21 dicembre 2010

Gli Euro Bond


In campo economico e monetario, oltre ad avere le idee chiare ed aver capito come si incastrano i vari meccanismi, da chi vengono orchestrati, a favore di chi e per quali inconfessabili scopi, è necessario soprattutto mantenere coerenza e comportamenti consequenziali con le proprie analisi ed i propri convincimenti maturati nel tempo, ancor più se questi si stanno rilevando più che utili, indispensabili alla normalizzazione della situazione economica ed occupazionale e funzionali al conseguimento del bene comune di tutti e di ciascuno. Non è possibile, dopo aver recentemente e pubblicamente modificato i propri convincimenti per quanto attiene all’emissione monetaria ed aver concluso e riconosciuto la necessità che sia lo Stato a ritornare a battere moneta in prima persona sulla scia della centennale e positiva esperienza pregressa, come ha recentemente affermato pubblicamente Marco Della Luna, e poi entusiasmarsi per gli Eurobond proposti dal Ministro Tremonti in campo europeo. Posso comprendere che la solita cricca ammantata dell'aureola bocconiana così cara alla cupola monetaria spinga per far si che ciò avvenga. Al banchiere interessa e si adopera affinché venga creato del debito da amministrare, qualunque sia ma sempre garantiti da titoli reali, sul quale lucrare e mediante il quale imporre le solite condizioni capestro che approdano come sempre accade, all’esproprio dei beni materiali di qualunque natura del debitore. Ovviamente per quanto riguarda i titoli ricevuti in garanzia, quelli di stato sono più graditi delle cambiali private, i titoli europei lo sono ancor dippiù, meglio ancora se garantiti dall'oro come già suggerito dalla cricca dei scodinzolanti economisti di vecchia memoria, sempre quelli per intenderci che sino al giorno prima non si erano accorti dell'incombenza dell'ultima devastante crisi economica. Se l’iniziativa di lanciare gli Eurobond del nostro Ministro, che tanto piace a questa razza di economisti, è una mossa che serve a dimostrare che anche questa strada non è percorribile per l’indisponibilità di alcuni Paesi, tra i quali Francia e Germania, di farsi carico dei pesi altrui, come ha evidenziato lo stesso Della Luna, allora, se non altro che per esclusione, occorre ricercare altre soluzioni capaci di reperire risorse per far ripartire l’economia e l’occupazione, senza creare nuovi debiti sia pubblici che privati. Il limite degli Eurobond è proprio questo, oltre all’assurdità di creare nuovo debito ed impastoiarsi ancor più nei confronti dei soliti banchieri. Sulle questioni economiche e monetarie non è possibile saltare i passaggi essenziali e non tenere conto degli interessi nazionali del proprio Paese, ne è pensabile voler unificare Nazioni diverse per cultura, per stato sociale, per capacità produttiva, ed ancor più per capacità creativa ed inventiva, che verrebbe definitivamente mortificata, attraverso ed utilizzando la leva del debito, che dovrebbe diventare comunitario e costruito con gli Eurobond. Come abbiamo dovuto prendere atto, il marchingegno degli Eurobond non funziona e contestualmente non può essere perso di vista quello che oggi per noi italiani è lo scopo prioritario che deve perseguire la Politica, indipendentemente dai contrasti tra governo ed d’opposizione. Ciò in primis riguarda proprio la ripresa dell'economia reale e delle attività economiche, quelle per intenderci capaci di riassorbire la disoccupazione che in barba a tutte le chiacchiere continua a crescere insieme e quasi di pari passo al debito pubblico. Non si riesce a far ripartire l’economia poiché non si dispongono le risorse necessarie per finanziare le attività vecchie o nuove che siano. Prima o al massimo contestualmente di perseguire il riassetto europeo sistemiamo casa nostra. Assistiamo alla violenta ed atavica disputa politica tra maggioranza ed opposizione per futili motivi, tra maggioranza ed ex pezzi della stessa per stabilire chi è più liberale, nella quale la maggioranza glissa sul come uscire dalla crisi economica e l’opposizione si guarda bene da avanzare proposte e denunciare in favore delle fasce sociali che si stanno sempre più impoverendo e degli imprenditori che stanno fallendo, che il tutto é causato dalle ingentissime risorse sottratte dal mercato, spesso a propria insaputa, a favore dei banchieri. Smettiamo di ricercare soluzioni attraverso l'ulteriore indebitamento così caro ai banchieri, liberiamoci della foglia di fico del liberalismo dietro la quale si annida la pattuglia dei dissidenti dell’attuale maggioranza, congeniale ai banchieri, smaniosi di acquisire, con il candido e innocente sussurro delle privatizzazioni, le migliori aziende dello Stato invidiateci da tutto il mondo, con la scusa di alleggerire il “debito pubblico” e per ammansire la canee dei famelici banchieri che con il giochino delle tre carte, con l’emissione monetaria taroccata, con le agenzie di rating, con l’esclusiva per grazia ricevuta, di battere moneta, amministrano il pseudo debito costruito appunto con i raggiri sopra descritti. Smettiamo di costruire debito mediante l’emissione di titoli di debito dello Stato per farli scontare alla solita cupola monetaria. Se i titoli di debito emessi dallo Stato, sono accettati allo sconto da questi avvedutissimi, prudentissimi ed insindacabili strozzini in guanti bianchi, debbono essere buoni per il mercato anche i titoli monetari emessi dalle stessa Pubblica Amministrazione. Poiché il trattato di Maastrikt è già stato ampiamente violato da Paesi ben più blasonati del nostro, ritorniamo senza esitazioni a battere moneta in proprio come abbiamo saputo fare così bene per




oltre 100 anni. Diamo risposte concrete all’opposizione poiché ci procuriamo la capacità di spesa per rilanciare le attività produttive e l‘occupazione senza indebitarci, salviamo gli imprenditori dalle angherie e dallo strangolo bancario e monetario ulteriormente pianificato da “Basilea 3”, con un colpo solo ci liberiamo dai ricatti e dall'assillo delle agenzie di rating ogni volta che si avvicina la data di scadenza o rinnovo dei titoli, risparmiamo la non lieve cifra degli interesii passivi (al tasso dell'1% 80 miliardi di euro all’anno e già si trama per aumentare tassi & affini vari), l’Esecutivo di qualunque colore sia, recupera la propria capacità politica di programmare la politica nazionale, attualmente miseramente relegata a rastrellare risorse dal mercato per convogliarle ai banchieri. Se poi la residua cupola bancaria-monetaria dovesse, come suo costume, influenzare le solite agenzie di rating e per alterare il livello dei cambi, saremmo felicissimi sia quando svalutano che quando rivalutano la moneta nazionale: disponiamo delle appropriate terapie per ogni circostanza. L'essenziale è che non siano i banchieri a gestirle.
Questo è il compito della politica seria e di tutti i cittadini consapevoli. Pensare di sottrarsi a queste incombenze è da irresponsabili sia nei confronti del prossimo ed ancor più dei propri figli.
La validità della instancabile proposta avanzata da sempre da Della Luna di espatriare per ricercare condizioni migliori, ma con il sottinteso messaggio subliminale di propagare la rassegnazione allo status quo, può essere ritenuta valida solamente dal concreto e pronto esempio di chi l’ha formulata.
di Savino Frigiola

20 dicembre 2010

Il crack del Banco Emiliano Romagnolo




Crack Banco Emiliano Romagnolo

Oggi ho ricevuto una mail sul fallimento del Banco Emiliano Romagnolo (BER) e il congelamento di conti correnti e dei titoli (che non sono di proprietà della banca) su disposizione della Banca d'Italia. Il blog ha verificato con una telefonata (la voce è stata modificata per evitare problemi a ci ha fornito le risposte) che è tutto vero. Provate a immaginare di trovarvi domani senza poter accedere al conto corrente, al bancomat, ai titoli in deposito, ai pagamenti automatici dal conto. Come vi sentireste?
Di seguito la segnalazione e l'intervista alla BER.

Segnalazione


"Voglio segnalare che il Banco Emiliano Romagnolo è stato bloccato dalla Banca d'Italia e che tutti i conto correnti sono stati congelati per evitare che tutti ritirino i soldi. Stanno cercando di vendere la banca al gruppo Intesa, non si sa altro. E dicono che fino al 7 gennaio non si saprà nulla. Passeranno le vacanze di Natale serene, loro! E non per il freddo... Mi ritrovo come tante altre persone a non poter ricevere bonifici, stipendi, addebiti e neanche ritirare contanti allo sportello. Il tutto senza preavviso e tenendo tutto nascosto. Ancora sui giornali non si legge niente.Chiamate direttamente voi in banca per vedere che è tutto vero:
0514135595 - 0514135539
Saluti" A.C.

Trascrizione telefonata del blog alla BER:


BER
: E’ stato durante un provvedimento di Banca d’Italia del 7 di dicembre in cui stabilisce che un congelamento dell’entrata e uscita dell’operatività dei conti correnti,questa tutela dei conti correnti , salvaguardare le procedure di transizione che ci sono in questo momento significa che il conto congelato, non si possono fare né ricevere bonifici assegni, RID, bancomat.. il conto è bloccato completamente. Purtroppo anche noi dipendenti siamo nella stessa situazione, non si riesce a fare la spesa, se qualcuno ha altra possibilità la situazione è cristallizzata allo stato in cui si trovava. Guardi, noi stessi che siamo all’interno che potevamo tutelarci, per prelevare, noi stessi siamo stati avvisati da un minuto all’altro, soprattutto nel rapporto con i clienti. Il 6 sera è stato preso questo provvedimento, emanato dalla Gazzetta Ufficiale della Banca d’Italia e sui giornali a tiratura nazionale. Il 7 mattina all’apertura della filiale ci ha comunicato questo. Provvedimento drastico, che chiaramente suscita, ha suscitato e susciterà enormi problemisti che alla Banca d’Italia stessa suppongo, altresì possa farlo, prenderà un sacco di denunce. Comunque sia, ovviamente che sono in forte difficoltà sono soprattutto le aziende, un disastro terribile.
Blog: Aldilà dei depositi dei CC, invece l’operatività della banca è semplice intermediaria tipo Conto Titoli anche quello è bloccato?
BER: Si Tutto, completamente tutto.
Blog: I titoli di fatto sono intestati al correntista, non alla banca.
BER: Si,bloccati nel senso che non possono essere trasferiti da un conto all’altro, lì sono e lì rimangono fino a che non si sbloccano, poi ognuno potrà disporre come vuole.
Blog:In questo periodo di congelamento non posso operare sui miei titoli?
BER: No, ma neanche sul conto corrente
Blog: Neanche da nessun altro operatore?
BER: Assolutamente no, guardi, non entrano nemmeno i bonifici
Blog:Sul conto mi è più facile capire perché è un asset della banca
BER: Capisco la sua obiezione, però anche i titoli fanno parte di una sorta di liquidità totale, credo che la maggior parte delle persone si preoccupi della liquidità per fare la spesa per pagare un mutuo, una utenza, un affitto.
Blog: Si, nella peggior delle ipotesi, congelato il conto corrente, liquido una parte dei titoli e mi arrangio in un altro modo
BER: Si ho capito, certo, infatti questo è un problema per la Borsa, per tutto, perché c’è una sorta di compra vendita, di negoziazione quanto meno, e comunque si investe anche finché tiene.

di Beppe Grillo

19 dicembre 2010

Neurolandia




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Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.


La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.


Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).


Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.

In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.

Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo

16 dicembre 2010

I colonizzatori dell'immaginario collettivo




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La circolazione delle notizie, sui grandi media, è subordinata alla volontà dei "sistemi" che gestiscono i media stessi. Viviamo nella società del controllo e sembra che esista un governo sovranazionale ed invisibile che decida cosa è giusto farci sapere e cosa no. In questo scenario apocalittico, abbiamo incontrato Marco Cedolin, scrittore e studioso di economia, ambiente e comunicazione, per porgli qualche domanda. “Non credo esistano dubbi sull'esistenza di un governo sovranazionale che attraverso la colonizzazione dell'immaginario collettivo, plasma la conoscenza, la sensibilità, i gusti, le reazioni emotive e più in generale i pensieri delle persone – sottolinea Marco Cedolin - con lo scopo di creare una massa di perfetti consumatori globali perfettamente omogeneizzati, privi di senso critico e programmati per reagire a qualsiasi stimolo indotto nella maniera prevista”. Alla domanda se esistono degli operatori di guerra psicologica lo scrittore e studioso precisa: “non si tratta tanto di una guerra psicologica, dal momento che il concetto di guerra presuppone la presenza di almeno due soggetti belligeranti, mentre in questo caso il soggetto impegnato nell'operazione si manifesta uno solo. Parlerei piuttosto di un processo di orientamento e globalizzazione del pensiero, attraverso l'anestetizzazione delle coscienze e l'annientamento sistematico di qualsiasi prerogativa culturale che possa mettere a rischio la buona riuscita del progetto”. I colonizzatori dell'immaginario collettivo, dunque, agiscono nelle maniere più svariate. Plasmano le notizie a proprio piacimento all'interno dei media mainstream, talvolta le costruiscono, altre volte ne praticano l'eutanasia, sempre decidono la natura di tutto ciò che deve diventare “informazione”, affinché l'operazione sortisca l'effetto desiderato. Ma i colonizzatori non monopolizzano solo l'informazione, gestiscono anche l'istruzione scolastica, il mercato pubblicitario, quello editoriale e discografico, il cinema, lo sport, la medicina e qualsiasi altro campo condizioni la “costruzione” dell'individuo. Sembra proprio che non si limitino a plasmare l’attenzione su i più svariati argomenti ma addirittura decidono se una cosa è realmente accaduta oppure no. “Nella società globale dell'informazione “urlata” in tempo reale, - spiega Marco Cedolin - esistono e possiedono una dimensione concreta solamente quei fatti e quegli accadimenti di cui viene data notizia e il valore di tale esistenza è direttamente proporzionale allo spazio ad essi tributato nel rappresentarli da parte dei media” - e continua con un esempio concreto – “Se io e lei per protesta saliamo su una gru e srotoliamo uno striscione, la nostra azione diventerà “reale” solo se e allorquando essa verrà documentata dai media ed assumerà valore in proporzione all'importanza che i media intenderanno riservarle. Se nessun giornale e nessuna TV documenteranno l'accaduto, per il resto del mondo (tranne qualche raro passante che si trovava nei pressi) non ci sarà stata alcuna scalata alla gru e alcuna protesta”. Il potere di decidere cosa realmente esiste è enorme, dal momento che una realtà imperfetta e parcellare, costruita in funzione del perseguimento di precisi interessi, viene presentata all'opinione pubblica globale come l'unica vera realtà, facendo si che il pensiero, le reazioni, le emozioni della massa, siano esattamente quelle che s'intendeva suscitare. Quando guardiamo un qualsiasi telegiornale o, leggiamo un qualsiasi quotidiano, veniamo “attratti” sempre dalle stesse parole. Parole che, se non analizzate a fondo, possono sembrare ricche di significato. L’interlocutore viene dunque plagiato emotivamente. Le parole rappresentano il fulcro dell'informazione e la loro importanza va molto al di là di quanto possano immaginare coloro che distrattamente sfogliano un giornale o guardano un TG. L'informazione urlata e ipercinetica del nostro tempo ha scelto un linguaggio quanto mai consono ad attirare l'attenzione del lettore/ascoltatore e condizionarne il giudizio. Marco Cedolin ci illustra degli esempi lampanti: “Il primo escamotage è costituito dall'abitudine a parlare per slogan precostruiti, slogan il più delle volte vuoti di contenuti ma di sicuro effetto, che verranno ripetuti continuamente come un mantra, fino a quando l'opinione pubblica sarà indotta a farli propri sotto forma di verità incontrovertibili. La crescita del Pil diventerà così sinonimo di benessere, pur non avendone titolo. La spesa di miliardi di euro di denaro pubblico per la costruzione di ciclopiche infrastrutture sarà accettata come un veicolo per migliorare la condizione economica dei cittadini, che invece si ritroveranno costretti a finanziare di tasca propria operazioni in perdita. L'occupazione in armi di stati sovrani verrà presentata come un'operazione di pace, finalizzata a “civilizzare” gli altri, sempre meno civili di noi. L'elargizione a pioggia di denaro pubblico destinato a rimpinguare le casse del sistema bancario privato, sarà spacciata sotto forma di “aiuti” ai cittadini dell'uno o dell'altro stato in difficoltà. Le operazioni di taglio dello stato sociale, dei redditi e dei servizi, a detrimento del benessere della cittadinanza, verranno giustificate come indispensabili sacrifici volti a ridurre il debito pubblico e così via. Il secondo escamotage è rappresentato dall'attenta scelta delle parole da utilizzare nella diffusione delle notizie, a seconda che lo scopo finale sia quello di mettere in buona o cattiva luce un determinato personaggio politico, uno stato, un provvedimento legislativo, una manifestazione o qualsivoglia tipo di accadimento. Il governo di uno stato che s'intende screditare verrà perciò sempre definito “regime” anche quando come nel caso del Presidente iraniano Ahmadinejad si tratta di un governo legittimamente eletto, nel corso di elezioni assai più partecipate e pulite di quelle statunitensi e di gran parte dei paesi occidentali. Alla stessa stregua il leader di un paese amico verrà chiamato “Presidente” e la nazione sarà definita “democratica”, anche qualora, come nel caso d'Israele l'esercito di tale nazione continui giorno dopo giorno a macchiarsi di crimini orribili. Il leader di un paese scomodo sarà al contrario etichettato sempre come tiranno, despota, dittatore ecc. I manifestanti che vengono a contatto con la polizia saranno teppisti, violenti e facinorosi, se portano avanti temi che devono venire screditati, ma diventeranno semplicemente cittadini esasperati se la loro battaglia può rivelarsi in qualche modo funzionale ad un disegno superiore. Molte volte basta la scelta di una parola per cambiare completamente l'intera ottica attraverso la quale viene letto un accadimento”. C’è il serio rischio, quando si da un’informazione che è contraria a quella fornita dai media considerati tradizionali di passare per complottista. Spesso si rischia di essere emarginati dal circuito di mediatico di massa e automaticamente messi nella condizione di non nuocere. “Poco importa – spiega Marco Cedolin - se le nostre affermazioni in merito alla fallacia della verità ufficiale riguardo alla strage dell'11 settembre sono suffragate da una serie interminabile di elementi incontrovertibili, se il nostro giudizio negativo nei confronti dell'alta velocità ferroviaria si basa su dati ed evidenze di tipo economico e scientifico che nessuna analisi seria sarebbe in grado di smentire, se le nostre prese di posizione su temi economici, politici e ambientali sono documentate dettagliatamente e derivano da studi ed analisi con solidi fondamenti”. Sembra proprio che produrre vera informazione è severamente vietato in un circo mediatico dove l'imperativo è costituito dalla produzione di una verità fittizia che sia funzionale agli interessi superiori. Sembra anche molto difficile difenderci dal controllo globale. I grandi interessi preposti al controllo dell'informazione gestiscono il loro potere attraverso una leva tanto semplice quanto efficace, la leva economica. Qualsiasi strumento d'informazione di massa può esistere solo se supportato da consistenti investimenti economici, facendo si che i “finanziatori” siano gli unici soggetti in grado di decidere la natura e la qualità dell'informazione stessa. Nell’era di internet e del giornalismo partecipativo, esistono, però, fonti d'informazione alternative; esiste qualche piccola casa editrice indipendente, qualche rivista e quotidiano a tiratura limitata. “Per essere bene informati – conclude lo scrittore e studioso Marco Cedolin - occorre faticare, navigare su internet almeno un paio di ore al giorno, leggere molto e farlo sempre con grande spirito critico. Osservare le notizie da varie angolazioni, contribuendo alla formazione di un proprio punto di vista che non dovrà per forza collimare con quello espresso nei testi che si sono letti”. La possibilità d'informarsi correttamente esiste ma richiede tempo e fatica. Certamente è molto più facile sedersi in poltrona e accendere la TV. Sta solo a noi scegliere se ne valga o meno la pena.

di Marco Cedolin - Fabio Polese

15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo

13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale

08 dicembre 2010

Banca del cibo? No, cibo della banca

Ogni volta che un qualche "vip" è visto mangiare un po’ di tofu, subito scrosciano gli applausi. Senz’altro si può affermare che le vecchie rockstar in cerca di mantener la linea o gli ex presidenti USA che hanno capito che c’è un nesso tra dieta e prevenzione dell’infarto, costituiscano un buon esempio da imitare, almeno che c’è chi ci tiene e ci pensa se non altro per sé (“We care”).

Al di là di queste belle notizie però, la situazione alimentare moderna mondiale è alquanto seria. Le vendite oggi dei cibi "Bio" in Europa ammontano solo al 2% dei consumi UE (26 paesi). In pratica, 21 M di € contro ad esempio 24 M di € in merendine confezionate. La realtà è ben altra cosa, ed è che la grande industria alimentare è la causa numero uno dello squilibrio alimentare, in pratica della fame, nel mondo odierno. Vediamo ora come il capitalismo finanziario dei disastri tragga vantaggio solo per il denaro in se’ dalla produzione di alimenti scadenti, purché altamente industrializzati.

