14 settembre 2008

Afghanistan: sette anni dopo la cacciata dei talebani



In Afghanistan, il vertiginoso aumento del livello di scontro registrato negli ultimi mesi sta mettendo a dura prova le forze della coalizione internazionale. Dalla fine dello scorso anno le milizie talebane hanno cambiato strategia e alla guerra aperta hanno preferito il terrorismo usato dalla guerriglia irachena: più snervante, più efficace e meno rischioso. La scelta é dovuta soprattutto alla schiacciante supremazia dimostrata in precedenza dalle Forze della Nato e dai paesi che partecipano alla missione, ai mezzi a disposizione, alla loro potenza di fuoco e alla capacità operativa. Tutti fattori che avrebbero portato le milizie ad evitare il combattimento diretto in favore di una strategia basata su azioni clamorose, sull’uso massiccio di ordigni esplosivi improvvisati (più comunemente conosciuti come IED o Improvised Explosive Device), di bombe piazzate sul ciglio delle strade, di attacchi suicidi e rapide sortite. I successi ottenuti dalla guerriglia stanno determinato la reazione delle truppe della coalizione, che in questo modo si espone al rischio di errori tattici ed operativi; si conta un elevato numero di perdite e una crescente percentuale di “danni collaterali”, leggasi vittime civili che pagano con la vita tragici errori di valutazione. A sette anni dalla cacciata del regime talebano la popolazione afgana inizia a considerare le truppe straniere come una sorta di esercito di occupazione, un esercito da combattere cosi come furono combattuti i sovietici negli anni Ottanta.

Il frenetico aumento delle attività ha portato i talebani a ridosso della capitale; la guerriglia ha amplificato la pressione contro la rete stradale e ha sviluppato una serie di spregiudicati attacchi che stanno preoccupando seriamente i vertici militari della coalizione: l’assalto alla prigione di Kandahar, che ha permesso la fuga di centinaia di prigionieri; il commando suicida che il 14 gennaio scorso ha portato un attacco al cuore internazionale di Kabul colpendo l’interno dell’hotel Serena e uccidendo sette persone, tra cui un reporter norvegese; l'auto-bomba esplosa il 7 luglio contro due veicoli diplomatici che si trovavano vicino al cancello principale dell'ambasciata indiana e che ha ucciso almeno 44 persone e ne ha ferite più di 150. Questi sono solo alcuni degli esempi che documentano l’abilità dei talebani nel condurre lo scontro sul terreno del terrorismo senza comunque rinunciare ad una guerra di tipo convenzionale, come l’attacco del 13 luglio contro la base di Kunar, costato la vita a nove militari statunitensi, o l’azione sferrata il 19 agosto scorso a non più di 30 miglia ad est di Kabul nella quale sono morti 10 soldati francesi.

Negli ultimi mesi i vertici militari statunitensi hanno risposto agli attacchi talebani con un intenso aumento dell’attività aerea; è stata rafforzata la presenza americana nell’Oceano Indiano con il rischieramento della flotta guidata dalla portaerei USS Abraham Lincoln. Per quanto riguarda le operazioni di terra, il Pentagono ha lavorato per raggiungere un maggiore coordinamento con l’intelligence pakistano, obiettivo tragicamente fallito se si pensa all’incursione militare su Jalal Khel, villaggio del Waziristan meridionale bombardato da elicotteri da guerra che hanno causato la morte almeno 15 persone, soprattutto donne e bambini. Senza ottenere risultati positivi Washington si è anche impegnata sul piano diplomatico, cercando di appianare le profonde divergenze che dividono l’Afghanistan dal vicino Pakistan.

