbio che sia pericolante, pretendere di farlo basandosi sui dati che essa stessa dichiara è ridicolo, è un controsenso come chiedere all’oste se il suo vino è buono.

La conseguenza è che l’esito degli stress test non è stato rassicurante. Gli esperti sanno che chi li esegue non esegue prima un controllo analitico e in proprio soprattutto della qualità e consistenza dei crediti che ciascuna banca ha iscritto nello stato patrimoniale, nonché delle garanzie che essa ha prestato per debiti di altri soggetti (solitamente, società-veicolo da essa controllate) e che sono, o dovrebbero essere, esposte nei conti d’ordine. Ricordiamo che la mancata considerazione di tali fattori di rischio da parte di analisti, società di revisione e autorità finanziarie è stata decisiva per i crack-frodi delle banche americane degli ultimi anni. Vedremo se in Italia si imparerà da quella lezione.

Nella realtà delle nostre banche, in effetti, mi risulta che molti crediti sono stati cartolarizzati, cioè ceduti dalle banche a società terze, ma, allo scopo di simulare una maggiore patrimonializzazione, vengono mantenuti contabilmente nell’attivo patrimoniale col pretesto che le banche partecipano le società cessionarie. Molti altri crediti sono mantenuti in bilancio come esigibili dalle banche, mentre i debitori sono morosi o addirittura insolventi. Traspare un mare di contenzioso sommerso, che le banche, ovviamente nel proprio interesse, non mettono in sofferenza.

Per fare stress test attendibili, bisognerebbe dunque prima controllare seriamente, con apposite ispezioni della Banca d’Italia, i conti delle banche interessate, togliere dallo stato patrimoniale i crediti convogliati su società veicolo non cedute, togliere quelli inesigibili, ed eseguire gli accantonamenti per quelli da incaglio (accantonamento pari al 35% del credito) e per quelli da contenzioso (accantonamento pari al 50%). Altrimenti i dati patrimoniali del bilancio sono falsi per supposizione di attivi inesistenti e occultamento di passivi esistenti. E ciò, dentro il mondo bancario, è ben noto. Onde la sfiducia verso operazioni di rassicurazione anche se blasonate.

Molte banche, di prassi, a quanto mi si riferisce, in violazione delle disposizioni di Bankitalia, non fanno le suddette quattro operazioni, perché se le facessero la loro patrimonializzazione si ridurrebbe a livelli di default o perlomeno critici per l’operatività. E qui ritorna l’incompatibilità logica di banche e loro controllanti o partecipate, che da un lato dovrebbero essere controllate e disciplinate da Bankitalia, mentre dall’altro lato la controllano come socie. Questo problema si estende alla BCE, partecipata da Bankitalia e co-autrice degli stress test.

Le società di revisione, che dovrebbero assicurarsi che le banche formulino bilanci veritieri, che rispettino le predette disposizioni e che facciano gli accantonamenti, si rivelano poco attive, se è vero quanto sopra riferito. Per farlo, dovrebbero prendere in mano le singole pratiche, o almeno i tabulati integrali. Ma lo fanno? La Consob, che istituzionalmente ha il dovere di vigilare su di loro, dovrebbe farsi più attenta e penetrante. I controlli devono essere credibili, devono farsi sentire, oppure…

Per fare le cose seriamente, propongo di mandare ispezioni a sorpresa nelle filiali e nelle sedi centrali, richiedendo i tabulati completi dei crediti in essere, con indicazione delle cessioni , per verificare se siano state eseguite o no le debite rettifriche; delle morosità, per verificare se siano stati fatti gli incagli, le segnalazioni e gli accantonamenti prescritti; ma anche per richiedere le pratiche dei debitori ammessi a “benefici” quali dilazioni, sospensioni, differimenti delle rate o degli interessi, onde verificare la condizione patrimoniale e reddituale dei debitori beneficiari, imprese o privati che siano.

Queste sono tutte agevolazioni sponsorizzate dal governo a vantaggio sì dei consumatori-clienti ma anche delle banche, che beneficiano della regolarizzazione figurativa delle posizioni debitorie nel sistema differendo di anni la loro problematicità e ricavandone un’ottima immagine, un’immagine di competenza e coscienziosità e solidità, da spendere anche politicamente.