Chi non l’avesse ancora fatto, si legga il libro del 2007 di Naomi Klein “Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri”. In esso l’Autrice sostiene che fenomeni sociali straordinari come la guerra in Iraq e disastri naturali come i grandi terremoti, alluvioni ecc. siano sempre un’opportunità usata dalla grande industria attraverso i politici al potere da lei sostenuti per far passare nuove leggi straordinarie che mai sarebbero state accettate in situazioni normali. Questa forma di opportunismo sociale di solito è altamente apprezzata negli ambienti finanziari in quanto produttiva di lauti guadagni. Per l’industria alimentare il disastro da tramutare in grandi profitti è la penuria alimentare che affligge il Pianeta. La scarsità di cibo è stata sventolata sotto i nostri occhi da almeno 40 anni (senza tener conto delle antiche predizioni, del tutto errate, da parte di Malthus e altri corvi di sciagura) ma è ora assai più vicina a realizzarsi ovunque, facendosi sentire tanto nei paesi “in via di sviluppo” quanto in quelli sviluppati, cioè da noi.

Una delle strategie del capitalismo dei disastri è quella di attendere che i problemi si manifestino in tutta la loro gravità prima di passare all’azione. Infatti, non ci sarebbe sufficiente reazione emotiva per far passare misure in loro favore senza l’urgenza del disastro, e quindi mancherebbero i guadagni colossali. Pertanto si va dal “preoccupante” al “problematico” prima di arrivare a “disastro” nel loro linguaggio echeggiato da stampa e televisioni. L’Escalation di termini conduce a una serie di misure d’emergenza spacciate per soluzioni – non c’è tempo, bisogna agire in fretta! Proprio quando c’è bisogno di studiare in dettaglio e di tanta moderazione, si agisce in fretta e furia.

Primo esempio: L’impoverimento dei contadini. I piccoli agricoltori a regime famigliare o simile in tutto il Pianeta non possono tenere prezzi che reggano la concorrenza con quelli dell’agricoltura aziendale industrializzata, di grande scala e altamente meccanizzata. Per salvarsi hanno due possibilità: una è quella di produrre alimenti da export, esotici in nazioni più ricche, allo scopo di accrescere i guadagni. In Italia ciò vale soprattutto per il vino. La seconda possibilità è quella di coltivar cereali per bio-fuel ovvero, trasformarli in carburante per motori a scoppio. Le sole vendite di terreni agricoli in Africa dell’ultimo anno ammontano per un terzo a terreni destinati a questo tipo di raccolti.
La Jatropha è una nuova pianta che viene promossa in Africa e Sud America come un aiuto per i piccoli coltivatori, produce olio facilmente convertibile in bio-fuel. La grande resa si trasforma però subito in consumi massicci di acqua e di pesticidi mentre i consorzi agrari vendono a vagonate semi di questa nuova “rivoluzione Verde” in paesi dove la fame è endemica, per cui diventa necessario importare cereali e alimentari dall’estero, sovente sotto forma di aiuti altre volte acquistati con maggiore debito. Indovinate chi paga, e indovinate chi ci guadagna.

Secondo esempio: l’aumento della popolazione. Avrete sentito dire che si proietta la crescita della popolazione mondiale oltre i 9 miliardi, secondo alcune stime, peraltro controverse e non certe, per la metà del presente secolo. Nove miliardi che ogni giorno si dovranno sedere da qualche parte a mangiare qualcosa. Anche questo problema è sempre stato rinviato al futuro fino a che non si presenta l’ennesima “crisi da aumento di popolazione”.
La soluzione rapida e definitiva è alla portata: basta mettersi a produrre massicciamente cibi geneticamente modificati che resistono ai parassiti, usano solo certi pesticidi e dovrebbero aumentare la resa: chi si oppone agli OGM farà così la figura dell’ecologista sentimentale, egoista e senza cuore che per le sue fisime - “non scientificamente provate” direbbe Veronesi – causa la fame dei poveretti…Intanto Monsanto ci fa un figurone. Peccato che la realtà sia completamente un’altra.

Terzo: I crescenti prezzi agricoli alimentari. La risposta qui è scambiare quantità con qualità. Si forniscono alimenti scadenti ma di massa ai più poveri, sempre provenienti da cibi molto trattati e industrializzati. Troverete sempre abbondanza di fast-food nei quartieri bassi, macchinette distributrici nelle fabbriche, merendine/immondizia nelle scuole. Il fatto è che i pochi che lavorano duro devono mangiare con poco e velocemente, mentre chi non lavora ha bisogno di ridurre al massimo la spesa alimentare. Aggiungi la mancanza di cultura, gli slogan fasulli piantati ad arte dalla pubblicità ingannevole e dagli “esperti” televisivi prezzolati, ed ecco che la povertà nutritiva ha tutti i sostegni che necessita; i signori del fast-food sono maestri di cibi saporiti ed economici.
I governi dal canto loro continueranno sempre a finanziare con aiuti di Stato carni, latte e pollame per rassicurare il grande pubblico con la presenza di alimenti familiari sulla tavola, anche se l’evidenza scientifica e dei fatti ha provato da tempo che questi consumi in eccesso siano malsani e apportatori di patologie degenerative. Lo continuano a fare perché l’industria alimentare li appoggia e finanzia completamente attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali dei politici, e questo vale per tutti gli schieramenti e partiti indistintamente. Si sta già configurando infine una pseudo-Linea Verde nei fast-food per giovani ed ecologisti dilettanti, a base di banco delle insalate, burger alla soia OGM e ben presto avremo pannelli solari ed eliche eoliche vicino alla grande M a forma di tette appetitose simbolo di McDonald’s.

Quarto: Le riserve di pesce in esaurimento. Enormi navi-officina solcano i mari espellendone i piccoli pescherecci, esaurendo le scorte e massacrando le riserve di piccoli pesci in crescita col metodo della pesca di massa industrializzata. Su di esse il pescato è lavorato in catene di produzione fino al prodotto pronto surgelato magari anche precotto. Questa politica estrattiva produce immani squilibri ambientali e sprechi, con conseguente impoverimento del patrimonio ittico. Una seria politica di autocontrollo della pesca con metodi e calendari precisi permetterebbe di conservare il patrimonio di pesci in riproduzione, ma onde tenere altissimi i ricavi bisogna invece allarmare il pubblico con le false notizie per cui l’industria ha già pronta la nostra salvezza: il pesce OGM! Pronto su ogni tavola, le ultime pastoie e scrupoli dei tradizionalisti (oh come son lenti, questi antimodernisti e antiprogressisti, non vedete che il mondo ha fame e noi grandi forze del Progresso lo sfameremo?) cadono in fretta, tra poco FDA (Ministero dell’Agricoltura USA) approverà senza riserve. Avrete salmoni a crescita rapida, dimezzata come tempi e di maggiori dimensioni; magari poi lo scienziato del progresso inarrestabile penserà ad un nuovo modello di salmone con le zampe in modo da uscirsene dall’acqua da solo, così avremo pescatori in esubero a cui penserà la cassa integrazione mentre i salmoncini tutti in fila se ne entreranno nelle fabbriche automatizzate, sulle loro zampine. E’ un sogno, per ora, ma presto... Un maiale più umanizzato anche per farne organi simil-umani da trapiantare (mi raccomando anche la faccia, signori politici!) ed una capra da latte chimicamente simile a quello umano sono già in fase sperimentale avanzata. Aspettiamoci di vedere dei bimbi brucare l’erba nelle aiuole del giardino di casa, e bimbi molto, molto ubbidienti che si muovono tutti insieme, come un gregge…
E’ importante che tutti coloro i quali nutrano una qualche preoccupazione per il futuro del pianeta, per la qualità di vita e di alimentazione umana non permettano a questi argomenti di scivolare nel dimenticatoio o nelle chiacchiere da bar o peggio nelle polemiche televisive. Si dovranno scoprire nuove maniere di comunicazione in modo anche di trasmettere al pubblico una nuova educazione alimentare non più fondata sul “mangiare di tutto un po’” perché in realtà l’industria decide quel “tutto” e lo incanala verso le sue precise scelte di profitto, facendoti poi credere che “si è sempre mangiato così”. Questa è la grande opportunità che ci sta dando la Grande Crisi in atto ora e per molto tempo ancora. Se no, a che servono le crisi, se non a riflettere?


di Roberto Marrocchesi

07 dicembre 2010

Perdasdefogu, Italia. No: Israele



Ve l’immaginate un centravanti della nazionale condannato a 74 frustate perché consumatore di oppio o cocaina? E ve l’immaginate una sua amante impiccata per aver assassinato la moglie dello stesso calciatore ed aver reso orfani i suoi figli?
I nostri saggi notisti ne parlano con ampi titoli: “Medioevo”. “Barbarie”.
Ve l’immaginate un’iniezione letale a una donna condannata a morte due mesi fa da un tribunale degli Stati Uniti perché ha ucciso la moglie del suo amante?
I nostri saggi notisti ne parlano con un piedino a fondo pagina, con una cronaca stretta stretta dell’evento.
Questa la sintesi dei due pesi e delle due misure che i nostri gazzettieri utilizzano per descrivere lo stesso reato in due diversi angoli del mondo: in Iran e negli Usa.
Nulla di nuovo.
Evidentemente l’iniezione letale - o magari la camera a gas - è, per costoro, molto più “umana” dell’impiccagione. E, poi, quelle frustate... Chi mai accetterebbe che a una superstar, a Balotelli o a Pazzini, possa essere inflitta una pena tanto bieca?
Per non parlare della lapidazione - non inferta, ma tuttavia dichiarata a parole - per una donna non soltanto adultera, ma assassina, la famosa Sakineh, tanto cara a Frattini e ai buonisti del BelPaese.
Scandalo, scandalo, scandalo.
Nessuno scandalo, però, nello stesso Italico suolo, per una notiziuola di tutt’altro spessore, finita tra le note brevi a margine oppure semplicemente censurata dai grandi mezzi “indipendenti” di informazione.
Eppure quella notiziuola piccola piccola non è poi mica da prendere sottogamba...
Ve la raccontiamo noi.
Sapete, Israele non è molto benvisto dall’altra parte del Mediterraneo. E’ un fatto assodato. Anche tanti italiani di un certo peso - per carità: non si tratta né di nazimao né di rossobruni... Loro non valgono - da Enrico Mattei ad Aldo Moro a Bettino Craxi preferivano, al loro tempo, l’amicizia con i Paesi arabi o musulmani... ma mal gliene incolse.
Invece da questa parte del mare, nel nord-ovest, è ormai un tripudio di shalomelecchi per Tel Aviv. In particolare gli ultimi inquilini della Farnesina e di via XX settembre non hanno mai mancato di esternare tutta la loro solidarietà ad un’entità statale costruita sulla terra di un altro popolo, il palestinese.
Ma così va il mondo.
Quello che non va è appunto il senso, sottinteso dalla rapida notiziuola apparsa-scomparsa nelle pagine della stampa italiota. Eccola:
“L’aviazione militare israeliana - non più gradita in Turchia - è ora ospitata per le sue esercitazioni nella base Nato a Perdasdefogu, in Sardegna”.
Vi pare un’informazione piccola-piccola?
Trascurabile?
Nient’affatto.
I governanti della colonia-Italia scherzano col fuoco. Pensano che il diktat di Jalta che ha imposto sulla Palestina la fondazione dell’entità stale sionista abbia un valore perenne.
Dimenticano che l’Italia è già stata teatro di una guerra sotterranea fatta di assassinii (come quello a Roma di Wail Zwaiter) e di stragi (Piazza Fontana, stazione di Bologna), tutti riconducibili alla guerra israelo-palestinese.
Ma se ne fregano. Che importa rischiare atti di terrore, nuove Ustica, con vittime italiane...
Genuflettersi al Grande Padre (quasi) Bianco di Washington e al suo alter ego di Tel Aviv è un dovere imprenscindibile.
Diritti, l’Italia, non ne ha.

di Ugo Gaudenzi

06 dicembre 2010

Gli economisti ovvero i diabolici sacerdoti dei bankester


“Gli economisti politici”, secondo Stephen Zarlenga nel libro The Lost Science of Money, “sono diventati il sacerdozio della nuova aristocrazia Bancaria, spesso prestandosi come apparato propagandistico per coprire la struttura del potere monetario. Essi hanno portato avanti idee sbagliate e cortine fumogene sulla natura del denaro, concetti primitivi per facilitare il radicamento dei banchieri”.

Zarlenga dà la colpa della distruzione dell’economia mondiale all’”establishment finanziario e ai loro economisti” e definisce questi ultimi come i portavoce del ‘Potere del Denaro’. La ragione per la quale il corrotto sistema bancario moderno è durato così a lungo nonostante le sue pessime prestazioni è perché gli economisti professionisti non hanno quasi mai puntato il dito contro i banchieri né hanno mai messo in discussione la creazione disonesta del denaro privato basato sul debito o la truffa scandalosa del prestito a riserva frazionaria.

Gli economisti vengono formati in facoltà universitarie finanziate dalle banche dove vengono completamente indottrinati alle teorie monetarie. Il Potere del Denaro garantisce che gli economisti siano addestrati metodicamente nel linguaggio e nel pensiero economico e siano programmati a recitare la versione ufficiale e accettata da tutti. Il giochetto prende il nome di manipolazione e gli argomenti controversi sono ignorati o distorti. Non viene mai permessa una corretta valutazione della storia e della funzione del sistema bancario perché verrebbero a galla alcune sconvolgenti verità. Zarlenga paragona gli economisti politici ai medici medievali che “teorizzavano sul funzionamento del corpo ma che non avevano mai il coraggio di sezionarlo e scoprire quello che realmente stava avvenendo”.

Proprio come i muli rappresentano la sterile prole di asini e cavalli, gli economisti rappresentano la sterile progenie dei bankster e dei corporativisti. Essi sono impotenti quando si tratta di generare nuovi pensieri o nuove idee al di fuori dell’attuale sistema monetario. Gli economisti sembrano essere letteralmente incapaci di apportare una significativa innovazione monetaria e non riescono davvero a concepire altre alternative sistemiche oltre a quelle che sono state inculcate loro alle scuole dei bankster. Anche se si considerano una specie diversa rispetto ai bankster, essi sono in realtà la stessa cosa. Se nostro padre fosse una scimmia sarebbe impossibile nascondere la nostra discendenza: entrambi avremmo grosse orecchie ed emetteremmo gli stessi suoni rauchi. Gli economisti potrebbero contestare, fare la voce grossa e spesso apparire critici nei confronti dei bankster ma con tutte le loro grida da scimmia non sono in grado di lanciare un unico forte ringhio da animale predatore. Quando gli economisti si presentano in TV o alla radio o scrivono sulla carta stampata, questi ‘esperti’ discutono animatamente e si contraddicono a vicenda snocciolando soluzioni contrastanti per risolvere le nostre disgrazie monetarie. Tuttavia, i loro sermoni raramente si avventurano oltre i confini del sistema monetario esistente, con grande gioia dei bankster, perché gli economisti non mostrano alcuna propensione nel mettere in dubbio i fondamentali di una pratica disonesta vecchia di secoli come la creazione privata del denaro, basato sul debito e gravato da interesse. Le loro discussioni possono essere accese e animate ma, in sostanza, sono del tutto inutili. Gli economisti assomigliano molto alle fazioni Lato Stretto e Lato Grosso dei Viaggi di Gulliver che discutevano ferocemente sul modo più corretto di rompere un uovo – dalla parte della punta larga o dalla punta stretta. Questa contesa era così violenta e sanguinosa che portò a sei sommosse con un gran numero di vittime, tra cui l’Imperatore di Lilliput. E’ così anche per le sterili polemiche degli economisti.

Gli economisti sono anche stati oggetto di critiche provenienti nientemeno che dal pungente ingegno dello scrittore George Bernard Shaw che diceva: “Se tutti gli economisti fossero stesi uno accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. Il consulente di investimenti Peter Lynch distorce questa citazione in maniera un po’ più brutale: “Se tutti gli economisti del mondo fossero stesi uno accanto all’altro, non sarebbe una brutta cosa”.

Mentre Zarlenga è duro con quegli economisti che ballano la musica dei bankster e promuovono la confusione e la divisione tra l’opinione pubblica in generale, egli elogia quegli economisti di libero pensiero che hanno il coraggio di parlare apertamente dei fallimenti e degli inganni criminali dell’industria bancaria. Purtroppo, in un mondo dominato dai bankster, gli economisti illuminati sono trattati in modo molto diverso rispetto alla nidiata dei bankster. Su questi ultimi, Zarlenga dice: “Alcuni dei più ignoranti e addirittura dei più pazzi di loro [come Bonamy Price] hanno ricevuto incarichi importanti mentre le menti migliori sono stati messe da parte o ignorate dal potere del denaro”.

Mi sono imbattuto in un tipico esempio di ignoranza economica in un recente articolo pubblicato sull’Irish Independent del professor Stéphane Garelli dell’Università di Losanna (http://www.independent.ie/business/world/emerging-economies-hold-worlds-purse-strings-2349528.html). Il professor Garelli è un economista ed è attualmente direttore del World Competitiveness Center presso l’IMD Business School di Losanna che pubblica l’annuale World Competitiveness Yearbook. Garelli vanta un elenco impressionante di titoli (http://www.garelli.ch/english/cv_complet.htm) ma non si può fare a meno di chiedersi se il bravo professore possa essere stato formato appena un filo sopra il suo livello di intelligenza.

Il professor Garelli (citando Raymond Barre, un altro economista) afferma: “Una delle poche cose che sappiamo sull’economia è che ha dei cicli – il problema è che non sappiamo quando questi cicli iniziano, quanto durano e per quale motivo terminano”. Garelli prosegue: “Il marchio infamante dell’economia moderna è che ancora non conosciamo il modo di evitare le recessioni e la disoccupazione”.

Allora, professore, ho alcune notizie per lei. Le recessioni sono causate dai banchieri centrali che, di proposito, riducono la moneta in circolazione ritirando i prestiti esistenti e rifiutandosi di erogarne altri. Se non mi crede, legga Milton Friedman, che ha ricevuto il Premio Nobel per l’Economia. Il dottor Friedman sostiene pubblicamente che la Federal Reserve ha provocato deliberatamente la Grande Depressione degli anni Trenta: “La Fed è stata ampiamente responsabile della trasformazione di quella che poteva essere una comune recessione, anche se forse abbastanza grave, in una catastrofe immane. Anziché utilizzare i propri poteri per compensare la depressione, ha guidato una riduzione della quantità di moneta di un terzo dal 1929 al 1933... Milton Friedman, Two Lucky People, p. 233.

Quando gli fu domandato quale fosse una delle cause delle gravi depressioni economiche, il dottor Friedman rispose: “Non conosco nessuna grave depressione, in nessun paese e in nessuna epoca, che non sia stata accompagnata da una drastica diminuzione della quantità di moneta e, allo stesso modo, di nessuna drastica riduzione della quantità di moneta che non sia stata accompagnata da una grave depressione”.

E’ incredibile che il professor Garelli debba ammettere di non conoscere la causa delle recessioni. Ed è allo stesso modo incredibile che debba anche ammettere di non sapere quando i cicli economici inizino, quanto durino o il motivo per il quale terminino. Essi sono pianificati, caro professore, pianificati e controllati dai banchieri centrali. Ci sono prove in abbondanza che confermano tutto questo. I pezzi grossi del sistema bancario internazionale decidono dove ci saranno le bolle e quando esploderanno. E’ questo il modo con cui diventano straricchi: mettono a disposizione una grande quantità di denaro (o meglio, di credito) ad un prezzo conveniente e quando la gente è eccessivamente indebitata rifiutano altri prestiti, e pignorano gli insolventi.

Dato che il 97% del denaro nel mondo viene creato dal debito, qualunque prestito restituito fa diminuire la quantità di denaro in circolazione. E quando non vengono concessi altri prestiti, la quantità di denaro circolante scende drammaticamente, con effetti negativi sulle imprese e sull’economia in generale. Questa riduzione intenzionale dell’offerta monetaria porta ad estesi fallimenti di aziende, un elevato tasso di disoccupazione, pignoramenti e forti sacrifici all’interno della comunità. D’altra parte, una grande ricchezza viene trasferita dai mutuatari insolventi al bankster. E’ un palese atto criminale e una truffa sistematica.

I bankster sono stati a volte sorpresi nel vantare le proprie capacità di provocare recessioni e depressioni e di come possano impossessarsi delle proprietà dei mutuatari per pochi spiccioli. Queste pratiche malavitose vanno avanti da generazioni. L’emissione privata del denaro nazionale ha dato un incredibile potere ai banchieri centrali, un potere così grande che addirittura i governi democraticamente eletti ne sono sottomessi. I governi non controllano l’economia: sono gli onnipotenti bankster a creare il denaro, a stabilire i tassi di interesse e decidere chi può avere un prestito e chi no.

Thomas Jefferson, pienamente consapevole del potere dittatoriale delle banche centrali private, fu determinante nel fare respingere al Congresso il rinnovo dello statuto della First Bank of the United States nel 1811. Nathan Rothschild, che operava da Londra, minacciò di colpire la giovane repubblica con una guerra e un disastro finanziario se lo statuto della banca non fosse stato rinnovato. Lo statuto non fu rinnovato e, infatti, gli Stati Uniti si ritrovarono ben presto coinvolti nella Guerra del 1812, con tutto il suo strascico di morti e difficoltà finanziarie. E’ questa la preoccupante supremazia degli insaziabili bankster internazionali.