Nel 2008 l’attività di guerriglia è cresciuta in modo vertiginoso, soprattutto lungo il confine con il Pakistan; per i talebani le aree tribali ad Amministrazione Federale (Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan) sono diventate una vera e propria roccaforte, rifugio e base logistica da dove lanciano azioni dimostrative come l’attacco kamikaze compiuto il 21 agosto scorso contro una fabbrica di armi e munizioni di Wah, città strategica che sorge nella provincia di Punjab, attacco nel quale hanno perso la vita 64 civili. Un territorio difficile quello a cavallo tra Pakistan ed Afghanistan, dove i talebani addestrano i volontari destinati alla jihad afgana, ragazzi reclutati nelle madrasse di Karachi, Peshawar, Lahore e Quetta, santuario dei capi del movimento religioso puritano; dove le azioni di contenimento condotte dall’esercito pakistano non producono praticamente alcun effetto e dove le truppe della coalizione sono sempre più invise alla popolazione.

In un articolo pubblicato il 25 Agosto scorso dall’Associated Press, Jason Straziuso parla delle perdite americane in Afghanistan: dall’inizio del conflitto, ottobre 2001, l’esercito USA hanno perso 580 militari; 105 nei primi otto mesi del 2008; 65 nel bimestre maggio-giugno, il peggiore bilancio registrato dal giorno dell’invasione. La fiducia della popolazione afgana nei confronti della coalizione sta diminuendo costantemente; gli errori e i danni collaterali iniziano ad avere il loro peso. Nei primi otto mesi dell’anno le operazioni di terra e l’aviazione americana avrebbero causato la morte di circa 700 civili: il 21 agosto un raid aereo su Herat ha provocato la morte di 90 civili, 60 erano bambini; secondo alcune testimonianze, il giorno seguente, un neonato, quattro bambini, una ragazza e quattro donne, una di loro incinta, sarebbero stati feriti gravemente dalle schegge di alcuni razzi lanciati dall’esercito britannico su una abitazione di Lashkargah.

Nell’Afghanistan meridionale e sud orientale la strategia talebana sta sviluppando una sorta di consenso e la presenza dei gruppi legati ad al-Qaida sta diventando ogni giorno più influente. I guerriglieri iniziano a controllore gran parte della frontiera con il Pakistan e la rete stradale che da Karachi porta verso Kabul ed Islamabad, di vitale importanza ora che la crisi caucasica sta mettendo in discussione l’accordo con la Russia per il transito dei rifornimenti Nato, sta entrando sotto l’influenza talebana. A questo punto, per il Pentagono le prospettive non sono rosee. La presenza delle truppe Usa è determinante per il successo dell’International Security Assistance Force (Isaf) e, a meno che non si decida di lasciare che il paese in mano ai talebani, travolto da una sanguinosa guerra civile, dal punto di vista della coalizione occidentale il ritiro rimane un’opzione impraticabile; di questo ne sono coscienti entrambi i candidati alla presidenza americana. Anche se con diverse finalità, John McCain e Barack Obama non possono fare altro che promuovere l’aumento della presenza militare in Afghanistan, soprattutto ora che un parziale ritiro dall’Iraq sembra diventato possibile.

Restare a Kabul aumentando il contingente non può però che avere della conseguenze, ripercussioni che Washington e i suoi alleati dovranno prima o poi affrontare. Un numero maggiore di militari implicherebbe una proporzionale crescita di errori e quindi un incremento del numero di vittime collaterali; l’aumento delle forze in campo verrebbe percepito in modo negativo dalla popolazione che di conseguenza darebbe maggiore sostegno alla guerriglia. La persistente presenza occidentale verrebbe paragonata all’invasione sovietica del 1979 e questo non farebbe altro che dar vita a nuove forme di resistenza. Il vertiginoso aumento dello scontro potrebbe mettere infine a rischio gli equilibri politici del vicino Pakistan, dove la jihad potrebbe approfittare dell’incertezza causata dal dopo Musharraf e della cronica instabilità delle regioni nord-occidentali per trascinare il paese verso la guerra civile. In conclusione, comunque la si voglia prendere, il conflitto afgano è destinato a durare ancora a lungo, molto più e molti morti in più di quanto avesse previsto il presidente Bush quando diede inizio all’Operazione Enduring Freedom.