Infatti molto spesso tali benefici sono mascheramenti di morosità e posizioni insolventi, che andrebbero cancellate dall’attivo patrimoniale o quantomeno controbilanciate con accantonamenti del 35% o del 50% a seconda dei casi. Benefici del tipo “sospensione per 24 mesi dei pagamenti” comportano, per chi è già moroso di massimo 12 rate, che la mora si faccia figurare sanata mentre non lo è, e che altre 12 rate a scadere, che pure non saranno pagate, figureranno pagate. Poiché tali benefici sono stati applicati a milioni di soggetti, se si dovesse sollevare la foglia di fico che essi costituiscono, salterebbe fuori un mare di morosità e inesigibilità di crediti, che pure dovrebbero essere tolti dall’attivo patrimoniale delle banche, o controbilanciati coi predetti accantonamenti. Ma la sospensione finisce, prima o poi, e allora il marcio riaffiora o riaffiorerà. E questa è una mina a scoppio ritardato, che, frazie anche agli incoraggiamenti del governo, ci ritroviamo nella pancia.

Il risultato di tutte queste operazioni di correzione dei bilanci, di riduzione di attivi fasulli, sarebbe, verosimilmente, il crollo del settore bancario italiano, in quanto illiquido e decotto, gonfio di crdditi inesigibili o ceduti. Se e quanto la cosa emergerà, la capitalizzazione delle banche italiane quotate, già scesa da 222 a 75 miliardi in 4 anni nonostante i cospicui aumenti di capitale, potrebbe scendere alle più oscure profondità. Evitare o rinviare questo esito, è forse l’unica giustificazione del maquillage detto stress test: se non si maschera lo stato di decozione delle banche, succede il disastro, qualcosa che la politica non saprebbe governare.

Il vecchio carrozziere in pensione, davanti a cui ho letto e corretto il presente articolo, annuisce e conferma: “Sì, ricordo di quando venivano da me gli ispettori della banca centrale a farsi riparare le loro vetture private richiedendomi di fatturare come se avessi riparato automobili delle banche che erano venuti a controllare, su indicazione e precisi accordi con le direzioni di queste. Può immaginare l’attendibilità di quei controlli.”

La via per ristabilire, insieme, la verità economica e l’affidabilità delle banche, esiste, ma è contraria agli interessi dei banchieri, perché espone la natura della loro attività, e qui l’accenno solamente (ampiamente ne ho parlato nei saggi Euroschiavi e La Moneta Copernicana): essa inizia col rilevare che sono omissive le annotazioni di uscita di cassa e di entrata ( ”accensione” ) di un credito che accompagnano l’erogazione ( di crediti) da parte delle banche, perché non riportano che ciò che esce di cassa – il credito, la moneta bancaria – non preesiste all’erogazione, ma è creato dalla banca stessa. mediante l’atto dell’erogazione di credito. Quindi il corrispondente credito con essa generato non è controbilanciato dall’uscita di cassa di denaro o valore preesistente, ma è un ricavo netto, cui si sommeranno i pagamenti di interessi. I risultati di gestione e lo stato patrimoniale dovrebbero essere rivisti di conseguenza. E anche le tasse applicabili alle banche, naturalmente. In tal modo il problema della patrimonialità delle banche sarebbe radicalmente superato, e insieme quello della finanza pubblica. Ma far emergere questi redditi occulti presupporrebbe la rinuncia a usare, come oggi si usa, la moneta e il credito come strumenti per dominare la società e l’economia, anziché per fare il loro bene favorendo loro sviluppo.
di Marco Della Luna

26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

24 luglio 2011

Stress test e contenzioso sommerso






La scorsa settimana abbiamo avuto comunicazione che Bankitalia – BCE hanno eseguito lo stress test sulle 5 maggiori banche italiane, e che tutte lo hanno superato. Quanto vale questo risultato e il metodo che lo ha prodotto? Perché i mercati l’hanno bocciato, affondando le azioni bancarie?

Base degli stress test, ossia dei test di solidità delle banche rispetto a possibili shock finanziari, è la consistenza patrimoniale delle banche medesime. Il grosso dell’attivo patrimoniale delle banche è dato, ovviamente, dai crediti verso i clienti e verso gli stati. Quindi il punto di partenza di ogni stress test dovrebbe essere la verifica dell’effettiva sussistenza dei crediti vantati in portafoglio, e del grado di solvibilità dei rispettivi debitori.