Per ristabilire la normalità finanziaria, nel 1816 il Presidente Madison garantì uno statuto di 20 anni ad una nuova banca centrale, la Second Bank of the United States di proprietà privata. Ma poi, nel 1828, arrivò un altro presidente che condivideva la grande sfiducia e il disprezzo di Jefferson per le banche centrali e i bankster, Andrew Jackson, un ex generale dell’esercito soprannominato affettuosamente la ‘Vecchia Quercia’, un eroe nazionale della Guerra del 1812.

Jackson si rifiutò di rinnovare lo statuto della Second Bank of the United States, ponendo addirittura il veto al Congresso che ne aveva approvato il rinnovo in precedenza. Nicholas Biddle, presidente della banca, minacciò Jackson che avrebbe imposto una recessione al paese se il presidente non avesse tolto il veto. Jackson si rifiutò ancora. Biddle, mantenendo la parola, ritirò i prestiti bancari e negò l’erogazione di nuovi prestiti. L’offerta monetaria negli Stati Uniti si ridusse drasticamente.

Ben presto, la recessione architettata da Biddle avvolse l’intero paese. Le imprese fallirono e la disoccupazione aumentò. Ma la ‘Vecchia Quercia’ non aveva intenzione di cambiare idea, anche dopo che un presunto sicario, un inglese di nome Richard Lawrence, tentò di ucciderlo nel gennaio 1835. Entrambe le pistole dell’assassino fecero cilecca e la leggenda narra che la ‘Vecchia Quercia’ continuò a fustigare l’uomo con la sua verga finché non fu trattenuto dai suoi stessi aiutanti. Jackson incolpò i Rothschild per l’attentato. Ad ogni modo, il deciso Jackson ebbe la meglio sulla banca e il suo statuto non fu rinnovato. Ci vollero all’incirca 77 anni prima che i bankster potessero finanziare un’altra banca centrale controllata privatamente con la costituzione della Federal Reserve nel 1913.

E’ difficile ottenere prove documentate dell’ambiguità dei bankster nel causare recessioni per arricchirsi a spese della gente. Ma abbiamo una comunicazione di servizio privata dell’Associazione dei Banchieri Americani del 1891, il cui contenuto è per la verità registrato in un atto del Congresso datato 29 aprile 1913. Si tenga presente che questa comunicazione di servizio fu scritta nel 1891, prova inconfutabile che il Panico del 1893 fu pianificato dai bankster con un paio di anni di anticipo: “Siamo ad autorizzare i nostri addetti ai prestiti degli Stati Occidentali ad erogare prestiti sulle proprietà e per somme di denaro ripagabili entro il 1° settembre 1894. Nessuna scadenza importante deve superare questa data.” “Il 1° settembre 1894 rifiuteremo categoricamente tutti i rinnovi di prestito. In quel giorno, richiederemo la restituzione di tutto il nostro denaro, pena il pignoramento dei collaterali.
“Le proprietà ipotecate diventeranno nostre (il denaro sarebbe diventato scarso in anticipo e le restituzioni sarebbero diventato generalmente impossibili). Pertanto saremo in grado di acquisire, ad un prezzo a noi confacente, i due terzi delle fattorie ad ovest del Mississippi ed altre migliaia di fattorie ad est di questo grande fiume.” “Saremo addirittura in grado di possedere i tre quarti delle fattorie occidentali oltre a tutto il denaro del paese. Gli agricoltori diventeranno dei meri affittuari, proprio come Inghilterra”.
(Fonte – http://www.michaeljournal.org/bankphilo.htm )



Quindi vede, mio caro professor Garelli, le recessioni sono causate deliberatamente da avidi bankster per proprio profitto. A questi imbroglioni non importa nulla degli stenti e delle sofferenze che la loro avidità infligge alle persone. Essi sono cospiratori e ladri e con i loro comportamenti disonesti rivelano la filosofia criminale su cui è fondato l’intero sistema bancario. Questa spregevole filosofia prospera ancora a Wall Street e in tutto il mondo ed è in questo che consiste l’origine di tutti i nostri problemi economici globali.

La gente si aspetta che gli economisti tengano a freno i bankster e li mantengano sulla linea dell’onestà – beh, almeno più onesti di quello che vogliono essere. Si aspetta anche che gli economisti diano suggerimenti ai governi su pratiche economiche oneste, efficaci e socialmente gratificanti. Ma lei, professor Garelli, e la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, avete deluso la gente. Che sia per codardia, ignoranza o disonestà, avete preso le parti dei bankster e avete permesso a questi malavitosi di mettere in schiavitù la gente con un debito eterno assolutamente inutile. La vostra mancanza nel mettere in dubbio la spudorata disonestà del sistema bancario moderno e la vostra riluttanza ad offrire alternative etiche ha impedito la nascita di un giusto ed equo sistema di creazione del denaro, un sistema incorruttibile che avrebbe portato a tutti libertà, opportunità e benessere.

Per fortuna, non tutti gli economisti mangiano alla tavola dei bankster. Ci sono molti riformatori economici che sono degni di elogio e attenzione. Mentre davo una rapida occhiata agli appunti per questo articolo, mi sono imbattuto nel nome di Larry Bates, un ex docente di economia, presidente di banca per undici anni, membro della Camera dei Rappresentanti del Tennessee, presidente della Commissione sul Sistema Bancario e il Commercio ed autore di un bestseller, The New Economic Disorder.

Bates dice: “Il più grande shock di questo decennio è che è sempre più persone perderanno ancora più denaro rispetto a qualunque altra epoca della nostra storia. Ma il secondo shock più grande sarà l’incredibile quantità di denaro che, nello stesso periodo, un gruppo relativamente piccolo di persone guadagnerà. Vedete, nei periodi di sconvolgimento economico, nei periodi di crisi economica, la ricchezza non viene distrutta, viene semplicemente trasferita.”

Bates prosegue:

“La Federal Reserve in realtà è più potente del Governo Federale. Più potente del Presidente, del Congresso e delle Corti di giustizia. La Federal Reserve stabilisce l’ammontare della rata dell’auto del cittadino medio, l’ammontare del mutuo della sua casa e se questi avrà o meno un lavoro. E vi dico... questo è il controllo totale...”

Larry Bates ha centrato la questione. “Controllo totale”. I bankster vogliono mantenere il controllo totale. Vogliono che la gente continui a vivere nell’ignoranza. Non vogliono che sappiano che esiste un’alternativa più brillante e che porta più benefici. Vogliono che tutta l’umanità sia loro sottomessa in un’eterna schiavitù del debito. E, soprattutto, sono terrorizzati dal fatto che la gente in qualche modo si possa rendere conto della loro scandalosa connivenza e criminosità.

Oggi quello di cui abbiamo bisogno sono più economisti che utilizzino la loro conoscenza e la loro formazione per mostrare alle gente come si possa togliere ai bankster questo disonorevole potere e come si possano formulare nuovi metodi di creazione del denaro che possano liberare le persone dall’inesorabile giogo del debito e dare loro un nuovo diritto di libertà, felicità e abbondanza.
di Gabriel Donohoe

Gabriel Donohoe vive in Irlanda ed è uno scrittore, un istruttore di salute naturale e consigliere sciamanico. A volte utilizza lo pseudonimo di Fools Crow

Fonte: http://foolscrow.wordpress.com

04 dicembre 2010

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia di Gabriele Battaglia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"

Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

di Gabriele Battaglia

03 dicembre 2010

La democrazia come bene comune





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Nell’Occidente capitalistico non esiste alcuna democrazia. Preve propone di superare la dicotomia marxista tra struttura e sovrastruttura, avanzando la tesi olistica che la società dev’essere pensata come un intero. Democrazia politica e libertà individuali non sono sovrastrutture ma attengono alla fondazione stessa di un sistema sociale che pretenda di basarsi sulo bene comune.

1. La democrazia oggi. Non c’è nessuna democrazia. Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno

In una vignetta di Altan il suo solito personaggio surreale con il baschetto afferma solennemente: “Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno”. Partirò da questo motto memorabile per analizzare il problema della democrazia in quattro punti.
1) Oggi non c’è nessuna democrazia. Democrazia significa, in senso statico, potere del popolo, ed in senso dinamico, accesso del popolo al potere. I due significati non sono sovrapponibili. Chi si accontenta del significato statico, dirà che viviamo in democrazia (sia pure ovviamente limitata, imperfetta, minacciata, ed altri aggettivi compromissori che hanno come compito quello di impedire un’analisi radicale della questione), perché il popolo è coincidente con il corpo elettorale, il corpo elettorale può votare a scadenze regolari, se qualcuno si astiene la colpa è solo sua perché rinuncia unilateralmente ad un diritto che gli è garantito, ci sono inoltre anche garanzie per il dissenso radicale (si possono presentare, se vogliono, anche Luca Casarini e Alessandra Mussolini), ed insomma viviamo nel migliore dei mondi possibili. Vi-va Bob-io, vi-va Sarto-ri, vi-va il grande U-li-vo!
Chi passa invece al significato dinamico, si renderà conto che l’accesso del demos al suffragio universale ed alle garanzie liberali per il dissenso (più esattamente, per il raggio del dissenso ferramente perimetrato dalla dittatura del partito unico del politicamente corretto), non ha assolutamente significato l’accesso del demos alla sovranità politica. Sovranità politica significa sovranità decisionale sui temi fondamentali della propria esistenza sociale, e non solo sulla scelta simbolica se consentire veri e propri matrimoni omosessuali oppure solamente dei cosiddetti PACS. Questa sovranità decisionale non esiste. Per questa ragione l’affermazione per cui non c’è nessuna democrazia non è affatto una sparata estremistica di gruppettari alienati, ma una sobria e scientifica conclusione che possiamo tirare dalla congiuntura storica presente.
2) Il trucco c’è. Abbiamo detto che il termine democrazia è inscindibile dalla decisione politica sovrana. In questo modo (ed è ovviamente una scelta) respingo la tesi per cui la democrazia è semplicemente un metodo “neutrale” rispetto ai valori etico-politici per prendere decisioni a maggioranza. Se accettiamo questa definizione, diventa “democratica” la decisione di consentire a maggioranza alla propria messa in schiavitù, alla rinuncia della propria sovranità nazionale, via via fino al taglio delle teste, al rogo delle vedove ed al genocidio degli stranieri. A mio avviso, tutti i tentativi di definire la democrazia in termini di metodo neutro che prescinde dai contenuti vanno incontro a contraddizioni insanabili. La democrazia deve essere per forza “protetta” da una cintura di sicurezza etico-politica che storicamente ha sempre assunto due forme variamente interconnesse: una cintura di sicurezza religiosa e una cintura di sicurezza filosofica (ispirata in generale ad una interpretazione “veritativa”, e quindi non relativistica, del diritto naturale). Il cosiddetto “diritto costituzionale”, visto da un punto di vista filosofico, è per l’appunto questa cintura di sicurezza consapevolmente sottratta al puro gioco delle contingenti maggioranze e minoranze. Chi identifica la democrazia con il cosiddetto relativismo filosofico dei valori (Hans Kelsen, Richard Rorty, eccetera) non sa letteralmente che cosa dice, perché quanto dice è storicamente controfattuale.
La democrazia implica dunque effettività reale della decisione politica democratica sovrana. Se non c’è sovranità, dunque, non c’è democrazia, ma solo un gioco di simulazione e di legittimazione, e nient’altro.
Oggi la sovranità della decisione democratica non c’è. E non c’è per due ragioni. Elenchiamole separatamente, anche se in realtà fanno tutt’uno.
La prima ragione è il dominio dei mercati e del capitale finanziario transnazionale (o multinazionale) Qualunque decisione prendano i popoli o i partiti che si presentano alle elezioni (non importa se di centro, sinistra e destra, la cui differenza c’è, ma solo nei due parametri minori della simbologia sportiva e della torchiatura differenziata fra ceti sociali interni) viene svuotata automaticamente da entità metafisiche (direbbe Marx, “sensibilmente soprasensibili”) come i mercati finanziari, le agenzie di rating, eccetera. Questo dà luogo ad una situazione di vera e propria “post-democrazia” (cfr. C. Crouch, Post-democrazia, Laterza, Bari-Roma 2004).
In seconda ragione è il dominio imperiale americano, la cui rete di basi militari sparse per il mondo comporta un ricatto atomico permanente, che svuota di fatto ogni sovranità nazionale. Senza sovranità militare non c’è infatti sovranità nazionale. Il pacifismo generico e salmodiante ha come ragion d’essere storica proprio il non far capire questa elementare verità (cfr. C.Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2004).
3) Il trucco c’è e si vede. La cosa curiosa di questo doppio trucco (svuotamento economico-finanziario, svuotamento imperiale-militare) è che questo trucco è sotto gli occhi di tutti. E’ sotto gli occhi di tutti che la gente è invitata a tifare a intervalli regolari per Schröeder contro la Merkel, Prodi contro Berlusconi, eccetera, ma che poi a urne chiuse le regole vengono dettate dai mercati finanziari, il cui comandamento unificato è: proseguire nella finanziarizzazione del capitale, smantellare lo stato sociale, incrementare la flessibilità e la precarietà del lavoro, eccetera. Nello stesso tempo, si viene talvolta vagamente a sapere che le truppe americane stoccano armi chimiche a Sigonella o ad Aviano (a sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale!), ma questo non fa neppure parte oggi del dibattito politico che il circo mediatico manipolato devia verso il tema epocale se Previti abbia o no rubato (la mia risposta: è chiaro come il cristallo che ha rubato, ma non potrebbe importarmi di meno). Bisogna allora passare al quarto punto.
4) Non gliene frega niente a nessuno. E’ questo il solo punto teorico veramente problematico ed interessante. Che non ci sia democrazia intesa come esercizio di una decisione politica sovrana, che il trucco ci sia, e che si veda come alla luce del giorno, è infatti talmente evidente da non essere neppure molto interessante. Il solo vero problema teorico è quello di sapere perché non gliene frega niente a (quasi) nessuno.

2. Il problema delle radici storiche e sociologiche dello svuotamento consensuale passivo della democrazia

Spero che a questo punto sia chiaro al lettore quale sia il centro della questione. Il centro della questione non sta nello “smascheramento”, nello spiegare cioè perché la democrazia è stata svuotata da due elementi ad essa esterni, la dittatura del mercato (sostenuta dalla complementare dittatura del clero mediatico, l’unico vero e proprio clero rimasto) e la dittatura imperiale americana. Ci sono a disposizione nelle biblioteche centinaia di ottimi libri “smascheratori”, per cui resta davvero poco da aggiungere. Il solo problema teorico interessante sta allora nello spiegare le radici materiali dell’indifferenza generalizzata verso questo duplice svuotamento. Se non si chiariscono spregiudicatamente queste radici materiali è del tutto impossibile ripartire veramente. In questo paragrafo cercherò di elencare due probabili ragioni di questa indifferenza generalizzata di massa, che utilizzando il linguaggio di Altan definirò come “non gliene frega niente a nessuno”.
In primo luogo, ha probabilmente ragione Gianfranco La Grassa, che nei suoi due ultimi ottimi libri ha chiarito come la forma storica normale in cui avvengono le lotte decisive fra le classi non è mai lo scontro diretto fra le classi fondamentali dei dominanti e dei dominati (padroni di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia e proletariato, capitalisti e operai, eccetera), ma è quasi sempre lo scontro fra settori delle classi dominanti con interessi strategici divergenti. Solo quando quest’ultimo tipo di scontro si apre, si apre anche un “varco provvisorio”, una brevissima “finestra di opportunità storica” anche per le classi dominate. A mio avviso, La Grassa ha perfettamente ragione, ed appunto per questo quanto dice è completamente ignorato (o frainteso, il che di fatto è lo stesso) da un popolo ideologizzato di sinistra che cent’anni di marxismo (marxismo = positivismo per poveracci) ha abituato a credere che sia sempre in presenza di un vero scontro storico diretto fra dominanti (borghesi) e dominati (proletari). Questo popolo ideologizzato non vuole che gli si dica la verità, ma vuole continuare ad essere tossicodipendente dalla droga dell’illusione edificante. Se si riflette anche solo un poco, si capirà il perché dello svuotamento della democrazia e del perché questo avviene oggi in piena e generalizzata indifferenza.
I dominanti, infatti, per il momento sono ancora uniti nell’essenziale, e per questa ragione non si sono ancora aperti varchi per un eventuale intervento strategico dei dominati. Certo, so bene che vi sono molti conflitti economici fra USA, Europa e Giappone, e non li illustro in dettaglio dandone scontata la conoscenza. Ma questi conflitti economici non sono ancora purtroppo diventati veri conflitti geopolitici (cfr. C. Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni All’insegna del veltro, Parma 2005). Non essendo ancora diventati conflitti geopolitici l’unità della classe mondiale dei dominanti si fa ancora politicamente e geopoliticamente sulla base del comune consenso alla subordinazione all’impero militare e culturale americano. Non si vede ancora purtroppo un vero e proprio potere di coalizione Parigi-Berlino-Mosca-Pechino (o altre diverse coalizioni). Dicendo purtroppo segnalo che le due grandi rivoluzioni socialiste novecentesche (Russia 1917 e Cina 1949) sono entrambe avvenute grazie a fenomeni primari di conflitti destabilizzatori fra dominanti, in cui si sono inserite volontà politiche organizzate di dominati e non certo solo fenomeni movimentistici destinati regolarmente sempre a rifluire dopo una promettente primavera. In breve, fino a che non si apriranno veri conflitti fra dominanti (e ce ne accorgeremo non solo in base ad irrilevanti processioni di salmodiatori ma in base a fatti reali, come l’espulsione delle basi militari americane dall’Europa o la messa in atto di veri patti militari strategici tipo Russia-Cina, Cina-India, Russia-Iran, eccetera) bisogna solo aspettare, come direbbe Edoardo De Filippo, che passi la nottata e venga il mattino. So che tutto questo è odioso all’attivismo da formichine del militante ideologizzato tipo, ma non so che cosa farci. Se volete che conti balle, lo farò. Se invece volete che dica quello che penso, ebbene, questo è quello che penso.
In secondo luogo, e qui ritorno al già citato in precedenza Colin Crouch, la democrazia novecentesca (cfr. Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995) è stata sempre una democrazia organizzata di sindacati e partiti che esercitavano una sovranità reale, sia pure parziale, sul rapporto fra economia e politica. Ma questa sovranità si esercitava sulla base della sovranità nazionale. La decadenza di questa sovranità nazionale dovuta al sempre maggiore dominio di istituzioni sovranazionali ha portato allo svuotamento non tanto della democrazia in generale, ma di quel particolare tipo di democrazia novecentesca nata sotto la costellazione del compromesso sociale caratterizzato dal nesso fra produzione di massa fordista, integrazione consumistica di massa resa possibile proprio da questo tipo di produzione di massa, ed infine messa in atto di sistemi sociali di stato del benessere con i suoi due parametri fondamentali (sanità e pensioni). La fine di questo periodo storico (la cosiddetta rivoluzione neoliberista, il cui carattere rivoluzionario non muta anche se la si chiama più correttamente “controrivoluzione”) ha comportato uno sbriciolamento individualistico della società che trasforma i cittadini associati in consumatori individualizzati. In questo nuovo scenario atomizzato è assolutamente normale che anche se il trucco c’è, e si vede, non gliene freghi più niente a nessuno. E non gliene frega più niente a nessuno perché nessuno pensa veramente più di poter cambiare le cose con un voto a liste elettorali formalmente rivali ma unificate da una comune sottomissione allo Standard and Poor’s o alle classifiche del Financial Times. Restano ovviamente “nicchie” di militanti testimoniali o di friggitori di salsicciotti in feste di partito, ma si tratta di nicchie simili a quelle formate da amatori di auto d’epoca, pedofili informatici, studiosi di sanscrito, parlatori di esperanto, praticanti sport estremi ed osservatori degli UFO.
Mi limito per ora a segnalare questi due tipi di spiegazioni. Varrà invece la pena dedicare un paragrafo apposito ad una modalità ancora più importante di crisi della democrazia, la crisi della democrazia come prevalenza del demos.