di Eugenio Roscini Vital

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14 settembre 2008

Afghanistan: sette anni dopo la cacciata dei talebani



In Afghanistan, il vertiginoso aumento del livello di scontro registrato negli ultimi mesi sta mettendo a dura prova le forze della coalizione internazionale. Dalla fine dello scorso anno le milizie talebane hanno cambiato strategia e alla guerra aperta hanno preferito il terrorismo usato dalla guerriglia irachena: più snervante, più efficace e meno rischioso. La scelta é dovuta soprattutto alla schiacciante supremazia dimostrata in precedenza dalle Forze della Nato e dai paesi che partecipano alla missione, ai mezzi a disposizione, alla loro potenza di fuoco e alla capacità operativa. Tutti fattori che avrebbero portato le milizie ad evitare il combattimento diretto in favore di una strategia basata su azioni clamorose, sull’uso massiccio di ordigni esplosivi improvvisati (più comunemente conosciuti come IED o Improvised Explosive Device), di bombe piazzate sul ciglio delle strade, di attacchi suicidi e rapide sortite. I successi ottenuti dalla guerriglia stanno determinato la reazione delle truppe della coalizione, che in questo modo si espone al rischio di errori tattici ed operativi; si conta un elevato numero di perdite e una crescente percentuale di “danni collaterali”, leggasi vittime civili che pagano con la vita tragici errori di valutazione. A sette anni dalla cacciata del regime talebano la popolazione afgana inizia a considerare le truppe straniere come una sorta di esercito di occupazione, un esercito da combattere cosi come furono combattuti i sovietici negli anni Ottanta.

Il frenetico aumento delle attività ha portato i talebani a ridosso della capitale; la guerriglia ha amplificato la pressione contro la rete stradale e ha sviluppato una serie di spregiudicati attacchi che stanno preoccupando seriamente i vertici militari della coalizione: l’assalto alla prigione di Kandahar, che ha permesso la fuga di centinaia di prigionieri; il commando suicida che il 14 gennaio scorso ha portato un attacco al cuore internazionale di Kabul colpendo l’interno dell’hotel Serena e uccidendo sette persone, tra cui un reporter norvegese; l'auto-bomba esplosa il 7 luglio contro due veicoli diplomatici che si trovavano vicino al cancello principale dell'ambasciata indiana e che ha ucciso almeno 44 persone e ne ha ferite più di 150. Questi sono solo alcuni degli esempi che documentano l’abilità dei talebani nel condurre lo scontro sul terreno del terrorismo senza comunque rinunciare ad una guerra di tipo convenzionale, come l’attacco del 13 luglio contro la base di Kunar, costato la vita a nove militari statunitensi, o l’azione sferrata il 19 agosto scorso a non più di 30 miglia ad est di Kabul nella quale sono morti 10 soldati francesi.

Negli ultimi mesi i vertici militari statunitensi hanno risposto agli attacchi talebani con un intenso aumento dell’attività aerea; è stata rafforzata la presenza americana nell’Oceano Indiano con il rischieramento della flotta guidata dalla portaerei USS Abraham Lincoln. Per quanto riguarda le operazioni di terra, il Pentagono ha lavorato per raggiungere un maggiore coordinamento con l’intelligence pakistano, obiettivo tragicamente fallito se si pensa all’incursione militare su Jalal Khel, villaggio del Waziristan meridionale bombardato da elicotteri da guerra che hanno causato la morte almeno 15 persone, soprattutto donne e bambini. Senza ottenere risultati positivi Washington si è anche impegnata sul piano diplomatico, cercando di appianare le profonde divergenze che dividono l’Afghanistan dal vicino Pakistan.