Gli stress test sinora condotti, a quanto si capisce, si basano sui dati di bilancio dichiarati dalle banche stesse, e non verificano se essi siano veritieri oppure no: vedi il press release 23.07.11 della BCE. Eppure, molti, recenti e clamorosi episodi di crack finanziari hanno dimostrato che sovente le grandi società (Parmalat, Halliburton, Lehman Brothers), così come fanno le piccole, al fine di ottenere o mantenere crediti o investimenti, dichiarano dati molto migliori di quelli reali. Sappiamo inoltre che tutte le società sono in grado di aggiustare i bilanci, quando serve, e che molte lo fanno (window dressing). Quindi il prendere per veri i dati dichiarati dalle banche che si dovrebbe controllare rende gli stress test pressoché inutili, come certificazione di solidità delle banche che lo superano. Se poi si deve controllare se una impresa sia solida oppure no, cioè se si vuole fugare il dubbio che sia pericolante, pretendere di farlo basandosi sui dati che essa stessa dichiara è ridicolo, è un controsenso come chiedere all’oste se il suo vino è buono.

La conseguenza è che l’esito degli stress test non è stato rassicurante. Gli esperti sanno che chi li esegue non esegue prima un controllo analitico e in proprio soprattutto della qualità e consistenza dei crediti che ciascuna banca ha iscritto nello stato patrimoniale, nonché delle garanzie che essa ha prestato per debiti di altri soggetti (solitamente, società-veicolo da essa controllate) e che sono, o dovrebbero essere, esposte nei conti d’ordine. Ricordiamo che la mancata considerazione di tali fattori di rischio da parte di analisti, società di revisione e autorità finanziarie è stata decisiva per i crack-frodi delle banche americane degli ultimi anni. Vedremo se in Italia si imparerà da quella lezione.

Nella realtà delle nostre banche, in effetti, mi risulta che molti crediti sono stati cartolarizzati, cioè ceduti dalle banche a società terze, ma, allo scopo di simulare una maggiore patrimonializzazione, vengono mantenuti contabilmente nell’attivo patrimoniale col pretesto che le banche partecipano le società cessionarie. Molti altri crediti sono mantenuti in bilancio come esigibili dalle banche, mentre i debitori sono morosi o addirittura insolventi. Traspare un mare di contenzioso sommerso, che le banche, ovviamente nel proprio interesse, non mettono in sofferenza.

Per fare stress test attendibili, bisognerebbe dunque prima controllare seriamente, con apposite ispezioni della Banca d’Italia, i conti delle banche interessate, togliere dallo stato patrimoniale i crediti convogliati su società veicolo non cedute, togliere quelli inesigibili, ed eseguire gli accantonamenti per quelli da incaglio (accantonamento pari al 35% del credito) e per quelli da contenzioso (accantonamento pari al 50%). Altrimenti i dati patrimoniali del bilancio sono falsi per supposizione di attivi inesistenti e occultamento di passivi esistenti. E ciò, dentro il mondo bancario, è ben noto. Onde la sfiducia verso operazioni di rassicurazione anche se blasonate.

Molte banche, di prassi, a quanto mi si riferisce, in violazione delle disposizioni di Bankitalia, non fanno le suddette quattro operazioni, perché se le facessero la loro patrimonializzazione si ridurrebbe a livelli di default o perlomeno critici per l’operatività. E qui ritorna l’incompatibilità logica di banche e loro controllanti o partecipate, che da un lato dovrebbero essere controllate e disciplinate da Bankitalia, mentre dall’altro lato la controllano come socie. Questo problema si estende alla BCE, partecipata da Bankitalia e co-autrice degli stress test.

Le società di revisione, che dovrebbero assicurarsi che le banche formulino bilanci veritieri, che rispettino le predette disposizioni e che facciano gli accantonamenti, si rivelano poco attive, se è vero quanto sopra riferito. Per farlo, dovrebbero prendere in mano le singole pratiche, o almeno i tabulati integrali. Ma lo fanno? La Consob, che istituzionalmente ha il dovere di vigilare su di loro, dovrebbe farsi più attenta e penetrante. I controlli devono essere credibili, devono farsi sentire, oppure…

Per fare le cose seriamente, propongo di mandare ispezioni a sorpresa nelle filiali e nelle sedi centrali, richiedendo i tabulati completi dei crediti in essere, con indicazione delle cessioni , per verificare se siano state eseguite o no le debite rettifriche; delle morosità, per verificare se siano stati fatti gli incagli, le segnalazioni e gli accantonamenti prescritti; ma anche per richiedere le pratiche dei debitori ammessi a “benefici” quali dilazioni, sospensioni, differimenti delle rate o degli interessi, onde verificare la condizione patrimoniale e reddituale dei debitori beneficiari, imprese o privati che siano.