3. La crisi della democrazia come prevalenza del demos

Quando la situazione ci sembra bloccata e senza uscita, la migliore cosa da fare è cambiare radicalmente ottica ed approccio. Questo non vale solo per le cose cosiddette “concrete”, ma anche per i più ardui problemi storici, filosofici e politologici. Se infatti non c’è più democrazia, e sostanzialmente non gliene frega niente a nessuno, se non a piccole minoranze testimoniali di nicchia, allora è inutile lamentarsi, smascherare, denunciare, richiamare i riottosi individualisti al senso civico, deprecare la plebe irredimibile che si occupa solo dei propri interessi materiali immediati, eccetera. Tutto questo non serve proprio a niente. E’ bene introdurre una nuova ipotesi, ed è esattamente quello che farò in questo paragrafo.
Il modo formalistico–istituzionale alla Giovanni Sartori ed alla Norberto Bobbio di concepire la democrazia deve essere abbandonato. Questo modo separa preventivamente economia e politica, funzionamento oligarchico dei mercati e tecniche elettorali, ed in questo modo, lo si noti bene, non c’è possibilità di evitare la conclusione che negli USA di George Bush c’è la democrazia mentre nella Cuba di Fidel Castro invece non c’è. E’ buffo che si pensi di poter opporsi ad un nemico accettando la sua visione del mondo filtrata nel modo apparentemente neutrale ed asettico di organizzare le categorie teoriche. In questo approccio, Blair è democratico mentre il venezuelano Chavez non lo è, perché è vero che Chavez rispetta il multipartitismo, ma è anche vero che il suo potere è parzialmente carismatico, ed il carisma diretto del leader è considerato populistico e sospetto al pensiero occidentale politicamente corretto, non importa se di destra o di sinistra (ed infatti il pensiero politico politicamente corretto di sinistra in Venezuela è contro Chavez, e fra l’alta finanza oligarchica ed il populismo carismatico preferisce la prima).
Ora, io non nascondo al lettore di preferire mille volte Fidel Castro a Bush e Chavez ai suoi oppositori oligarchici. Sono sicuro che sia così anche per la stragrande maggioranza dei lettori di questa rivista, che so però essere lettori di “nicchia”. Tutto questo però vale meno di zero se non si mettono in luce le ragioni di questa preferenza. Per quanto mi riguarda, queste ragioni non stanno certamente nella stucchevole dicotomia archeologica fra democrazia borghese e proletaria, dicotomia che (su questo punto il buon Norberto Bobbio non aveva tutti i torti) manifesta solo l’incurabile incapacità del pensiero marxista di maturare una sua propria teoria politica “performativa” (capace cioè di successo al di là del momento iniziale di mobilitazione messianica, la cui durata di vita è come quella dei cani e dei gatti, e non come quella delle tartarughe). Per questo, è bene recuperare il significato originale greco di democrazia.
Questo significato è stato precisato in modo insuperabile da Aristotele, per cui democrazia significa prevalenza del demos (prevalenza, non semplicemente potere istituzionale), ed il demos era formato dalla maggioranza dei cittadini, e questa maggioranza era anche la maggioranza dei più poveri, o quanto meno dei più svantaggiati rispetto al potere del denaro. Vista sotto questa ottica, la politica democratica era un correttivo rispetto al potere del denaro. Dove domina il denaro domina un sistema politico che correttamente i greci (infinitamente più intelligenti e meno ipocriti dei marpioni universitari e mediatici di oggi) chiamavano oligarchia, non democrazia. La democrazia non è dunque una particolare forma di governo e di stato, ma è semplicemente lo stato di prevalenza del demos, in cui il demos tramite la correzione politica democratica corregge appunto la sproporzione di potere data dal possesso di denaro.
Questa definizione di democrazia come prevalenza del demos è ignorata da tutte le bande accademiche politicamente corrette di oggi, e pour cause. E’ bene però segnalare, per chi volesse approfondire la questione, che essa è stata ripresa recentemente da Arthur Rosemberg (cfr. A. Rosemberg, Democrazia e socialismo, De Donato, Bari 1971) ed anche da Luciano Canfora (cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia e ideologia, Laterza, Bari-Roma 2004). Se proprio il lettore volesse un trittico, a fianco di Rosemberg e di Canfora segnalerei anche Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Bari-Roma 2005 in cui si “smontano” molti miti che sono ancora oggi moneta corrente presso la tribù del politicamente corretto dei semicolti occidentali in fregola di esportazione armata dei diritti umani nel mondo tenebroso degli stati-canaglia e dell’asse del male.
Il fatto è che il demos, per essere demos, deve essere politicamente organizzabile. La riduzione del demos ad atomi individuali portatori di vaghe opinioni politiche significa appunto la sua neutralizzazione politica. Certo, i greci hanno previsto molto, ma non potevano prevedere che un popolo organizzato politicamente potesse un giorno votare in massa per il monopolio del potere da assegnare ad oligarchie del denaro. La conclusione di tutto questo discorso è la seguente: la democrazia può vivere oggi solo come decisione politica sovrana (ed essa non lo è in presenza di mercati finanziari e di basi militari imperiali nel suo territorio – nessun ateniese avrebbe mai pensato di poter esercitare la democrazia con basi militari spartane o persiane sull’Acropoli), esercitata da un demos politicamente organizzato.
Lasciamo dunque le esercitazioni politologiche alla tribù dei formalisti. La politologia è la scienza dei nullatenenti. Oggi bisogna avere il coraggio di nuotare contro corrente, e di dire apertamente che la democrazia è la prevalenza del demos: i punti alti della democrazia nel mondo sono oggi, a mio avviso, la Cuba di Fidel Castro, il Venezuela di Chavez, e l’Iran di Ahmadinejad, non certo la banda di collaborazionisti americani tipo Blair e D’Alema. Detto questo, però, sarebbe stupido, o meglio idiota, o ancor meglio criminale, non far tesoro delle implacabili lezioni del novecento. E queste lezioni si compendiano tutte in un punto, che sintetizzerò così: la democrazia intesa come prevalenza del demos non è stabile, e dimostra di non poter mai diventare tale, se non riesce a garantire stabilmente (e quindi anche giuridicamente) la libertà di opinione e di espressione pubblica, individuale e collettiva, a tutti i cittadini nessuno escluso.
E come ha detto a suo tempo Rosa Luxemburg in modo geniale e definitivo, la libertà è sempre libertà di chi la pensa diversamente. Affrontiamo allora il problema spregiudicatamente.

4. Democrazia come prevalenza del demos e libertà di espressione per tutti coloro che la pensano diversamente

Nella tragicomica ondata di pentitismo scatenata dalla miserabile generazione intellettuale sessantottina (1968) domina da quasi un trentennio una generalizzata demonizzazione ed una ripetuta esecrazione della rivoluzione in quanto tale. I miserabili devono esorcizzare i loro fantasmi di quando uccidevano i poliziotti ed elaborare il lutto della loro superficiale gioventù. Per questa ragione sentono il bisogno di spingere il loro odio verso la rivoluzione fino al 1789 francese ed al 1917 russo. Il mio punto di vista è esattamente opposto: le rivoluzioni ogni tanto sono necessarie, in nome del profondissimo principio filosofico per cui quando ci vogliono ci vogliono. Nel 1789 ci voleva la rivoluzione francese, nel 1917 ci voleva la rivoluzione russa, nel 1959 ci voleva la rivoluzione cubana. Il lettore sa perfettamente che potrei portare a questo punto mille pagine di dotte motivazioni storiografiche, ma non lo faccio per due ragioni: non ne ho nessuna voglia ed inoltre lo spazio di questa rivista non me lo consentirebbe.
Tutto questo per dire che sono un amico (non incondizionato) delle rivoluzioni, e con chi mi dice seriosamente che ogni progetto utopico di cambiare il mondo degenera infallibilmente in totalitarismo politico cambio immediatamente discorso passando a Simenon, Agatha Christie e soprattutto Del Piero. In quanto amico delle rivoluzioni trovo anche normale (forse deprecabile, ma normale) che per qualche anno dopo la riconquista della democrazia gli ateniesi non lascino libertà di espressione pubblica ai fautori degli spartani, che per qualche anno dopo il 1789 i francesi non lascino libertà di espressione pubblica ai realisti borbonici, e che infine per qualche anno dopo il 1917 i russi non lascino libertà di espressione pubblica ai seguaci degli zar. L’ho appena detto: forse deprecabile, ma normale. Una normale “sospensione”, dovuta ad uno stato di conclamata ed evidente emergenza.
Se però l’emergenza diventa normalità allora c’è una patologia in atto, che in termini gramsciani potremo definire un deficit di egemonia. Questo deficit di egemonia ha caratterizzato l’intera storia del comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991). E’ evidente che un sistema egemone avrebbe consentito la formazione pubblica del Partito del Feudalesimo Russo Eterno, del Partito Polacco per il Capitalismo Occidentale Totale, del Partito Cinese per la Restaurazione Manciù, per il Codino Obbligatorio e per i Piedi Piccoli Erotici per le Donne confucianamente Obbedienti. Un simile sistema egemone avrebbe consentito ogni tipo di riviste e di gazzette letterarie, la Rivista della Libertà, il Giornale del Proletario Privato, il Quotidiano Individualista, così come i capitalisti sono riusciti di norma a permettere legalmente la Voce Operaia, Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo ed i bollettini CARC. Questa strutturale incapacità di mettere in atto una democrazia degna di questo nome (democrazia = prevalenza degli interessi del demos + principio di maggioranza + garanzia giuridica della libertà di opinione e di dissenso) può essere spiegata in molti modi, di cui qui per brevità mi limiterò a tre.
Prima spiegazione: l’accerchiamento capitalistico ed imperialistico, l’azione della Gestapo prima e della CIA poi, l’emergenza geopolitica permanente. Si tratta di pretesti penosi. Se infatti il capitalismo può permettersi di tollerare giuridicamente il dissenso verso di esso (ad esempio, questa rivistina su cui scrivo, di nicchia quanto si vuole) mentre il socialismo non può farlo, cade il principio marxista per cui esso sarebbe un sistema sociale di tipo storicamente “superiore”.
Seconda spiegazione: il malvagio monopolio del potere sequestrato dalla burocrazia, questa escrescenza parassitaria dovuta al debole sviluppo delle forze produttive ed alla scarsità di beni e servizi che ne consegue, cosicché non si ha un vero socialismo, ma uno stato operaio burocraticamente degenerato (con varianti). Si tratta, come è noto, del paradigma trotzkista. Il lettore che mi segue sa che l’ho sempre trovato penoso. Questo paradigma si basa su di un presupposto metafisico non dimostrato, e cioè il demos, organizzato in consigli di democrazia diretta, potrebbe esercitare direttamente l’autogoverno politico e l’autogestione economica. Dal momento che questa capacità astrattamente attribuitagli in nome di una metafisica operaistica ottocentesca si è dimostrata una pittoresca ed inesorabile incapacità storica, a questa incapacità si è dato il nome di “burocrazia”. Nello stesso modo, si è dato il nome di “diavolo” all’incapacità di far prevalere stabilmente nell’uomo i buoni istinti sui cattivi.
Terza spiegazione: se l’avarizia (intesa come attaccamento al denaro, non come la spilorceria) è il principale difetto dei ricchi, l’invidia è il principale difetto dei poveri. Se allora la prevalenza del demos non riesce a lasciarsi alle spalle il doppio nesso fra avarizia ed invidia, ne conseguirà che in qualsiasi momento (Cina 1978, URSS 1991) la restaurazione oligarchica capitalistica sarà sempre in agguato. Mi si dirà che questa spiegazione è troppo psicologica, e quindi non “strutturale”. Errore. Si tratta di una spiegazione strutturale. La privazione della libertà di opinione, che il marxista sciocco ed economicista riterrà probabilmente sovrastrutturale, è invece pienamente strutturale. Se infatti la cosiddetta “struttura” consiste nella dinamica dialettica fra la crescita delle forze produttive sociali e la natura classista o meno dei rapporti sociali di produzione, allora il fatto che questa dinamica dialettica avvenga in regime di libertà d’espressione o viceversa in regime di repressione statale di quest’ultima fa parte della struttura, non della sovrastruttura.
Ripetiamolo ancora, perché mi rendo conto che questo è scandaloso per le orecchie a sventola del marxista medio: la libertà di opinione e di espressione politica, filosofica, religiosa, letteraria ed artistica fa parte della struttura di una società, non della sovrastruttura. Spieghiamoci meglio nel prossimo paragrafo.

5. Una rivoluzione copernicana nella teoria marxista

Il più importante problema teorico che possa seriamente discutere la comunità degli studiosi marxisti oggi sta nel decidere se il marxismo stesso possa mutare di paradigma scientifico (Kuhn), il che comporta ovviamente una rivoluzione scientifica di paradigma, sulla propria stessa base assestata nell’ultimo secolo (oppure attraverso un ritorno radicale a Karl Marx “saltando” tutto quanto è venuto dopo), oppure al contrario se questo sia ormai impossibile, e ci voglia qualcosa di molto più radicale, e cioè una teoria dell’analisi e dell’emancipazione sociale completamente nuova, di cui la tradizione marxista non sarà che una componente.
Lascio aperto questo dilemma, che non è l’oggetto di questo mio intervento, e voglio insistere solo su di un punto cruciale. A mio avviso, se si vuole in qualche modo mantenere il dualismo fra struttura e sovrastrutture di un modo di produzione capitalistico in particolare, allora propongo che la libertà e la democrazia (più esattamente la libertà di creazione artistica, letteraria e filosofica, ed in più la libertà di opinione e di organizzazione politica giuridicamente garantita, e la democrazia intesa come somma di tre elementi, principio di maggioranza, garanzia per le minoranze e perseguimento sostanziale del bene politico) vengano in qualche modo inserite nella struttura.
Il mettere alla base della struttura lo sviluppo delle forze produttive porta, come è noto, all’economicismo e al tecnologismo (che sono fratelli gemelli, al punto che si potrebbe parlare esattamente di Tecno-economia o di Econo-tecnica). Non mi soffermo su questo punto, perché un serio bilancio dell’ultimo secolo parla da solo.
Ma anche il mettere alla base della struttura il solo rapporto sociale di produzione classistico non è corretto (fu questa la via dell’althusserismo ed in generale del maoismo occidentale ed europeo). Esso porta ad una sorta di iper-rivoluzionarismo attivistico, di sociologismo mistico (la classe operaia deve dirigere tutto e da essa possiamo aspettarci tutto il meglio possibile, eccetera), e quindi di nichilismo. Più in generale il nichilismo in ambiente marxista può assumere due aspetti assolutamente complementari ed in solidarietà antitetico-polare: il nichilismo di destra (economicismo produttivistico) ed il nichilismo di sinistra (sociologismo classistico).
La società deve essere invece considerata in modo olistico come un “intero” (ed è del resto ciò che sostiene correttamente il miglior pensiero ecologista ed ambientalista). In quanto “intero”, non è per nulla sovrastrutturale il fatto che la riproduzione conflittuale dei rapporti sociali avvenga garantendo stabilmente ai membri della società stessa sia il metodo (democratico) sia i presupposti antropologici di questo metodo stesso (la libertà di creazione e di espressione).
Nessuno sceglie il periodo storico in cui vivere, ma in esso siamo “gettati” (come dice correttamente Heidegger) dall’incontro casuale dei nostri genitori. A me è successo di frequentare per decenni veri e propri idioti che mi hanno riempito la testa con l’idea che la libertà di creazione e di espressione è qualcosa che non interessa ai lavoratori ed ai proletari (a cui interessano evidentemente solo gli indici di produzione del carbone, del petrolio e dell’acciaio), ma riguarda soltanto i piccolo-borghesi anarcoidi ed incapaci di disciplina. Quando il quotidiano “Lotta Continua” aprì un dibattito sui dissidenti sovietici di metà degli anni settanta ricordo che la stragrande maggioranza delle animalesche risposte sosteneva la seguente tesi: i burocratici sovietici hanno espulso Solzenitsin, ma i proletari lo avrebbero fucilato. Se qualcuno volesse toccare con mano che cosa significa incapacità di egemonia, vada nelle emeroteche e si fotocopi questo dibattito. Non stupisce allora che per nascondere il fatto di aver avallato queste indegne porcherie i responsabili di questo avallo si siano riciclati in ammiratori di Bush ed in “bombardatori umanitari”.

6. Conclusioni

In conclusione credo di poter riassumere le mie tesi di fondo in due soli punti, il primo critico-negativo ed il secondo “positivo”.
1) Primo punto. Chi oggi parla di democrazia in atto, di democrazia sia pur fragile, minacciata o imperfetta, eccetera, o è un ingenuo in buonafede o è un mentitore in mala fede. A volte i confini fra i due gruppi sono labili e le posizioni si mescolano. L’ingenuo in buona fede diventa talvolta un mentitore in malafede, pur non avendo all’inizio questa intenzione, perché rifiutando di prendere in considerazione la realtà, e decidendo appunto di “non sapere”, scivola inavvertitamente dalla prima alla seconda posizione. Una volta che lo scivolamento è avvenuto, esso diventa purtroppo un avversario, mentre prima era un legittimo interlocutore.
Ho riassunto prima le due ragioni di fondo per cui la decisione democratica è oggi resa impossibile. Essa è espropriata e svuotata da una doppia mancanza di sovranità, la sovranità economica (il dominio anonimo dei mercati transnazionali) e la sovranità militare (le basi americane potentemente armate a sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale).
In queste condizioni la pretesa di “esportare” la democrazia (eretta a primo dei cosiddetti “diritti umani”) diventa veramente paradossale. Si esporterebbe infatti non la democrazia, ma appunto la non-democrazia (che nella dizione di Crouch, che ritengo insufficiente, diventerebbe più pudicamente una post-democrazia). Ora, l’esportazione virtuale ed ideologica della non-democrazia fatta passare per democrazia, il che appunto non è, segnala l’enigma ideologico principale del nostro tempo, la crescente sostituzione della realtà virtuale alla realtà reale. Senza l’attività quotidiana della saturazione mediatica tutto questo non sarebbe tecnicamente possibile. Non è comunque un caso che la filosofia accademica segua il suo committente come un cagnolino segue il suo padrone, sostenendo con pomposi ragionamenti che la verità non esiste, il bene politico è una chimera utopica indimostrabile, e tutto è relativo. Questa sofistica ultracapitalistica (in cui Wittgenstein riscrive in inglese le tesi a suo tempo scritte in greco antico da Gorgia) si basa su di un segreto di Pulcinella: in un mondo in cui tutto è in relazione con un unico “assoluto”, il valore d’uso della merce ed il suo potere d’acquisto differenziato, gli intellettuali di regime diranno che tutto è relativo. Il solo “assoluto” che essi ammettono è allora l’insieme di “diritti umani” che consentono l’esportazione armata e coattiva del loro doppio relativismo (doppio in quanto ad un tempo merceologico e filosofico).
Abbasso la loro democrazia! Nessuna concessione alla loro retorica democratica! Solidarietà piena a che resiste ad essa!
2) Secondo punto. Partendo dallo “smascheramento della menzogna dell’esportazione della democrazia attraverso embarghi e bombardamenti molti superficiali sono arrivati alla frettolosa ed errata conclusione per cui la “libertà” e la “democrazia”, essendo orpelli ideologici di copertura dei dominanti, per ciò stesso non siano valori che possano ambire legittimamente all’universalità. Nella mia concezione, l’universalità non è un dato a priori (se lo pensassi, sarei un pensatore religioso, il che è comunque meglio di essere un cosiddetto laico relativista), ma è un processo storico di universalizzazione mondiale che può avvenire solo attraverso un dialogo sistematico fra culture, senza alcun presupposto di superiorità esplicito o implicito (ed è infatti quasi sempre ipocritamente implicito).
Sostenendo che la libertà di creazione e di espressione, insieme con il metodo democratico, fanno parte della struttura e non della sovrastruttura, dico esattamente la stessa cosa di quelli che dicono che esse sono dei valori universali. Certo, so benissimo che a volte nella storia esse possono essere “sospese”, e che di per sé non garantiscono il bene politico. Socrate fu condannato a morte per tradimento e Gesù di Nazareth fu condannato a morte per terrorismo, laddove in realtà, studiando e ristudiando i loro processi (ma questo non può essere l’oggetto di questo mio intervento) si arriva facilmente alla conclusione che entrambi erano innocenti, che Socrate era un patriota ateniese che voleva essere il moscone fastidioso del nobile cavallo della polis degli ateniesi, e che Gesù era un pacifista messianico che intendeva proclamare un “anno di misericordia del signore” (traduzione: remissione dei debiti e quindi liberazione di tutti gli schiavi per debiti).
Nessuna persona filosoficamente educata può sostenere che di per sé il principio di maggioranza porta alla verità filosofica o al bene politico. E’ chiaro che così non è. Ma da questo fatto evidente non bisogna affrettarsi a tirare delle conseguenze anti-democratiche, come ad esempio il Platone della Repubblica. La democrazia è infatti un processo di educazione progressiva attraverso la pratica dialogica di un homo democraticus, sulla base del presupposto che una pratica dialogica ben condotta può giungere a convincere tutti (o quasi tutti) della soluzione migliore. Soluzione migliore che a sua volta presuppone la generalizzazione di un punto di vista solidale-comunitario e non egoistico-individualistico fra gli uomini.
La democrazia si basa quindi su di una scommessa, in un senso molto più vicino al possibilismo di Pascal che al determinismo meccanicistico del marxismo ortodosso. L’idea di poter costruire non democraticamente una nuova umanità comunista è stata praticata nel novecento da Stalin, ed è fallita. A proposito di Stalin, io condivido nell’essenziale l’idea di Canfora per cui Stalin ha impersonato una forma di prevalenza del demos, e quindi non condivido l’interpretazione trotzkista del dominio di una oligarchia burocratica che corrispondeva ad Est al dominio dell’oligarchia capitalistica normale ad Ovest. Ma questo non cambia di un grammo le cose. Prevalenza del demos o meno, la mancanza di libertà e di democrazia soffoca strutturalmente lo sviluppo sociale.
Posso allora terminare qui. La libertà è libertà di creazione (filosofica, artistica e letteraria) e libertà di espressione (politica e religiosa). Ma la libertà non è nulla senza un sistema giuridico che la garantisca ed impedisca gli abusi giudiziari. La democrazia è allora un insieme di tre elementi inscindibili, il principio di maggioranza, la garanzia per le minoranze ed il perseguimento del bene politico. Le due sole categorie di persone con cui non desidero più confrontarmi sono queste: coloro che dicono che tutto è relativo, e non esiste un bene politico, e coloro che affermano che la libertà è un lusso per borghesi e piccolo-borghesi.