Nel 2008 l’attività di guerriglia è cresciuta in modo vertiginoso, soprattutto lungo il confine con il Pakistan; per i talebani le aree tribali ad Amministrazione Federale (Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan) sono diventate una vera e propria roccaforte, rifugio e base logistica da dove lanciano azioni dimostrative come l’attacco kamikaze compiuto il 21 agosto scorso contro una fabbrica di armi e munizioni di Wah, città strategica che sorge nella provincia di Punjab, attacco nel quale hanno perso la vita 64 civili. Un territorio difficile quello a cavallo tra Pakistan ed Afghanistan, dove i talebani addestrano i volontari destinati alla jihad afgana, ragazzi reclutati nelle madrasse di Karachi, Peshawar, Lahore e Quetta, santuario dei capi del movimento religioso puritano; dove le azioni di contenimento condotte dall’esercito pakistano non producono praticamente alcun effetto e dove le truppe della coalizione sono sempre più invise alla popolazione.

In un articolo pubblicato il 25 Agosto scorso dall’Associated Press, Jason Straziuso parla delle perdite americane in Afghanistan: dall’inizio del conflitto, ottobre 2001, l’esercito USA hanno perso 580 militari; 105 nei primi otto mesi del 2008; 65 nel bimestre maggio-giugno, il peggiore bilancio registrato dal giorno dell’invasione. La fiducia della popolazione afgana nei confronti della coalizione sta diminuendo costantemente; gli errori e i danni collaterali iniziano ad avere il loro peso. Nei primi otto mesi dell’anno le operazioni di terra e l’aviazione americana avrebbero causato la morte di circa 700 civili: il 21 agosto un raid aereo su Herat ha provocato la morte di 90 civili, 60 erano bambini; secondo alcune testimonianze, il giorno seguente, un neonato, quattro bambini, una ragazza e quattro donne, una di loro incinta, sarebbero stati feriti gravemente dalle schegge di alcuni razzi lanciati dall’esercito britannico su una abitazione di Lashkargah.

Nell’Afghanistan meridionale e sud orientale la strategia talebana sta sviluppando una sorta di consenso e la presenza dei gruppi legati ad al-Qaida sta diventando ogni giorno più influente. I guerriglieri iniziano a controllore gran parte della frontiera con il Pakistan e la rete stradale che da Karachi porta verso Kabul ed Islamabad, di vitale importanza ora che la crisi caucasica sta mettendo in discussione l’accordo con la Russia per il transito dei rifornimenti Nato, sta entrando sotto l’influenza talebana. A questo punto, per il Pentagono le prospettive non sono rosee. La presenza delle truppe Usa è determinante per il successo dell’International Security Assistance Force (Isaf) e, a meno che non si decida di lasciare che il paese in mano ai talebani, travolto da una sanguinosa guerra civile, dal punto di vista della coalizione occidentale il ritiro rimane un’opzione impraticabile; di questo ne sono coscienti entrambi i candidati alla presidenza americana. Anche se con diverse finalità, John McCain e Barack Obama non possono fare altro che promuovere l’aumento della presenza militare in Afghanistan, soprattutto ora che un parziale ritiro dall’Iraq sembra diventato possibile.

Restare a Kabul aumentando il contingente non può però che avere della conseguenze, ripercussioni che Washington e i suoi alleati dovranno prima o poi affrontare. Un numero maggiore di militari implicherebbe una proporzionale crescita di errori e quindi un incremento del numero di vittime collaterali; l’aumento delle forze in campo verrebbe percepito in modo negativo dalla popolazione che di conseguenza darebbe maggiore sostegno alla guerriglia. La persistente presenza occidentale verrebbe paragonata all’invasione sovietica del 1979 e questo non farebbe altro che dar vita a nuove forme di resistenza. Il vertiginoso aumento dello scontro potrebbe mettere infine a rischio gli equilibri politici del vicino Pakistan, dove la jihad potrebbe approfittare dell’incertezza causata dal dopo Musharraf e della cronica instabilità delle regioni nord-occidentali per trascinare il paese verso la guerra civile. In conclusione, comunque la si voglia prendere, il conflitto afgano è destinato a durare ancora a lungo, molto più e molti morti in più di quanto avesse previsto il presidente Bush quando diede inizio all’Operazione Enduring Freedom.

di Eugenio Roscini Vital

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