Queste sono tutte agevolazioni sponsorizzate dal governo a vantaggio sì dei consumatori-clienti ma anche delle banche, che beneficiano della regolarizzazione figurativa delle posizioni debitorie nel sistema differendo di anni la loro problematicità e ricavandone un’ottima immagine, un’immagine di competenza e coscienziosità e solidità, da spendere anche politicamente.

Infatti molto spesso tali benefici sono mascheramenti di morosità e posizioni insolventi, che andrebbero cancellate dall’attivo patrimoniale o quantomeno controbilanciate con accantonamenti del 35% o del 50% a seconda dei casi. Benefici del tipo “sospensione per 24 mesi dei pagamenti” comportano, per chi è già moroso di massimo 12 rate, che la mora si faccia figurare sanata mentre non lo è, e che altre 12 rate a scadere, che pure non saranno pagate, figureranno pagate. Poiché tali benefici sono stati applicati a milioni di soggetti, se si dovesse sollevare la foglia di fico che essi costituiscono, salterebbe fuori un mare di morosità e inesigibilità di crediti, che pure dovrebbero essere tolti dall’attivo patrimoniale delle banche, o controbilanciati coi predetti accantonamenti. Ma la sospensione finisce, prima o poi, e allora il marcio riaffiora o riaffiorerà. E questa è una mina a scoppio ritardato, che, frazie anche agli incoraggiamenti del governo, ci ritroviamo nella pancia.

Il risultato di tutte queste operazioni di correzione dei bilanci, di riduzione di attivi fasulli, sarebbe, verosimilmente, il crollo del settore bancario italiano, in quanto illiquido e decotto, gonfio di crdditi inesigibili o ceduti. Se e quanto la cosa emergerà, la capitalizzazione delle banche italiane quotate, già scesa da 222 a 75 miliardi in 4 anni nonostante i cospicui aumenti di capitale, potrebbe scendere alle più oscure profondità. Evitare o rinviare questo esito, è forse l’unica giustificazione del maquillage detto stress test: se non si maschera lo stato di decozione delle banche, succede il disastro, qualcosa che la politica non saprebbe governare.

Il vecchio carrozziere in pensione, davanti a cui ho letto e corretto il presente articolo, annuisce e conferma: “Sì, ricordo di quando venivano da me gli ispettori della banca centrale a farsi riparare le loro vetture private richiedendomi di fatturare come se avessi riparato automobili delle banche che erano venuti a controllare, su indicazione e precisi accordi con le direzioni di queste. Può immaginare l’attendibilità di quei controlli.”

La via per ristabilire, insieme, la verità economica e l’affidabilità delle banche, esiste, ma è contraria agli interessi dei banchieri, perché espone la natura della loro attività, e qui l’accenno solamente (ampiamente ne ho parlato nei saggi Euroschiavi e La Moneta Copernicana): essa inizia col rilevare che sono omissive le annotazioni di uscita di cassa e di entrata ( ”accensione” ) di un credito che accompagnano l’erogazione ( di crediti) da parte delle banche, perché non riportano che ciò che esce di cassa – il credito, la moneta bancaria – non preesiste all’erogazione, ma è creato dalla banca stessa. mediante l’atto dell’erogazione di credito. Quindi il corrispondente credito con essa generato non è controbilanciato dall’uscita di cassa di denaro o valore preesistente, ma è un ricavo netto, cui si sommeranno i pagamenti di interessi. I risultati di gestione e lo stato patrimoniale dovrebbero essere rivisti di conseguenza. E anche le tasse applicabili alle banche, naturalmente. In tal modo il problema della patrimonialità delle banche sarebbe radicalmente superato, e insieme quello della finanza pubblica. Ma far emergere questi redditi occulti presupporrebbe la rinuncia a usare, come oggi si usa, la moneta e il credito come strumenti per dominare la società e l’economia, anziché per fare il loro bene favorendo loro sviluppo.
di Marco Della Luna