di Costanzo Preve

21 dicembre 2010

Gli Euro Bond


In campo economico e monetario, oltre ad avere le idee chiare ed aver capito come si incastrano i vari meccanismi, da chi vengono orchestrati, a favore di chi e per quali inconfessabili scopi, è necessario soprattutto mantenere coerenza e comportamenti consequenziali con le proprie analisi ed i propri convincimenti maturati nel tempo, ancor più se questi si stanno rilevando più che utili, indispensabili alla normalizzazione della situazione economica ed occupazionale e funzionali al conseguimento del bene comune di tutti e di ciascuno. Non è possibile, dopo aver recentemente e pubblicamente modificato i propri convincimenti per quanto attiene all’emissione monetaria ed aver concluso e riconosciuto la necessità che sia lo Stato a ritornare a battere moneta in prima persona sulla scia della centennale e positiva esperienza pregressa, come ha recentemente affermato pubblicamente Marco Della Luna, e poi entusiasmarsi per gli Eurobond proposti dal Ministro Tremonti in campo europeo. Posso comprendere che la solita cricca ammantata dell'aureola bocconiana così cara alla cupola monetaria spinga per far si che ciò avvenga. Al banchiere interessa e si adopera affinché venga creato del debito da amministrare, qualunque sia ma sempre garantiti da titoli reali, sul quale lucrare e mediante il quale imporre le solite condizioni capestro che approdano come sempre accade, all’esproprio dei beni materiali di qualunque natura del debitore. Ovviamente per quanto riguarda i titoli ricevuti in garanzia, quelli di stato sono più graditi delle cambiali private, i titoli europei lo sono ancor dippiù, meglio ancora se garantiti dall'oro come già suggerito dalla cricca dei scodinzolanti economisti di vecchia memoria, sempre quelli per intenderci che sino al giorno prima non si erano accorti dell'incombenza dell'ultima devastante crisi economica. Se l’iniziativa di lanciare gli Eurobond del nostro Ministro, che tanto piace a questa razza di economisti, è una mossa che serve a dimostrare che anche questa strada non è percorribile per l’indisponibilità di alcuni Paesi, tra i quali Francia e Germania, di farsi carico dei pesi altrui, come ha evidenziato lo stesso Della Luna, allora, se non altro che per esclusione, occorre ricercare altre soluzioni capaci di reperire risorse per far ripartire l’economia e l’occupazione, senza creare nuovi debiti sia pubblici che privati. Il limite degli Eurobond è proprio questo, oltre all’assurdità di creare nuovo debito ed impastoiarsi ancor più nei confronti dei soliti banchieri. Sulle questioni economiche e monetarie non è possibile saltare i passaggi essenziali e non tenere conto degli interessi nazionali del proprio Paese, ne è pensabile voler unificare Nazioni diverse per cultura, per stato sociale, per capacità produttiva, ed ancor più per capacità creativa ed inventiva, che verrebbe definitivamente mortificata, attraverso ed utilizzando la leva del debito, che dovrebbe diventare comunitario e costruito con gli Eurobond. Come abbiamo dovuto prendere atto, il marchingegno degli Eurobond non funziona e contestualmente non può essere perso di vista quello che oggi per noi italiani è lo scopo prioritario che deve perseguire la Politica, indipendentemente dai contrasti tra governo ed d’opposizione. Ciò in primis riguarda proprio la ripresa dell'economia reale e delle attività economiche, quelle per intenderci capaci di riassorbire la disoccupazione che in barba a tutte le chiacchiere continua a crescere insieme e quasi di pari passo al debito pubblico. Non si riesce a far ripartire l’economia poiché non si dispongono le risorse necessarie per finanziare le attività vecchie o nuove che siano. Prima o al massimo contestualmente di perseguire il riassetto europeo sistemiamo casa nostra. Assistiamo alla violenta ed atavica disputa politica tra maggioranza ed opposizione per futili motivi, tra maggioranza ed ex pezzi della stessa per stabilire chi è più liberale, nella quale la maggioranza glissa sul come uscire dalla crisi economica e l’opposizione si guarda bene da avanzare proposte e denunciare in favore delle fasce sociali che si stanno sempre più impoverendo e degli imprenditori che stanno fallendo, che il tutto é causato dalle ingentissime risorse sottratte dal mercato, spesso a propria insaputa, a favore dei banchieri. Smettiamo di ricercare soluzioni attraverso l'ulteriore indebitamento così caro ai banchieri, liberiamoci della foglia di fico del liberalismo dietro la quale si annida la pattuglia dei dissidenti dell’attuale maggioranza, congeniale ai banchieri, smaniosi di acquisire, con il candido e innocente sussurro delle privatizzazioni, le migliori aziende dello Stato invidiateci da tutto il mondo, con la scusa di alleggerire il “debito pubblico” e per ammansire la canee dei famelici banchieri che con il giochino delle tre carte, con l’emissione monetaria taroccata, con le agenzie di rating, con l’esclusiva per grazia ricevuta, di battere moneta, amministrano il pseudo debito costruito appunto con i raggiri sopra descritti. Smettiamo di costruire debito mediante l’emissione di titoli di debito dello Stato per farli scontare alla solita cupola monetaria. Se i titoli di debito emessi dallo Stato, sono accettati allo sconto da questi avvedutissimi, prudentissimi ed insindacabili strozzini in guanti bianchi, debbono essere buoni per il mercato anche i titoli monetari emessi dalle stessa Pubblica Amministrazione. Poiché il trattato di Maastrikt è già stato ampiamente violato da Paesi ben più blasonati del nostro, ritorniamo senza esitazioni a battere moneta in proprio come abbiamo saputo fare così bene per




oltre 100 anni. Diamo risposte concrete all’opposizione poiché ci procuriamo la capacità di spesa per rilanciare le attività produttive e l‘occupazione senza indebitarci, salviamo gli imprenditori dalle angherie e dallo strangolo bancario e monetario ulteriormente pianificato da “Basilea 3”, con un colpo solo ci liberiamo dai ricatti e dall'assillo delle agenzie di rating ogni volta che si avvicina la data di scadenza o rinnovo dei titoli, risparmiamo la non lieve cifra degli interesii passivi (al tasso dell'1% 80 miliardi di euro all’anno e già si trama per aumentare tassi & affini vari), l’Esecutivo di qualunque colore sia, recupera la propria capacità politica di programmare la politica nazionale, attualmente miseramente relegata a rastrellare risorse dal mercato per convogliarle ai banchieri. Se poi la residua cupola bancaria-monetaria dovesse, come suo costume, influenzare le solite agenzie di rating e per alterare il livello dei cambi, saremmo felicissimi sia quando svalutano che quando rivalutano la moneta nazionale: disponiamo delle appropriate terapie per ogni circostanza. L'essenziale è che non siano i banchieri a gestirle.
Questo è il compito della politica seria e di tutti i cittadini consapevoli. Pensare di sottrarsi a queste incombenze è da irresponsabili sia nei confronti del prossimo ed ancor più dei propri figli.
La validità della instancabile proposta avanzata da sempre da Della Luna di espatriare per ricercare condizioni migliori, ma con il sottinteso messaggio subliminale di propagare la rassegnazione allo status quo, può essere ritenuta valida solamente dal concreto e pronto esempio di chi l’ha formulata.
di Savino Frigiola

20 dicembre 2010

Il crack del Banco Emiliano Romagnolo




Crack Banco Emiliano Romagnolo

Oggi ho ricevuto una mail sul fallimento del Banco Emiliano Romagnolo (BER) e il congelamento di conti correnti e dei titoli (che non sono di proprietà della banca) su disposizione della Banca d'Italia. Il blog ha verificato con una telefonata (la voce è stata modificata per evitare problemi a ci ha fornito le risposte) che è tutto vero. Provate a immaginare di trovarvi domani senza poter accedere al conto corrente, al bancomat, ai titoli in deposito, ai pagamenti automatici dal conto. Come vi sentireste?
Di seguito la segnalazione e l'intervista alla BER.

Segnalazione


"Voglio segnalare che il Banco Emiliano Romagnolo è stato bloccato dalla Banca d'Italia e che tutti i conto correnti sono stati congelati per evitare che tutti ritirino i soldi. Stanno cercando di vendere la banca al gruppo Intesa, non si sa altro. E dicono che fino al 7 gennaio non si saprà nulla. Passeranno le vacanze di Natale serene, loro! E non per il freddo... Mi ritrovo come tante altre persone a non poter ricevere bonifici, stipendi, addebiti e neanche ritirare contanti allo sportello. Il tutto senza preavviso e tenendo tutto nascosto. Ancora sui giornali non si legge niente.Chiamate direttamente voi in banca per vedere che è tutto vero:
0514135595 - 0514135539
Saluti" A.C.

Trascrizione telefonata del blog alla BER:


BER
: E’ stato durante un provvedimento di Banca d’Italia del 7 di dicembre in cui stabilisce che un congelamento dell’entrata e uscita dell’operatività dei conti correnti,questa tutela dei conti correnti , salvaguardare le procedure di transizione che ci sono in questo momento significa che il conto congelato, non si possono fare né ricevere bonifici assegni, RID, bancomat.. il conto è bloccato completamente. Purtroppo anche noi dipendenti siamo nella stessa situazione, non si riesce a fare la spesa, se qualcuno ha altra possibilità la situazione è cristallizzata allo stato in cui si trovava. Guardi, noi stessi che siamo all’interno che potevamo tutelarci, per prelevare, noi stessi siamo stati avvisati da un minuto all’altro, soprattutto nel rapporto con i clienti. Il 6 sera è stato preso questo provvedimento, emanato dalla Gazzetta Ufficiale della Banca d’Italia e sui giornali a tiratura nazionale. Il 7 mattina all’apertura della filiale ci ha comunicato questo. Provvedimento drastico, che chiaramente suscita, ha suscitato e susciterà enormi problemisti che alla Banca d’Italia stessa suppongo, altresì possa farlo, prenderà un sacco di denunce. Comunque sia, ovviamente che sono in forte difficoltà sono soprattutto le aziende, un disastro terribile.
Blog: Aldilà dei depositi dei CC, invece l’operatività della banca è semplice intermediaria tipo Conto Titoli anche quello è bloccato?
BER: Si Tutto, completamente tutto.
Blog: I titoli di fatto sono intestati al correntista, non alla banca.
BER: Si,bloccati nel senso che non possono essere trasferiti da un conto all’altro, lì sono e lì rimangono fino a che non si sbloccano, poi ognuno potrà disporre come vuole.
Blog:In questo periodo di congelamento non posso operare sui miei titoli?
BER: No, ma neanche sul conto corrente
Blog: Neanche da nessun altro operatore?
BER: Assolutamente no, guardi, non entrano nemmeno i bonifici
Blog:Sul conto mi è più facile capire perché è un asset della banca
BER: Capisco la sua obiezione, però anche i titoli fanno parte di una sorta di liquidità totale, credo che la maggior parte delle persone si preoccupi della liquidità per fare la spesa per pagare un mutuo, una utenza, un affitto.
Blog: Si, nella peggior delle ipotesi, congelato il conto corrente, liquido una parte dei titoli e mi arrangio in un altro modo
BER: Si ho capito, certo, infatti questo è un problema per la Borsa, per tutto, perché c’è una sorta di compra vendita, di negoziazione quanto meno, e comunque si investe anche finché tiene.

di Beppe Grillo

19 dicembre 2010

Neurolandia




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Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.


La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.


Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).


Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.

In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.

Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo

16 dicembre 2010

I colonizzatori dell'immaginario collettivo




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La circolazione delle notizie, sui grandi media, è subordinata alla volontà dei "sistemi" che gestiscono i media stessi. Viviamo nella società del controllo e sembra che esista un governo sovranazionale ed invisibile che decida cosa è giusto farci sapere e cosa no. In questo scenario apocalittico, abbiamo incontrato Marco Cedolin, scrittore e studioso di economia, ambiente e comunicazione, per porgli qualche domanda. “Non credo esistano dubbi sull'esistenza di un governo sovranazionale che attraverso la colonizzazione dell'immaginario collettivo, plasma la conoscenza, la sensibilità, i gusti, le reazioni emotive e più in generale i pensieri delle persone – sottolinea Marco Cedolin - con lo scopo di creare una massa di perfetti consumatori globali perfettamente omogeneizzati, privi di senso critico e programmati per reagire a qualsiasi stimolo indotto nella maniera prevista”. Alla domanda se esistono degli operatori di guerra psicologica lo scrittore e studioso precisa: “non si tratta tanto di una guerra psicologica, dal momento che il concetto di guerra presuppone la presenza di almeno due soggetti belligeranti, mentre in questo caso il soggetto impegnato nell'operazione si manifesta uno solo. Parlerei piuttosto di un processo di orientamento e globalizzazione del pensiero, attraverso l'anestetizzazione delle coscienze e l'annientamento sistematico di qualsiasi prerogativa culturale che possa mettere a rischio la buona riuscita del progetto”. I colonizzatori dell'immaginario collettivo, dunque, agiscono nelle maniere più svariate. Plasmano le notizie a proprio piacimento all'interno dei media mainstream, talvolta le costruiscono, altre volte ne praticano l'eutanasia, sempre decidono la natura di tutto ciò che deve diventare “informazione”, affinché l'operazione sortisca l'effetto desiderato. Ma i colonizzatori non monopolizzano solo l'informazione, gestiscono anche l'istruzione scolastica, il mercato pubblicitario, quello editoriale e discografico, il cinema, lo sport, la medicina e qualsiasi altro campo condizioni la “costruzione” dell'individuo. Sembra proprio che non si limitino a plasmare l’attenzione su i più svariati argomenti ma addirittura decidono se una cosa è realmente accaduta oppure no. “Nella società globale dell'informazione “urlata” in tempo reale, - spiega Marco Cedolin - esistono e possiedono una dimensione concreta solamente quei fatti e quegli accadimenti di cui viene data notizia e il valore di tale esistenza è direttamente proporzionale allo spazio ad essi tributato nel rappresentarli da parte dei media” - e continua con un esempio concreto – “Se io e lei per protesta saliamo su una gru e srotoliamo uno striscione, la nostra azione diventerà “reale” solo se e allorquando essa verrà documentata dai media ed assumerà valore in proporzione all'importanza che i media intenderanno riservarle. Se nessun giornale e nessuna TV documenteranno l'accaduto, per il resto del mondo (tranne qualche raro passante che si trovava nei pressi) non ci sarà stata alcuna scalata alla gru e alcuna protesta”. Il potere di decidere cosa realmente esiste è enorme, dal momento che una realtà imperfetta e parcellare, costruita in funzione del perseguimento di precisi interessi, viene presentata all'opinione pubblica globale come l'unica vera realtà, facendo si che il pensiero, le reazioni, le emozioni della massa, siano esattamente quelle che s'intendeva suscitare. Quando guardiamo un qualsiasi telegiornale o, leggiamo un qualsiasi quotidiano, veniamo “attratti” sempre dalle stesse parole. Parole che, se non analizzate a fondo, possono sembrare ricche di significato. L’interlocutore viene dunque plagiato emotivamente. Le parole rappresentano il fulcro dell'informazione e la loro importanza va molto al di là di quanto possano immaginare coloro che distrattamente sfogliano un giornale o guardano un TG. L'informazione urlata e ipercinetica del nostro tempo ha scelto un linguaggio quanto mai consono ad attirare l'attenzione del lettore/ascoltatore e condizionarne il giudizio. Marco Cedolin ci illustra degli esempi lampanti: “Il primo escamotage è costituito dall'abitudine a parlare per slogan precostruiti, slogan il più delle volte vuoti di contenuti ma di sicuro effetto, che verranno ripetuti continuamente come un mantra, fino a quando l'opinione pubblica sarà indotta a farli propri sotto forma di verità incontrovertibili. La crescita del Pil diventerà così sinonimo di benessere, pur non avendone titolo. La spesa di miliardi di euro di denaro pubblico per la costruzione di ciclopiche infrastrutture sarà accettata come un veicolo per migliorare la condizione economica dei cittadini, che invece si ritroveranno costretti a finanziare di tasca propria operazioni in perdita. L'occupazione in armi di stati sovrani verrà presentata come un'operazione di pace, finalizzata a “civilizzare” gli altri, sempre meno civili di noi. L'elargizione a pioggia di denaro pubblico destinato a rimpinguare le casse del sistema bancario privato, sarà spacciata sotto forma di “aiuti” ai cittadini dell'uno o dell'altro stato in difficoltà. Le operazioni di taglio dello stato sociale, dei redditi e dei servizi, a detrimento del benessere della cittadinanza, verranno giustificate come indispensabili sacrifici volti a ridurre il debito pubblico e così via. Il secondo escamotage è rappresentato dall'attenta scelta delle parole da utilizzare nella diffusione delle notizie, a seconda che lo scopo finale sia quello di mettere in buona o cattiva luce un determinato personaggio politico, uno stato, un provvedimento legislativo, una manifestazione o qualsivoglia tipo di accadimento. Il governo di uno stato che s'intende screditare verrà perciò sempre definito “regime” anche quando come nel caso del Presidente iraniano Ahmadinejad si tratta di un governo legittimamente eletto, nel corso di elezioni assai più partecipate e pulite di quelle statunitensi e di gran parte dei paesi occidentali. Alla stessa stregua il leader di un paese amico verrà chiamato “Presidente” e la nazione sarà definita “democratica”, anche qualora, come nel caso d'Israele l'esercito di tale nazione continui giorno dopo giorno a macchiarsi di crimini orribili. Il leader di un paese scomodo sarà al contrario etichettato sempre come tiranno, despota, dittatore ecc. I manifestanti che vengono a contatto con la polizia saranno teppisti, violenti e facinorosi, se portano avanti temi che devono venire screditati, ma diventeranno semplicemente cittadini esasperati se la loro battaglia può rivelarsi in qualche modo funzionale ad un disegno superiore. Molte volte basta la scelta di una parola per cambiare completamente l'intera ottica attraverso la quale viene letto un accadimento”. C’è il serio rischio, quando si da un’informazione che è contraria a quella fornita dai media considerati tradizionali di passare per complottista. Spesso si rischia di essere emarginati dal circuito di mediatico di massa e automaticamente messi nella condizione di non nuocere. “Poco importa – spiega Marco Cedolin - se le nostre affermazioni in merito alla fallacia della verità ufficiale riguardo alla strage dell'11 settembre sono suffragate da una serie interminabile di elementi incontrovertibili, se il nostro giudizio negativo nei confronti dell'alta velocità ferroviaria si basa su dati ed evidenze di tipo economico e scientifico che nessuna analisi seria sarebbe in grado di smentire, se le nostre prese di posizione su temi economici, politici e ambientali sono documentate dettagliatamente e derivano da studi ed analisi con solidi fondamenti”. Sembra proprio che produrre vera informazione è severamente vietato in un circo mediatico dove l'imperativo è costituito dalla produzione di una verità fittizia che sia funzionale agli interessi superiori. Sembra anche molto difficile difenderci dal controllo globale. I grandi interessi preposti al controllo dell'informazione gestiscono il loro potere attraverso una leva tanto semplice quanto efficace, la leva economica. Qualsiasi strumento d'informazione di massa può esistere solo se supportato da consistenti investimenti economici, facendo si che i “finanziatori” siano gli unici soggetti in grado di decidere la natura e la qualità dell'informazione stessa. Nell’era di internet e del giornalismo partecipativo, esistono, però, fonti d'informazione alternative; esiste qualche piccola casa editrice indipendente, qualche rivista e quotidiano a tiratura limitata. “Per essere bene informati – conclude lo scrittore e studioso Marco Cedolin - occorre faticare, navigare su internet almeno un paio di ore al giorno, leggere molto e farlo sempre con grande spirito critico. Osservare le notizie da varie angolazioni, contribuendo alla formazione di un proprio punto di vista che non dovrà per forza collimare con quello espresso nei testi che si sono letti”. La possibilità d'informarsi correttamente esiste ma richiede tempo e fatica. Certamente è molto più facile sedersi in poltrona e accendere la TV. Sta solo a noi scegliere se ne valga o meno la pena.

di Marco Cedolin - Fabio Polese

15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo

13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale

08 dicembre 2010

Banca del cibo? No, cibo della banca

Ogni volta che un qualche "vip" è visto mangiare un po’ di tofu, subito scrosciano gli applausi. Senz’altro si può affermare che le vecchie rockstar in cerca di mantener la linea o gli ex presidenti USA che hanno capito che c’è un nesso tra dieta e prevenzione dell’infarto, costituiscano un buon esempio da imitare, almeno che c’è chi ci tiene e ci pensa se non altro per sé (“We care”).

Al di là di queste belle notizie però, la situazione alimentare moderna mondiale è alquanto seria. Le vendite oggi dei cibi "Bio" in Europa ammontano solo al 2% dei consumi UE (26 paesi). In pratica, 21 M di € contro ad esempio 24 M di € in merendine confezionate. La realtà è ben altra cosa, ed è che la grande industria alimentare è la causa numero uno dello squilibrio alimentare, in pratica della fame, nel mondo odierno. Vediamo ora come il capitalismo finanziario dei disastri tragga vantaggio solo per il denaro in se’ dalla produzione di alimenti scadenti, purché altamente industrializzati.

Chi non l’avesse ancora fatto, si legga il libro del 2007 di Naomi Klein “Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri”. In esso l’Autrice sostiene che fenomeni sociali straordinari come la guerra in Iraq e disastri naturali come i grandi terremoti, alluvioni ecc. siano sempre un’opportunità usata dalla grande industria attraverso i politici al potere da lei sostenuti per far passare nuove leggi straordinarie che mai sarebbero state accettate in situazioni normali. Questa forma di opportunismo sociale di solito è altamente apprezzata negli ambienti finanziari in quanto produttiva di lauti guadagni. Per l’industria alimentare il disastro da tramutare in grandi profitti è la penuria alimentare che affligge il Pianeta. La scarsità di cibo è stata sventolata sotto i nostri occhi da almeno 40 anni (senza tener conto delle antiche predizioni, del tutto errate, da parte di Malthus e altri corvi di sciagura) ma è ora assai più vicina a realizzarsi ovunque, facendosi sentire tanto nei paesi “in via di sviluppo” quanto in quelli sviluppati, cioè da noi.

Una delle strategie del capitalismo dei disastri è quella di attendere che i problemi si manifestino in tutta la loro gravità prima di passare all’azione. Infatti, non ci sarebbe sufficiente reazione emotiva per far passare misure in loro favore senza l’urgenza del disastro, e quindi mancherebbero i guadagni colossali. Pertanto si va dal “preoccupante” al “problematico” prima di arrivare a “disastro” nel loro linguaggio echeggiato da stampa e televisioni. L’Escalation di termini conduce a una serie di misure d’emergenza spacciate per soluzioni – non c’è tempo, bisogna agire in fretta! Proprio quando c’è bisogno di studiare in dettaglio e di tanta moderazione, si agisce in fretta e furia.

Primo esempio: L’impoverimento dei contadini. I piccoli agricoltori a regime famigliare o simile in tutto il Pianeta non possono tenere prezzi che reggano la concorrenza con quelli dell’agricoltura aziendale industrializzata, di grande scala e altamente meccanizzata. Per salvarsi hanno due possibilità: una è quella di produrre alimenti da export, esotici in nazioni più ricche, allo scopo di accrescere i guadagni. In Italia ciò vale soprattutto per il vino. La seconda possibilità è quella di coltivar cereali per bio-fuel ovvero, trasformarli in carburante per motori a scoppio. Le sole vendite di terreni agricoli in Africa dell’ultimo anno ammontano per un terzo a terreni destinati a questo tipo di raccolti.
La Jatropha è una nuova pianta che viene promossa in Africa e Sud America come un aiuto per i piccoli coltivatori, produce olio facilmente convertibile in bio-fuel. La grande resa si trasforma però subito in consumi massicci di acqua e di pesticidi mentre i consorzi agrari vendono a vagonate semi di questa nuova “rivoluzione Verde” in paesi dove la fame è endemica, per cui diventa necessario importare cereali e alimentari dall’estero, sovente sotto forma di aiuti altre volte acquistati con maggiore debito. Indovinate chi paga, e indovinate chi ci guadagna.

Secondo esempio: l’aumento della popolazione. Avrete sentito dire che si proietta la crescita della popolazione mondiale oltre i 9 miliardi, secondo alcune stime, peraltro controverse e non certe, per la metà del presente secolo. Nove miliardi che ogni giorno si dovranno sedere da qualche parte a mangiare qualcosa. Anche questo problema è sempre stato rinviato al futuro fino a che non si presenta l’ennesima “crisi da aumento di popolazione”.
La soluzione rapida e definitiva è alla portata: basta mettersi a produrre massicciamente cibi geneticamente modificati che resistono ai parassiti, usano solo certi pesticidi e dovrebbero aumentare la resa: chi si oppone agli OGM farà così la figura dell’ecologista sentimentale, egoista e senza cuore che per le sue fisime - “non scientificamente provate” direbbe Veronesi – causa la fame dei poveretti…Intanto Monsanto ci fa un figurone. Peccato che la realtà sia completamente un’altra.

Terzo: I crescenti prezzi agricoli alimentari. La risposta qui è scambiare quantità con qualità. Si forniscono alimenti scadenti ma di massa ai più poveri, sempre provenienti da cibi molto trattati e industrializzati. Troverete sempre abbondanza di fast-food nei quartieri bassi, macchinette distributrici nelle fabbriche, merendine/immondizia nelle scuole. Il fatto è che i pochi che lavorano duro devono mangiare con poco e velocemente, mentre chi non lavora ha bisogno di ridurre al massimo la spesa alimentare. Aggiungi la mancanza di cultura, gli slogan fasulli piantati ad arte dalla pubblicità ingannevole e dagli “esperti” televisivi prezzolati, ed ecco che la povertà nutritiva ha tutti i sostegni che necessita; i signori del fast-food sono maestri di cibi saporiti ed economici.
I governi dal canto loro continueranno sempre a finanziare con aiuti di Stato carni, latte e pollame per rassicurare il grande pubblico con la presenza di alimenti familiari sulla tavola, anche se l’evidenza scientifica e dei fatti ha provato da tempo che questi consumi in eccesso siano malsani e apportatori di patologie degenerative. Lo continuano a fare perché l’industria alimentare li appoggia e finanzia completamente attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali dei politici, e questo vale per tutti gli schieramenti e partiti indistintamente. Si sta già configurando infine una pseudo-Linea Verde nei fast-food per giovani ed ecologisti dilettanti, a base di banco delle insalate, burger alla soia OGM e ben presto avremo pannelli solari ed eliche eoliche vicino alla grande M a forma di tette appetitose simbolo di McDonald’s.

Quarto: Le riserve di pesce in esaurimento. Enormi navi-officina solcano i mari espellendone i piccoli pescherecci, esaurendo le scorte e massacrando le riserve di piccoli pesci in crescita col metodo della pesca di massa industrializzata. Su di esse il pescato è lavorato in catene di produzione fino al prodotto pronto surgelato magari anche precotto. Questa politica estrattiva produce immani squilibri ambientali e sprechi, con conseguente impoverimento del patrimonio ittico. Una seria politica di autocontrollo della pesca con metodi e calendari precisi permetterebbe di conservare il patrimonio di pesci in riproduzione, ma onde tenere altissimi i ricavi bisogna invece allarmare il pubblico con le false notizie per cui l’industria ha già pronta la nostra salvezza: il pesce OGM! Pronto su ogni tavola, le ultime pastoie e scrupoli dei tradizionalisti (oh come son lenti, questi antimodernisti e antiprogressisti, non vedete che il mondo ha fame e noi grandi forze del Progresso lo sfameremo?) cadono in fretta, tra poco FDA (Ministero dell’Agricoltura USA) approverà senza riserve. Avrete salmoni a crescita rapida, dimezzata come tempi e di maggiori dimensioni; magari poi lo scienziato del progresso inarrestabile penserà ad un nuovo modello di salmone con le zampe in modo da uscirsene dall’acqua da solo, così avremo pescatori in esubero a cui penserà la cassa integrazione mentre i salmoncini tutti in fila se ne entreranno nelle fabbriche automatizzate, sulle loro zampine. E’ un sogno, per ora, ma presto... Un maiale più umanizzato anche per farne organi simil-umani da trapiantare (mi raccomando anche la faccia, signori politici!) ed una capra da latte chimicamente simile a quello umano sono già in fase sperimentale avanzata. Aspettiamoci di vedere dei bimbi brucare l’erba nelle aiuole del giardino di casa, e bimbi molto, molto ubbidienti che si muovono tutti insieme, come un gregge…
E’ importante che tutti coloro i quali nutrano una qualche preoccupazione per il futuro del pianeta, per la qualità di vita e di alimentazione umana non permettano a questi argomenti di scivolare nel dimenticatoio o nelle chiacchiere da bar o peggio nelle polemiche televisive. Si dovranno scoprire nuove maniere di comunicazione in modo anche di trasmettere al pubblico una nuova educazione alimentare non più fondata sul “mangiare di tutto un po’” perché in realtà l’industria decide quel “tutto” e lo incanala verso le sue precise scelte di profitto, facendoti poi credere che “si è sempre mangiato così”. Questa è la grande opportunità che ci sta dando la Grande Crisi in atto ora e per molto tempo ancora. Se no, a che servono le crisi, se non a riflettere?


di Roberto Marrocchesi

07 dicembre 2010

Perdasdefogu, Italia. No: Israele



Ve l’immaginate un centravanti della nazionale condannato a 74 frustate perché consumatore di oppio o cocaina? E ve l’immaginate una sua amante impiccata per aver assassinato la moglie dello stesso calciatore ed aver reso orfani i suoi figli?
I nostri saggi notisti ne parlano con ampi titoli: “Medioevo”. “Barbarie”.
Ve l’immaginate un’iniezione letale a una donna condannata a morte due mesi fa da un tribunale degli Stati Uniti perché ha ucciso la moglie del suo amante?
I nostri saggi notisti ne parlano con un piedino a fondo pagina, con una cronaca stretta stretta dell’evento.
Questa la sintesi dei due pesi e delle due misure che i nostri gazzettieri utilizzano per descrivere lo stesso reato in due diversi angoli del mondo: in Iran e negli Usa.
Nulla di nuovo.
Evidentemente l’iniezione letale - o magari la camera a gas - è, per costoro, molto più “umana” dell’impiccagione. E, poi, quelle frustate... Chi mai accetterebbe che a una superstar, a Balotelli o a Pazzini, possa essere inflitta una pena tanto bieca?
Per non parlare della lapidazione - non inferta, ma tuttavia dichiarata a parole - per una donna non soltanto adultera, ma assassina, la famosa Sakineh, tanto cara a Frattini e ai buonisti del BelPaese.
Scandalo, scandalo, scandalo.
Nessuno scandalo, però, nello stesso Italico suolo, per una notiziuola di tutt’altro spessore, finita tra le note brevi a margine oppure semplicemente censurata dai grandi mezzi “indipendenti” di informazione.
Eppure quella notiziuola piccola piccola non è poi mica da prendere sottogamba...
Ve la raccontiamo noi.
Sapete, Israele non è molto benvisto dall’altra parte del Mediterraneo. E’ un fatto assodato. Anche tanti italiani di un certo peso - per carità: non si tratta né di nazimao né di rossobruni... Loro non valgono - da Enrico Mattei ad Aldo Moro a Bettino Craxi preferivano, al loro tempo, l’amicizia con i Paesi arabi o musulmani... ma mal gliene incolse.
Invece da questa parte del mare, nel nord-ovest, è ormai un tripudio di shalomelecchi per Tel Aviv. In particolare gli ultimi inquilini della Farnesina e di via XX settembre non hanno mai mancato di esternare tutta la loro solidarietà ad un’entità statale costruita sulla terra di un altro popolo, il palestinese.
Ma così va il mondo.
Quello che non va è appunto il senso, sottinteso dalla rapida notiziuola apparsa-scomparsa nelle pagine della stampa italiota. Eccola:
“L’aviazione militare israeliana - non più gradita in Turchia - è ora ospitata per le sue esercitazioni nella base Nato a Perdasdefogu, in Sardegna”.
Vi pare un’informazione piccola-piccola?
Trascurabile?
Nient’affatto.
I governanti della colonia-Italia scherzano col fuoco. Pensano che il diktat di Jalta che ha imposto sulla Palestina la fondazione dell’entità stale sionista abbia un valore perenne.
Dimenticano che l’Italia è già stata teatro di una guerra sotterranea fatta di assassinii (come quello a Roma di Wail Zwaiter) e di stragi (Piazza Fontana, stazione di Bologna), tutti riconducibili alla guerra israelo-palestinese.
Ma se ne fregano. Che importa rischiare atti di terrore, nuove Ustica, con vittime italiane...
Genuflettersi al Grande Padre (quasi) Bianco di Washington e al suo alter ego di Tel Aviv è un dovere imprenscindibile.
Diritti, l’Italia, non ne ha.

di Ugo Gaudenzi

06 dicembre 2010

Gli economisti ovvero i diabolici sacerdoti dei bankester


“Gli economisti politici”, secondo Stephen Zarlenga nel libro The Lost Science of Money, “sono diventati il sacerdozio della nuova aristocrazia Bancaria, spesso prestandosi come apparato propagandistico per coprire la struttura del potere monetario. Essi hanno portato avanti idee sbagliate e cortine fumogene sulla natura del denaro, concetti primitivi per facilitare il radicamento dei banchieri”.

Zarlenga dà la colpa della distruzione dell’economia mondiale all’”establishment finanziario e ai loro economisti” e definisce questi ultimi come i portavoce del ‘Potere del Denaro’. La ragione per la quale il corrotto sistema bancario moderno è durato così a lungo nonostante le sue pessime prestazioni è perché gli economisti professionisti non hanno quasi mai puntato il dito contro i banchieri né hanno mai messo in discussione la creazione disonesta del denaro privato basato sul debito o la truffa scandalosa del prestito a riserva frazionaria.

Gli economisti vengono formati in facoltà universitarie finanziate dalle banche dove vengono completamente indottrinati alle teorie monetarie. Il Potere del Denaro garantisce che gli economisti siano addestrati metodicamente nel linguaggio e nel pensiero economico e siano programmati a recitare la versione ufficiale e accettata da tutti. Il giochetto prende il nome di manipolazione e gli argomenti controversi sono ignorati o distorti. Non viene mai permessa una corretta valutazione della storia e della funzione del sistema bancario perché verrebbero a galla alcune sconvolgenti verità. Zarlenga paragona gli economisti politici ai medici medievali che “teorizzavano sul funzionamento del corpo ma che non avevano mai il coraggio di sezionarlo e scoprire quello che realmente stava avvenendo”.

Proprio come i muli rappresentano la sterile prole di asini e cavalli, gli economisti rappresentano la sterile progenie dei bankster e dei corporativisti. Essi sono impotenti quando si tratta di generare nuovi pensieri o nuove idee al di fuori dell’attuale sistema monetario. Gli economisti sembrano essere letteralmente incapaci di apportare una significativa innovazione monetaria e non riescono davvero a concepire altre alternative sistemiche oltre a quelle che sono state inculcate loro alle scuole dei bankster. Anche se si considerano una specie diversa rispetto ai bankster, essi sono in realtà la stessa cosa. Se nostro padre fosse una scimmia sarebbe impossibile nascondere la nostra discendenza: entrambi avremmo grosse orecchie ed emetteremmo gli stessi suoni rauchi. Gli economisti potrebbero contestare, fare la voce grossa e spesso apparire critici nei confronti dei bankster ma con tutte le loro grida da scimmia non sono in grado di lanciare un unico forte ringhio da animale predatore. Quando gli economisti si presentano in TV o alla radio o scrivono sulla carta stampata, questi ‘esperti’ discutono animatamente e si contraddicono a vicenda snocciolando soluzioni contrastanti per risolvere le nostre disgrazie monetarie. Tuttavia, i loro sermoni raramente si avventurano oltre i confini del sistema monetario esistente, con grande gioia dei bankster, perché gli economisti non mostrano alcuna propensione nel mettere in dubbio i fondamentali di una pratica disonesta vecchia di secoli come la creazione privata del denaro, basato sul debito e gravato da interesse. Le loro discussioni possono essere accese e animate ma, in sostanza, sono del tutto inutili. Gli economisti assomigliano molto alle fazioni Lato Stretto e Lato Grosso dei Viaggi di Gulliver che discutevano ferocemente sul modo più corretto di rompere un uovo – dalla parte della punta larga o dalla punta stretta. Questa contesa era così violenta e sanguinosa che portò a sei sommosse con un gran numero di vittime, tra cui l’Imperatore di Lilliput. E’ così anche per le sterili polemiche degli economisti.

Gli economisti sono anche stati oggetto di critiche provenienti nientemeno che dal pungente ingegno dello scrittore George Bernard Shaw che diceva: “Se tutti gli economisti fossero stesi uno accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. Il consulente di investimenti Peter Lynch distorce questa citazione in maniera un po’ più brutale: “Se tutti gli economisti del mondo fossero stesi uno accanto all’altro, non sarebbe una brutta cosa”.

Mentre Zarlenga è duro con quegli economisti che ballano la musica dei bankster e promuovono la confusione e la divisione tra l’opinione pubblica in generale, egli elogia quegli economisti di libero pensiero che hanno il coraggio di parlare apertamente dei fallimenti e degli inganni criminali dell’industria bancaria. Purtroppo, in un mondo dominato dai bankster, gli economisti illuminati sono trattati in modo molto diverso rispetto alla nidiata dei bankster. Su questi ultimi, Zarlenga dice: “Alcuni dei più ignoranti e addirittura dei più pazzi di loro [come Bonamy Price] hanno ricevuto incarichi importanti mentre le menti migliori sono stati messe da parte o ignorate dal potere del denaro”.

Mi sono imbattuto in un tipico esempio di ignoranza economica in un recente articolo pubblicato sull’Irish Independent del professor Stéphane Garelli dell’Università di Losanna (http://www.independent.ie/business/world/emerging-economies-hold-worlds-purse-strings-2349528.html). Il professor Garelli è un economista ed è attualmente direttore del World Competitiveness Center presso l’IMD Business School di Losanna che pubblica l’annuale World Competitiveness Yearbook. Garelli vanta un elenco impressionante di titoli (http://www.garelli.ch/english/cv_complet.htm) ma non si può fare a meno di chiedersi se il bravo professore possa essere stato formato appena un filo sopra il suo livello di intelligenza.

Il professor Garelli (citando Raymond Barre, un altro economista) afferma: “Una delle poche cose che sappiamo sull’economia è che ha dei cicli – il problema è che non sappiamo quando questi cicli iniziano, quanto durano e per quale motivo terminano”. Garelli prosegue: “Il marchio infamante dell’economia moderna è che ancora non conosciamo il modo di evitare le recessioni e la disoccupazione”.

Allora, professore, ho alcune notizie per lei. Le recessioni sono causate dai banchieri centrali che, di proposito, riducono la moneta in circolazione ritirando i prestiti esistenti e rifiutandosi di erogarne altri. Se non mi crede, legga Milton Friedman, che ha ricevuto il Premio Nobel per l’Economia. Il dottor Friedman sostiene pubblicamente che la Federal Reserve ha provocato deliberatamente la Grande Depressione degli anni Trenta: “La Fed è stata ampiamente responsabile della trasformazione di quella che poteva essere una comune recessione, anche se forse abbastanza grave, in una catastrofe immane. Anziché utilizzare i propri poteri per compensare la depressione, ha guidato una riduzione della quantità di moneta di un terzo dal 1929 al 1933... Milton Friedman, Two Lucky People, p. 233.

Quando gli fu domandato quale fosse una delle cause delle gravi depressioni economiche, il dottor Friedman rispose: “Non conosco nessuna grave depressione, in nessun paese e in nessuna epoca, che non sia stata accompagnata da una drastica diminuzione della quantità di moneta e, allo stesso modo, di nessuna drastica riduzione della quantità di moneta che non sia stata accompagnata da una grave depressione”.

E’ incredibile che il professor Garelli debba ammettere di non conoscere la causa delle recessioni. Ed è allo stesso modo incredibile che debba anche ammettere di non sapere quando i cicli economici inizino, quanto durino o il motivo per il quale terminino. Essi sono pianificati, caro professore, pianificati e controllati dai banchieri centrali. Ci sono prove in abbondanza che confermano tutto questo. I pezzi grossi del sistema bancario internazionale decidono dove ci saranno le bolle e quando esploderanno. E’ questo il modo con cui diventano straricchi: mettono a disposizione una grande quantità di denaro (o meglio, di credito) ad un prezzo conveniente e quando la gente è eccessivamente indebitata rifiutano altri prestiti, e pignorano gli insolventi.

Dato che il 97% del denaro nel mondo viene creato dal debito, qualunque prestito restituito fa diminuire la quantità di denaro in circolazione. E quando non vengono concessi altri prestiti, la quantità di denaro circolante scende drammaticamente, con effetti negativi sulle imprese e sull’economia in generale. Questa riduzione intenzionale dell’offerta monetaria porta ad estesi fallimenti di aziende, un elevato tasso di disoccupazione, pignoramenti e forti sacrifici all’interno della comunità. D’altra parte, una grande ricchezza viene trasferita dai mutuatari insolventi al bankster. E’ un palese atto criminale e una truffa sistematica.

I bankster sono stati a volte sorpresi nel vantare le proprie capacità di provocare recessioni e depressioni e di come possano impossessarsi delle proprietà dei mutuatari per pochi spiccioli. Queste pratiche malavitose vanno avanti da generazioni. L’emissione privata del denaro nazionale ha dato un incredibile potere ai banchieri centrali, un potere così grande che addirittura i governi democraticamente eletti ne sono sottomessi. I governi non controllano l’economia: sono gli onnipotenti bankster a creare il denaro, a stabilire i tassi di interesse e decidere chi può avere un prestito e chi no.

Thomas Jefferson, pienamente consapevole del potere dittatoriale delle banche centrali private, fu determinante nel fare respingere al Congresso il rinnovo dello statuto della First Bank of the United States nel 1811. Nathan Rothschild, che operava da Londra, minacciò di colpire la giovane repubblica con una guerra e un disastro finanziario se lo statuto della banca non fosse stato rinnovato. Lo statuto non fu rinnovato e, infatti, gli Stati Uniti si ritrovarono ben presto coinvolti nella Guerra del 1812, con tutto il suo strascico di morti e difficoltà finanziarie. E’ questa la preoccupante supremazia degli insaziabili bankster internazionali.

Per ristabilire la normalità finanziaria, nel 1816 il Presidente Madison garantì uno statuto di 20 anni ad una nuova banca centrale, la Second Bank of the United States di proprietà privata. Ma poi, nel 1828, arrivò un altro presidente che condivideva la grande sfiducia e il disprezzo di Jefferson per le banche centrali e i bankster, Andrew Jackson, un ex generale dell’esercito soprannominato affettuosamente la ‘Vecchia Quercia’, un eroe nazionale della Guerra del 1812.

Jackson si rifiutò di rinnovare lo statuto della Second Bank of the United States, ponendo addirittura il veto al Congresso che ne aveva approvato il rinnovo in precedenza. Nicholas Biddle, presidente della banca, minacciò Jackson che avrebbe imposto una recessione al paese se il presidente non avesse tolto il veto. Jackson si rifiutò ancora. Biddle, mantenendo la parola, ritirò i prestiti bancari e negò l’erogazione di nuovi prestiti. L’offerta monetaria negli Stati Uniti si ridusse drasticamente.

Ben presto, la recessione architettata da Biddle avvolse l’intero paese. Le imprese fallirono e la disoccupazione aumentò. Ma la ‘Vecchia Quercia’ non aveva intenzione di cambiare idea, anche dopo che un presunto sicario, un inglese di nome Richard Lawrence, tentò di ucciderlo nel gennaio 1835. Entrambe le pistole dell’assassino fecero cilecca e la leggenda narra che la ‘Vecchia Quercia’ continuò a fustigare l’uomo con la sua verga finché non fu trattenuto dai suoi stessi aiutanti. Jackson incolpò i Rothschild per l’attentato. Ad ogni modo, il deciso Jackson ebbe la meglio sulla banca e il suo statuto non fu rinnovato. Ci vollero all’incirca 77 anni prima che i bankster potessero finanziare un’altra banca centrale controllata privatamente con la costituzione della Federal Reserve nel 1913.

E’ difficile ottenere prove documentate dell’ambiguità dei bankster nel causare recessioni per arricchirsi a spese della gente. Ma abbiamo una comunicazione di servizio privata dell’Associazione dei Banchieri Americani del 1891, il cui contenuto è per la verità registrato in un atto del Congresso datato 29 aprile 1913. Si tenga presente che questa comunicazione di servizio fu scritta nel 1891, prova inconfutabile che il Panico del 1893 fu pianificato dai bankster con un paio di anni di anticipo: “Siamo ad autorizzare i nostri addetti ai prestiti degli Stati Occidentali ad erogare prestiti sulle proprietà e per somme di denaro ripagabili entro il 1° settembre 1894. Nessuna scadenza importante deve superare questa data.” “Il 1° settembre 1894 rifiuteremo categoricamente tutti i rinnovi di prestito. In quel giorno, richiederemo la restituzione di tutto il nostro denaro, pena il pignoramento dei collaterali.
“Le proprietà ipotecate diventeranno nostre (il denaro sarebbe diventato scarso in anticipo e le restituzioni sarebbero diventato generalmente impossibili). Pertanto saremo in grado di acquisire, ad un prezzo a noi confacente, i due terzi delle fattorie ad ovest del Mississippi ed altre migliaia di fattorie ad est di questo grande fiume.” “Saremo addirittura in grado di possedere i tre quarti delle fattorie occidentali oltre a tutto il denaro del paese. Gli agricoltori diventeranno dei meri affittuari, proprio come Inghilterra”.
(Fonte – http://www.michaeljournal.org/bankphilo.htm )



Quindi vede, mio caro professor Garelli, le recessioni sono causate deliberatamente da avidi bankster per proprio profitto. A questi imbroglioni non importa nulla degli stenti e delle sofferenze che la loro avidità infligge alle persone. Essi sono cospiratori e ladri e con i loro comportamenti disonesti rivelano la filosofia criminale su cui è fondato l’intero sistema bancario. Questa spregevole filosofia prospera ancora a Wall Street e in tutto il mondo ed è in questo che consiste l’origine di tutti i nostri problemi economici globali.

La gente si aspetta che gli economisti tengano a freno i bankster e li mantengano sulla linea dell’onestà – beh, almeno più onesti di quello che vogliono essere. Si aspetta anche che gli economisti diano suggerimenti ai governi su pratiche economiche oneste, efficaci e socialmente gratificanti. Ma lei, professor Garelli, e la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, avete deluso la gente. Che sia per codardia, ignoranza o disonestà, avete preso le parti dei bankster e avete permesso a questi malavitosi di mettere in schiavitù la gente con un debito eterno assolutamente inutile. La vostra mancanza nel mettere in dubbio la spudorata disonestà del sistema bancario moderno e la vostra riluttanza ad offrire alternative etiche ha impedito la nascita di un giusto ed equo sistema di creazione del denaro, un sistema incorruttibile che avrebbe portato a tutti libertà, opportunità e benessere.

Per fortuna, non tutti gli economisti mangiano alla tavola dei bankster. Ci sono molti riformatori economici che sono degni di elogio e attenzione. Mentre davo una rapida occhiata agli appunti per questo articolo, mi sono imbattuto nel nome di Larry Bates, un ex docente di economia, presidente di banca per undici anni, membro della Camera dei Rappresentanti del Tennessee, presidente della Commissione sul Sistema Bancario e il Commercio ed autore di un bestseller, The New Economic Disorder.

Bates dice: “Il più grande shock di questo decennio è che è sempre più persone perderanno ancora più denaro rispetto a qualunque altra epoca della nostra storia. Ma il secondo shock più grande sarà l’incredibile quantità di denaro che, nello stesso periodo, un gruppo relativamente piccolo di persone guadagnerà. Vedete, nei periodi di sconvolgimento economico, nei periodi di crisi economica, la ricchezza non viene distrutta, viene semplicemente trasferita.”

Bates prosegue:

“La Federal Reserve in realtà è più potente del Governo Federale. Più potente del Presidente, del Congresso e delle Corti di giustizia. La Federal Reserve stabilisce l’ammontare della rata dell’auto del cittadino medio, l’ammontare del mutuo della sua casa e se questi avrà o meno un lavoro. E vi dico... questo è il controllo totale...”

Larry Bates ha centrato la questione. “Controllo totale”. I bankster vogliono mantenere il controllo totale. Vogliono che la gente continui a vivere nell’ignoranza. Non vogliono che sappiano che esiste un’alternativa più brillante e che porta più benefici. Vogliono che tutta l’umanità sia loro sottomessa in un’eterna schiavitù del debito. E, soprattutto, sono terrorizzati dal fatto che la gente in qualche modo si possa rendere conto della loro scandalosa connivenza e criminosità.

Oggi quello di cui abbiamo bisogno sono più economisti che utilizzino la loro conoscenza e la loro formazione per mostrare alle gente come si possa togliere ai bankster questo disonorevole potere e come si possano formulare nuovi metodi di creazione del denaro che possano liberare le persone dall’inesorabile giogo del debito e dare loro un nuovo diritto di libertà, felicità e abbondanza.
di Gabriel Donohoe

Gabriel Donohoe vive in Irlanda ed è uno scrittore, un istruttore di salute naturale e consigliere sciamanico. A volte utilizza lo pseudonimo di Fools Crow

Fonte: http://foolscrow.wordpress.com

04 dicembre 2010

Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia di Gabriele Battaglia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"

Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

di Gabriele Battaglia

03 dicembre 2010

La democrazia come bene comune





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Nell’Occidente capitalistico non esiste alcuna democrazia. Preve propone di superare la dicotomia marxista tra struttura e sovrastruttura, avanzando la tesi olistica che la società dev’essere pensata come un intero. Democrazia politica e libertà individuali non sono sovrastrutture ma attengono alla fondazione stessa di un sistema sociale che pretenda di basarsi sulo bene comune.

1. La democrazia oggi. Non c’è nessuna democrazia. Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno

In una vignetta di Altan il suo solito personaggio surreale con il baschetto afferma solennemente: “Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno”. Partirò da questo motto memorabile per analizzare il problema della democrazia in quattro punti.
1) Oggi non c’è nessuna democrazia. Democrazia significa, in senso statico, potere del popolo, ed in senso dinamico, accesso del popolo al potere. I due significati non sono sovrapponibili. Chi si accontenta del significato statico, dirà che viviamo in democrazia (sia pure ovviamente limitata, imperfetta, minacciata, ed altri aggettivi compromissori che hanno come compito quello di impedire un’analisi radicale della questione), perché il popolo è coincidente con il corpo elettorale, il corpo elettorale può votare a scadenze regolari, se qualcuno si astiene la colpa è solo sua perché rinuncia unilateralmente ad un diritto che gli è garantito, ci sono inoltre anche garanzie per il dissenso radicale (si possono presentare, se vogliono, anche Luca Casarini e Alessandra Mussolini), ed insomma viviamo nel migliore dei mondi possibili. Vi-va Bob-io, vi-va Sarto-ri, vi-va il grande U-li-vo!
Chi passa invece al significato dinamico, si renderà conto che l’accesso del demos al suffragio universale ed alle garanzie liberali per il dissenso (più esattamente, per il raggio del dissenso ferramente perimetrato dalla dittatura del partito unico del politicamente corretto), non ha assolutamente significato l’accesso del demos alla sovranità politica. Sovranità politica significa sovranità decisionale sui temi fondamentali della propria esistenza sociale, e non solo sulla scelta simbolica se consentire veri e propri matrimoni omosessuali oppure solamente dei cosiddetti PACS. Questa sovranità decisionale non esiste. Per questa ragione l’affermazione per cui non c’è nessuna democrazia non è affatto una sparata estremistica di gruppettari alienati, ma una sobria e scientifica conclusione che possiamo tirare dalla congiuntura storica presente.
2) Il trucco c’è. Abbiamo detto che il termine democrazia è inscindibile dalla decisione politica sovrana. In questo modo (ed è ovviamente una scelta) respingo la tesi per cui la democrazia è semplicemente un metodo “neutrale” rispetto ai valori etico-politici per prendere decisioni a maggioranza. Se accettiamo questa definizione, diventa “democratica” la decisione di consentire a maggioranza alla propria messa in schiavitù, alla rinuncia della propria sovranità nazionale, via via fino al taglio delle teste, al rogo delle vedove ed al genocidio degli stranieri. A mio avviso, tutti i tentativi di definire la democrazia in termini di metodo neutro che prescinde dai contenuti vanno incontro a contraddizioni insanabili. La democrazia deve essere per forza “protetta” da una cintura di sicurezza etico-politica che storicamente ha sempre assunto due forme variamente interconnesse: una cintura di sicurezza religiosa e una cintura di sicurezza filosofica (ispirata in generale ad una interpretazione “veritativa”, e quindi non relativistica, del diritto naturale). Il cosiddetto “diritto costituzionale”, visto da un punto di vista filosofico, è per l’appunto questa cintura di sicurezza consapevolmente sottratta al puro gioco delle contingenti maggioranze e minoranze. Chi identifica la democrazia con il cosiddetto relativismo filosofico dei valori (Hans Kelsen, Richard Rorty, eccetera) non sa letteralmente che cosa dice, perché quanto dice è storicamente controfattuale.
La democrazia implica dunque effettività reale della decisione politica democratica sovrana. Se non c’è sovranità, dunque, non c’è democrazia, ma solo un gioco di simulazione e di legittimazione, e nient’altro.
Oggi la sovranità della decisione democratica non c’è. E non c’è per due ragioni. Elenchiamole separatamente, anche se in realtà fanno tutt’uno.
La prima ragione è il dominio dei mercati e del capitale finanziario transnazionale (o multinazionale) Qualunque decisione prendano i popoli o i partiti che si presentano alle elezioni (non importa se di centro, sinistra e destra, la cui differenza c’è, ma solo nei due parametri minori della simbologia sportiva e della torchiatura differenziata fra ceti sociali interni) viene svuotata automaticamente da entità metafisiche (direbbe Marx, “sensibilmente soprasensibili”) come i mercati finanziari, le agenzie di rating, eccetera. Questo dà luogo ad una situazione di vera e propria “post-democrazia” (cfr. C. Crouch, Post-democrazia, Laterza, Bari-Roma 2004).
In seconda ragione è il dominio imperiale americano, la cui rete di basi militari sparse per il mondo comporta un ricatto atomico permanente, che svuota di fatto ogni sovranità nazionale. Senza sovranità militare non c’è infatti sovranità nazionale. Il pacifismo generico e salmodiante ha come ragion d’essere storica proprio il non far capire questa elementare verità (cfr. C.Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2004).
3) Il trucco c’è e si vede. La cosa curiosa di questo doppio trucco (svuotamento economico-finanziario, svuotamento imperiale-militare) è che questo trucco è sotto gli occhi di tutti. E’ sotto gli occhi di tutti che la gente è invitata a tifare a intervalli regolari per Schröeder contro la Merkel, Prodi contro Berlusconi, eccetera, ma che poi a urne chiuse le regole vengono dettate dai mercati finanziari, il cui comandamento unificato è: proseguire nella finanziarizzazione del capitale, smantellare lo stato sociale, incrementare la flessibilità e la precarietà del lavoro, eccetera. Nello stesso tempo, si viene talvolta vagamente a sapere che le truppe americane stoccano armi chimiche a Sigonella o ad Aviano (a sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale!), ma questo non fa neppure parte oggi del dibattito politico che il circo mediatico manipolato devia verso il tema epocale se Previti abbia o no rubato (la mia risposta: è chiaro come il cristallo che ha rubato, ma non potrebbe importarmi di meno). Bisogna allora passare al quarto punto.
4) Non gliene frega niente a nessuno. E’ questo il solo punto teorico veramente problematico ed interessante. Che non ci sia democrazia intesa come esercizio di una decisione politica sovrana, che il trucco ci sia, e che si veda come alla luce del giorno, è infatti talmente evidente da non essere neppure molto interessante. Il solo vero problema teorico è quello di sapere perché non gliene frega niente a (quasi) nessuno.

2. Il problema delle radici storiche e sociologiche dello svuotamento consensuale passivo della democrazia

Spero che a questo punto sia chiaro al lettore quale sia il centro della questione. Il centro della questione non sta nello “smascheramento”, nello spiegare cioè perché la democrazia è stata svuotata da due elementi ad essa esterni, la dittatura del mercato (sostenuta dalla complementare dittatura del clero mediatico, l’unico vero e proprio clero rimasto) e la dittatura imperiale americana. Ci sono a disposizione nelle biblioteche centinaia di ottimi libri “smascheratori”, per cui resta davvero poco da aggiungere. Il solo problema teorico interessante sta allora nello spiegare le radici materiali dell’indifferenza generalizzata verso questo duplice svuotamento. Se non si chiariscono spregiudicatamente queste radici materiali è del tutto impossibile ripartire veramente. In questo paragrafo cercherò di elencare due probabili ragioni di questa indifferenza generalizzata di massa, che utilizzando il linguaggio di Altan definirò come “non gliene frega niente a nessuno”.
In primo luogo, ha probabilmente ragione Gianfranco La Grassa, che nei suoi due ultimi ottimi libri ha chiarito come la forma storica normale in cui avvengono le lotte decisive fra le classi non è mai lo scontro diretto fra le classi fondamentali dei dominanti e dei dominati (padroni di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia e proletariato, capitalisti e operai, eccetera), ma è quasi sempre lo scontro fra settori delle classi dominanti con interessi strategici divergenti. Solo quando quest’ultimo tipo di scontro si apre, si apre anche un “varco provvisorio”, una brevissima “finestra di opportunità storica” anche per le classi dominate. A mio avviso, La Grassa ha perfettamente ragione, ed appunto per questo quanto dice è completamente ignorato (o frainteso, il che di fatto è lo stesso) da un popolo ideologizzato di sinistra che cent’anni di marxismo (marxismo = positivismo per poveracci) ha abituato a credere che sia sempre in presenza di un vero scontro storico diretto fra dominanti (borghesi) e dominati (proletari). Questo popolo ideologizzato non vuole che gli si dica la verità, ma vuole continuare ad essere tossicodipendente dalla droga dell’illusione edificante. Se si riflette anche solo un poco, si capirà il perché dello svuotamento della democrazia e del perché questo avviene oggi in piena e generalizzata indifferenza.
I dominanti, infatti, per il momento sono ancora uniti nell’essenziale, e per questa ragione non si sono ancora aperti varchi per un eventuale intervento strategico dei dominati. Certo, so bene che vi sono molti conflitti economici fra USA, Europa e Giappone, e non li illustro in dettaglio dandone scontata la conoscenza. Ma questi conflitti economici non sono ancora purtroppo diventati veri conflitti geopolitici (cfr. C. Preve, Filosofia e geopolitica, Edizioni All’insegna del veltro, Parma 2005). Non essendo ancora diventati conflitti geopolitici l’unità della classe mondiale dei dominanti si fa ancora politicamente e geopoliticamente sulla base del comune consenso alla subordinazione all’impero militare e culturale americano. Non si vede ancora purtroppo un vero e proprio potere di coalizione Parigi-Berlino-Mosca-Pechino (o altre diverse coalizioni). Dicendo purtroppo segnalo che le due grandi rivoluzioni socialiste novecentesche (Russia 1917 e Cina 1949) sono entrambe avvenute grazie a fenomeni primari di conflitti destabilizzatori fra dominanti, in cui si sono inserite volontà politiche organizzate di dominati e non certo solo fenomeni movimentistici destinati regolarmente sempre a rifluire dopo una promettente primavera. In breve, fino a che non si apriranno veri conflitti fra dominanti (e ce ne accorgeremo non solo in base ad irrilevanti processioni di salmodiatori ma in base a fatti reali, come l’espulsione delle basi militari americane dall’Europa o la messa in atto di veri patti militari strategici tipo Russia-Cina, Cina-India, Russia-Iran, eccetera) bisogna solo aspettare, come direbbe Edoardo De Filippo, che passi la nottata e venga il mattino. So che tutto questo è odioso all’attivismo da formichine del militante ideologizzato tipo, ma non so che cosa farci. Se volete che conti balle, lo farò. Se invece volete che dica quello che penso, ebbene, questo è quello che penso.
In secondo luogo, e qui ritorno al già citato in precedenza Colin Crouch, la democrazia novecentesca (cfr. Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995) è stata sempre una democrazia organizzata di sindacati e partiti che esercitavano una sovranità reale, sia pure parziale, sul rapporto fra economia e politica. Ma questa sovranità si esercitava sulla base della sovranità nazionale. La decadenza di questa sovranità nazionale dovuta al sempre maggiore dominio di istituzioni sovranazionali ha portato allo svuotamento non tanto della democrazia in generale, ma di quel particolare tipo di democrazia novecentesca nata sotto la costellazione del compromesso sociale caratterizzato dal nesso fra produzione di massa fordista, integrazione consumistica di massa resa possibile proprio da questo tipo di produzione di massa, ed infine messa in atto di sistemi sociali di stato del benessere con i suoi due parametri fondamentali (sanità e pensioni). La fine di questo periodo storico (la cosiddetta rivoluzione neoliberista, il cui carattere rivoluzionario non muta anche se la si chiama più correttamente “controrivoluzione”) ha comportato uno sbriciolamento individualistico della società che trasforma i cittadini associati in consumatori individualizzati. In questo nuovo scenario atomizzato è assolutamente normale che anche se il trucco c’è, e si vede, non gliene freghi più niente a nessuno. E non gliene frega più niente a nessuno perché nessuno pensa veramente più di poter cambiare le cose con un voto a liste elettorali formalmente rivali ma unificate da una comune sottomissione allo Standard and Poor’s o alle classifiche del Financial Times. Restano ovviamente “nicchie” di militanti testimoniali o di friggitori di salsicciotti in feste di partito, ma si tratta di nicchie simili a quelle formate da amatori di auto d’epoca, pedofili informatici, studiosi di sanscrito, parlatori di esperanto, praticanti sport estremi ed osservatori degli UFO.
Mi limito per ora a segnalare questi due tipi di spiegazioni. Varrà invece la pena dedicare un paragrafo apposito ad una modalità ancora più importante di crisi della democrazia, la crisi della democrazia come prevalenza del demos.

3. La crisi della democrazia come prevalenza del demos

Quando la situazione ci sembra bloccata e senza uscita, la migliore cosa da fare è cambiare radicalmente ottica ed approccio. Questo non vale solo per le cose cosiddette “concrete”, ma anche per i più ardui problemi storici, filosofici e politologici. Se infatti non c’è più democrazia, e sostanzialmente non gliene frega niente a nessuno, se non a piccole minoranze testimoniali di nicchia, allora è inutile lamentarsi, smascherare, denunciare, richiamare i riottosi individualisti al senso civico, deprecare la plebe irredimibile che si occupa solo dei propri interessi materiali immediati, eccetera. Tutto questo non serve proprio a niente. E’ bene introdurre una nuova ipotesi, ed è esattamente quello che farò in questo paragrafo.
Il modo formalistico–istituzionale alla Giovanni Sartori ed alla Norberto Bobbio di concepire la democrazia deve essere abbandonato. Questo modo separa preventivamente economia e politica, funzionamento oligarchico dei mercati e tecniche elettorali, ed in questo modo, lo si noti bene, non c’è possibilità di evitare la conclusione che negli USA di George Bush c’è la democrazia mentre nella Cuba di Fidel Castro invece non c’è. E’ buffo che si pensi di poter opporsi ad un nemico accettando la sua visione del mondo filtrata nel modo apparentemente neutrale ed asettico di organizzare le categorie teoriche. In questo approccio, Blair è democratico mentre il venezuelano Chavez non lo è, perché è vero che Chavez rispetta il multipartitismo, ma è anche vero che il suo potere è parzialmente carismatico, ed il carisma diretto del leader è considerato populistico e sospetto al pensiero occidentale politicamente corretto, non importa se di destra o di sinistra (ed infatti il pensiero politico politicamente corretto di sinistra in Venezuela è contro Chavez, e fra l’alta finanza oligarchica ed il populismo carismatico preferisce la prima).
Ora, io non nascondo al lettore di preferire mille volte Fidel Castro a Bush e Chavez ai suoi oppositori oligarchici. Sono sicuro che sia così anche per la stragrande maggioranza dei lettori di questa rivista, che so però essere lettori di “nicchia”. Tutto questo però vale meno di zero se non si mettono in luce le ragioni di questa preferenza. Per quanto mi riguarda, queste ragioni non stanno certamente nella stucchevole dicotomia archeologica fra democrazia borghese e proletaria, dicotomia che (su questo punto il buon Norberto Bobbio non aveva tutti i torti) manifesta solo l’incurabile incapacità del pensiero marxista di maturare una sua propria teoria politica “performativa” (capace cioè di successo al di là del momento iniziale di mobilitazione messianica, la cui durata di vita è come quella dei cani e dei gatti, e non come quella delle tartarughe). Per questo, è bene recuperare il significato originale greco di democrazia.
Questo significato è stato precisato in modo insuperabile da Aristotele, per cui democrazia significa prevalenza del demos (prevalenza, non semplicemente potere istituzionale), ed il demos era formato dalla maggioranza dei cittadini, e questa maggioranza era anche la maggioranza dei più poveri, o quanto meno dei più svantaggiati rispetto al potere del denaro. Vista sotto questa ottica, la politica democratica era un correttivo rispetto al potere del denaro. Dove domina il denaro domina un sistema politico che correttamente i greci (infinitamente più intelligenti e meno ipocriti dei marpioni universitari e mediatici di oggi) chiamavano oligarchia, non democrazia. La democrazia non è dunque una particolare forma di governo e di stato, ma è semplicemente lo stato di prevalenza del demos, in cui il demos tramite la correzione politica democratica corregge appunto la sproporzione di potere data dal possesso di denaro.
Questa definizione di democrazia come prevalenza del demos è ignorata da tutte le bande accademiche politicamente corrette di oggi, e pour cause. E’ bene però segnalare, per chi volesse approfondire la questione, che essa è stata ripresa recentemente da Arthur Rosemberg (cfr. A. Rosemberg, Democrazia e socialismo, De Donato, Bari 1971) ed anche da Luciano Canfora (cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia e ideologia, Laterza, Bari-Roma 2004). Se proprio il lettore volesse un trittico, a fianco di Rosemberg e di Canfora segnalerei anche Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Bari-Roma 2005 in cui si “smontano” molti miti che sono ancora oggi moneta corrente presso la tribù del politicamente corretto dei semicolti occidentali in fregola di esportazione armata dei diritti umani nel mondo tenebroso degli stati-canaglia e dell’asse del male.
Il fatto è che il demos, per essere demos, deve essere politicamente organizzabile. La riduzione del demos ad atomi individuali portatori di vaghe opinioni politiche significa appunto la sua neutralizzazione politica. Certo, i greci hanno previsto molto, ma non potevano prevedere che un popolo organizzato politicamente potesse un giorno votare in massa per il monopolio del potere da assegnare ad oligarchie del denaro. La conclusione di tutto questo discorso è la seguente: la democrazia può vivere oggi solo come decisione politica sovrana (ed essa non lo è in presenza di mercati finanziari e di basi militari imperiali nel suo territorio – nessun ateniese avrebbe mai pensato di poter esercitare la democrazia con basi militari spartane o persiane sull’Acropoli), esercitata da un demos politicamente organizzato.
Lasciamo dunque le esercitazioni politologiche alla tribù dei formalisti. La politologia è la scienza dei nullatenenti. Oggi bisogna avere il coraggio di nuotare contro corrente, e di dire apertamente che la democrazia è la prevalenza del demos: i punti alti della democrazia nel mondo sono oggi, a mio avviso, la Cuba di Fidel Castro, il Venezuela di Chavez, e l’Iran di Ahmadinejad, non certo la banda di collaborazionisti americani tipo Blair e D’Alema. Detto questo, però, sarebbe stupido, o meglio idiota, o ancor meglio criminale, non far tesoro delle implacabili lezioni del novecento. E queste lezioni si compendiano tutte in un punto, che sintetizzerò così: la democrazia intesa come prevalenza del demos non è stabile, e dimostra di non poter mai diventare tale, se non riesce a garantire stabilmente (e quindi anche giuridicamente) la libertà di opinione e di espressione pubblica, individuale e collettiva, a tutti i cittadini nessuno escluso.
E come ha detto a suo tempo Rosa Luxemburg in modo geniale e definitivo, la libertà è sempre libertà di chi la pensa diversamente. Affrontiamo allora il problema spregiudicatamente.

4. Democrazia come prevalenza del demos e libertà di espressione per tutti coloro che la pensano diversamente

Nella tragicomica ondata di pentitismo scatenata dalla miserabile generazione intellettuale sessantottina (1968) domina da quasi un trentennio una generalizzata demonizzazione ed una ripetuta esecrazione della rivoluzione in quanto tale. I miserabili devono esorcizzare i loro fantasmi di quando uccidevano i poliziotti ed elaborare il lutto della loro superficiale gioventù. Per questa ragione sentono il bisogno di spingere il loro odio verso la rivoluzione fino al 1789 francese ed al 1917 russo. Il mio punto di vista è esattamente opposto: le rivoluzioni ogni tanto sono necessarie, in nome del profondissimo principio filosofico per cui quando ci vogliono ci vogliono. Nel 1789 ci voleva la rivoluzione francese, nel 1917 ci voleva la rivoluzione russa, nel 1959 ci voleva la rivoluzione cubana. Il lettore sa perfettamente che potrei portare a questo punto mille pagine di dotte motivazioni storiografiche, ma non lo faccio per due ragioni: non ne ho nessuna voglia ed inoltre lo spazio di questa rivista non me lo consentirebbe.
Tutto questo per dire che sono un amico (non incondizionato) delle rivoluzioni, e con chi mi dice seriosamente che ogni progetto utopico di cambiare il mondo degenera infallibilmente in totalitarismo politico cambio immediatamente discorso passando a Simenon, Agatha Christie e soprattutto Del Piero. In quanto amico delle rivoluzioni trovo anche normale (forse deprecabile, ma normale) che per qualche anno dopo la riconquista della democrazia gli ateniesi non lascino libertà di espressione pubblica ai fautori degli spartani, che per qualche anno dopo il 1789 i francesi non lascino libertà di espressione pubblica ai realisti borbonici, e che infine per qualche anno dopo il 1917 i russi non lascino libertà di espressione pubblica ai seguaci degli zar. L’ho appena detto: forse deprecabile, ma normale. Una normale “sospensione”, dovuta ad uno stato di conclamata ed evidente emergenza.
Se però l’emergenza diventa normalità allora c’è una patologia in atto, che in termini gramsciani potremo definire un deficit di egemonia. Questo deficit di egemonia ha caratterizzato l’intera storia del comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991). E’ evidente che un sistema egemone avrebbe consentito la formazione pubblica del Partito del Feudalesimo Russo Eterno, del Partito Polacco per il Capitalismo Occidentale Totale, del Partito Cinese per la Restaurazione Manciù, per il Codino Obbligatorio e per i Piedi Piccoli Erotici per le Donne confucianamente Obbedienti. Un simile sistema egemone avrebbe consentito ogni tipo di riviste e di gazzette letterarie, la Rivista della Libertà, il Giornale del Proletario Privato, il Quotidiano Individualista, così come i capitalisti sono riusciti di norma a permettere legalmente la Voce Operaia, Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo ed i bollettini CARC. Questa strutturale incapacità di mettere in atto una democrazia degna di questo nome (democrazia = prevalenza degli interessi del demos + principio di maggioranza + garanzia giuridica della libertà di opinione e di dissenso) può essere spiegata in molti modi, di cui qui per brevità mi limiterò a tre.
Prima spiegazione: l’accerchiamento capitalistico ed imperialistico, l’azione della Gestapo prima e della CIA poi, l’emergenza geopolitica permanente. Si tratta di pretesti penosi. Se infatti il capitalismo può permettersi di tollerare giuridicamente il dissenso verso di esso (ad esempio, questa rivistina su cui scrivo, di nicchia quanto si vuole) mentre il socialismo non può farlo, cade il principio marxista per cui esso sarebbe un sistema sociale di tipo storicamente “superiore”.
Seconda spiegazione: il malvagio monopolio del potere sequestrato dalla burocrazia, questa escrescenza parassitaria dovuta al debole sviluppo delle forze produttive ed alla scarsità di beni e servizi che ne consegue, cosicché non si ha un vero socialismo, ma uno stato operaio burocraticamente degenerato (con varianti). Si tratta, come è noto, del paradigma trotzkista. Il lettore che mi segue sa che l’ho sempre trovato penoso. Questo paradigma si basa su di un presupposto metafisico non dimostrato, e cioè il demos, organizzato in consigli di democrazia diretta, potrebbe esercitare direttamente l’autogoverno politico e l’autogestione economica. Dal momento che questa capacità astrattamente attribuitagli in nome di una metafisica operaistica ottocentesca si è dimostrata una pittoresca ed inesorabile incapacità storica, a questa incapacità si è dato il nome di “burocrazia”. Nello stesso modo, si è dato il nome di “diavolo” all’incapacità di far prevalere stabilmente nell’uomo i buoni istinti sui cattivi.
Terza spiegazione: se l’avarizia (intesa come attaccamento al denaro, non come la spilorceria) è il principale difetto dei ricchi, l’invidia è il principale difetto dei poveri. Se allora la prevalenza del demos non riesce a lasciarsi alle spalle il doppio nesso fra avarizia ed invidia, ne conseguirà che in qualsiasi momento (Cina 1978, URSS 1991) la restaurazione oligarchica capitalistica sarà sempre in agguato. Mi si dirà che questa spiegazione è troppo psicologica, e quindi non “strutturale”. Errore. Si tratta di una spiegazione strutturale. La privazione della libertà di opinione, che il marxista sciocco ed economicista riterrà probabilmente sovrastrutturale, è invece pienamente strutturale. Se infatti la cosiddetta “struttura” consiste nella dinamica dialettica fra la crescita delle forze produttive sociali e la natura classista o meno dei rapporti sociali di produzione, allora il fatto che questa dinamica dialettica avvenga in regime di libertà d’espressione o viceversa in regime di repressione statale di quest’ultima fa parte della struttura, non della sovrastruttura.
Ripetiamolo ancora, perché mi rendo conto che questo è scandaloso per le orecchie a sventola del marxista medio: la libertà di opinione e di espressione politica, filosofica, religiosa, letteraria ed artistica fa parte della struttura di una società, non della sovrastruttura. Spieghiamoci meglio nel prossimo paragrafo.

5. Una rivoluzione copernicana nella teoria marxista

Il più importante problema teorico che possa seriamente discutere la comunità degli studiosi marxisti oggi sta nel decidere se il marxismo stesso possa mutare di paradigma scientifico (Kuhn), il che comporta ovviamente una rivoluzione scientifica di paradigma, sulla propria stessa base assestata nell’ultimo secolo (oppure attraverso un ritorno radicale a Karl Marx “saltando” tutto quanto è venuto dopo), oppure al contrario se questo sia ormai impossibile, e ci voglia qualcosa di molto più radicale, e cioè una teoria dell’analisi e dell’emancipazione sociale completamente nuova, di cui la tradizione marxista non sarà che una componente.
Lascio aperto questo dilemma, che non è l’oggetto di questo mio intervento, e voglio insistere solo su di un punto cruciale. A mio avviso, se si vuole in qualche modo mantenere il dualismo fra struttura e sovrastrutture di un modo di produzione capitalistico in particolare, allora propongo che la libertà e la democrazia (più esattamente la libertà di creazione artistica, letteraria e filosofica, ed in più la libertà di opinione e di organizzazione politica giuridicamente garantita, e la democrazia intesa come somma di tre elementi, principio di maggioranza, garanzia per le minoranze e perseguimento sostanziale del bene politico) vengano in qualche modo inserite nella struttura.
Il mettere alla base della struttura lo sviluppo delle forze produttive porta, come è noto, all’economicismo e al tecnologismo (che sono fratelli gemelli, al punto che si potrebbe parlare esattamente di Tecno-economia o di Econo-tecnica). Non mi soffermo su questo punto, perché un serio bilancio dell’ultimo secolo parla da solo.
Ma anche il mettere alla base della struttura il solo rapporto sociale di produzione classistico non è corretto (fu questa la via dell’althusserismo ed in generale del maoismo occidentale ed europeo). Esso porta ad una sorta di iper-rivoluzionarismo attivistico, di sociologismo mistico (la classe operaia deve dirigere tutto e da essa possiamo aspettarci tutto il meglio possibile, eccetera), e quindi di nichilismo. Più in generale il nichilismo in ambiente marxista può assumere due aspetti assolutamente complementari ed in solidarietà antitetico-polare: il nichilismo di destra (economicismo produttivistico) ed il nichilismo di sinistra (sociologismo classistico).
La società deve essere invece considerata in modo olistico come un “intero” (ed è del resto ciò che sostiene correttamente il miglior pensiero ecologista ed ambientalista). In quanto “intero”, non è per nulla sovrastrutturale il fatto che la riproduzione conflittuale dei rapporti sociali avvenga garantendo stabilmente ai membri della società stessa sia il metodo (democratico) sia i presupposti antropologici di questo metodo stesso (la libertà di creazione e di espressione).
Nessuno sceglie il periodo storico in cui vivere, ma in esso siamo “gettati” (come dice correttamente Heidegger) dall’incontro casuale dei nostri genitori. A me è successo di frequentare per decenni veri e propri idioti che mi hanno riempito la testa con l’idea che la libertà di creazione e di espressione è qualcosa che non interessa ai lavoratori ed ai proletari (a cui interessano evidentemente solo gli indici di produzione del carbone, del petrolio e dell’acciaio), ma riguarda soltanto i piccolo-borghesi anarcoidi ed incapaci di disciplina. Quando il quotidiano “Lotta Continua” aprì un dibattito sui dissidenti sovietici di metà degli anni settanta ricordo che la stragrande maggioranza delle animalesche risposte sosteneva la seguente tesi: i burocratici sovietici hanno espulso Solzenitsin, ma i proletari lo avrebbero fucilato. Se qualcuno volesse toccare con mano che cosa significa incapacità di egemonia, vada nelle emeroteche e si fotocopi questo dibattito. Non stupisce allora che per nascondere il fatto di aver avallato queste indegne porcherie i responsabili di questo avallo si siano riciclati in ammiratori di Bush ed in “bombardatori umanitari”.

6. Conclusioni

In conclusione credo di poter riassumere le mie tesi di fondo in due soli punti, il primo critico-negativo ed il secondo “positivo”.
1) Primo punto. Chi oggi parla di democrazia in atto, di democrazia sia pur fragile, minacciata o imperfetta, eccetera, o è un ingenuo in buonafede o è un mentitore in mala fede. A volte i confini fra i due gruppi sono labili e le posizioni si mescolano. L’ingenuo in buona fede diventa talvolta un mentitore in malafede, pur non avendo all’inizio questa intenzione, perché rifiutando di prendere in considerazione la realtà, e decidendo appunto di “non sapere”, scivola inavvertitamente dalla prima alla seconda posizione. Una volta che lo scivolamento è avvenuto, esso diventa purtroppo un avversario, mentre prima era un legittimo interlocutore.
Ho riassunto prima le due ragioni di fondo per cui la decisione democratica è oggi resa impossibile. Essa è espropriata e svuotata da una doppia mancanza di sovranità, la sovranità economica (il dominio anonimo dei mercati transnazionali) e la sovranità militare (le basi americane potentemente armate a sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale).
In queste condizioni la pretesa di “esportare” la democrazia (eretta a primo dei cosiddetti “diritti umani”) diventa veramente paradossale. Si esporterebbe infatti non la democrazia, ma appunto la non-democrazia (che nella dizione di Crouch, che ritengo insufficiente, diventerebbe più pudicamente una post-democrazia). Ora, l’esportazione virtuale ed ideologica della non-democrazia fatta passare per democrazia, il che appunto non è, segnala l’enigma ideologico principale del nostro tempo, la crescente sostituzione della realtà virtuale alla realtà reale. Senza l’attività quotidiana della saturazione mediatica tutto questo non sarebbe tecnicamente possibile. Non è comunque un caso che la filosofia accademica segua il suo committente come un cagnolino segue il suo padrone, sostenendo con pomposi ragionamenti che la verità non esiste, il bene politico è una chimera utopica indimostrabile, e tutto è relativo. Questa sofistica ultracapitalistica (in cui Wittgenstein riscrive in inglese le tesi a suo tempo scritte in greco antico da Gorgia) si basa su di un segreto di Pulcinella: in un mondo in cui tutto è in relazione con un unico “assoluto”, il valore d’uso della merce ed il suo potere d’acquisto differenziato, gli intellettuali di regime diranno che tutto è relativo. Il solo “assoluto” che essi ammettono è allora l’insieme di “diritti umani” che consentono l’esportazione armata e coattiva del loro doppio relativismo (doppio in quanto ad un tempo merceologico e filosofico).
Abbasso la loro democrazia! Nessuna concessione alla loro retorica democratica! Solidarietà piena a che resiste ad essa!
2) Secondo punto. Partendo dallo “smascheramento della menzogna dell’esportazione della democrazia attraverso embarghi e bombardamenti molti superficiali sono arrivati alla frettolosa ed errata conclusione per cui la “libertà” e la “democrazia”, essendo orpelli ideologici di copertura dei dominanti, per ciò stesso non siano valori che possano ambire legittimamente all’universalità. Nella mia concezione, l’universalità non è un dato a priori (se lo pensassi, sarei un pensatore religioso, il che è comunque meglio di essere un cosiddetto laico relativista), ma è un processo storico di universalizzazione mondiale che può avvenire solo attraverso un dialogo sistematico fra culture, senza alcun presupposto di superiorità esplicito o implicito (ed è infatti quasi sempre ipocritamente implicito).
Sostenendo che la libertà di creazione e di espressione, insieme con il metodo democratico, fanno parte della struttura e non della sovrastruttura, dico esattamente la stessa cosa di quelli che dicono che esse sono dei valori universali. Certo, so benissimo che a volte nella storia esse possono essere “sospese”, e che di per sé non garantiscono il bene politico. Socrate fu condannato a morte per tradimento e Gesù di Nazareth fu condannato a morte per terrorismo, laddove in realtà, studiando e ristudiando i loro processi (ma questo non può essere l’oggetto di questo mio intervento) si arriva facilmente alla conclusione che entrambi erano innocenti, che Socrate era un patriota ateniese che voleva essere il moscone fastidioso del nobile cavallo della polis degli ateniesi, e che Gesù era un pacifista messianico che intendeva proclamare un “anno di misericordia del signore” (traduzione: remissione dei debiti e quindi liberazione di tutti gli schiavi per debiti).
Nessuna persona filosoficamente educata può sostenere che di per sé il principio di maggioranza porta alla verità filosofica o al bene politico. E’ chiaro che così non è. Ma da questo fatto evidente non bisogna affrettarsi a tirare delle conseguenze anti-democratiche, come ad esempio il Platone della Repubblica. La democrazia è infatti un processo di educazione progressiva attraverso la pratica dialogica di un homo democraticus, sulla base del presupposto che una pratica dialogica ben condotta può giungere a convincere tutti (o quasi tutti) della soluzione migliore. Soluzione migliore che a sua volta presuppone la generalizzazione di un punto di vista solidale-comunitario e non egoistico-individualistico fra gli uomini.
La democrazia si basa quindi su di una scommessa, in un senso molto più vicino al possibilismo di Pascal che al determinismo meccanicistico del marxismo ortodosso. L’idea di poter costruire non democraticamente una nuova umanità comunista è stata praticata nel novecento da Stalin, ed è fallita. A proposito di Stalin, io condivido nell’essenziale l’idea di Canfora per cui Stalin ha impersonato una forma di prevalenza del demos, e quindi non condivido l’interpretazione trotzkista del dominio di una oligarchia burocratica che corrispondeva ad Est al dominio dell’oligarchia capitalistica normale ad Ovest. Ma questo non cambia di un grammo le cose. Prevalenza del demos o meno, la mancanza di libertà e di democrazia soffoca strutturalmente lo sviluppo sociale.
Posso allora terminare qui. La libertà è libertà di creazione (filosofica, artistica e letteraria) e libertà di espressione (politica e religiosa). Ma la libertà non è nulla senza un sistema giuridico che la garantisca ed impedisca gli abusi giudiziari. La democrazia è allora un insieme di tre elementi inscindibili, il principio di maggioranza, la garanzia per le minoranze ed il perseguimento del bene politico. Le due sole categorie di persone con cui non desidero più confrontarmi sono queste: coloro che dicono che tutto è relativo, e non esiste un bene politico, e coloro che affermano che la libertà è un lusso per borghesi e piccolo-borghesi.

di Costanzo Preve