06 settembre 2008

Il ritorno russo





La questione della responsabilità del conflitto nel Caucaso non ci tormenta più. Meno di una settimana dopo l'attacco georgiano, due commentatori francesi, esperti di qualsiasi cosa, l'hanno giudicato "obsoleto". Un influente neoconservatore americano aveva dato loro il la. Sapere chi ha cominciato "importa poco", ha tagliato corto Robert Kagan, "se questa volta Mikhail Saakashvili non fosse caduto nella trappola di Vladimir Putin, dal conflitto sarebbe uscito qualcosa di differente. (1)". Un'ipotesi ne chiama subito un'altra: se, il giorno della cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici, l'iniziativa di un'operazione armata fosse stata compiuta da qualcun altro che non fosse il giovane poliglotta Saakashvili, diplomato alla Columbia Law School di New York, i governi occidentali e i loro media sarebbero riusciti a contenere la loro indignazione di fronte ad un atto tanto evidentemente simbolico?



Ma, dal momento che conosciamo già i buoni e i cattivi di questa storia, la si può seguirre meglio. I buoni, come la Georgia, hanno il diritto di preservare la loro integrità territoriale dalle trame separatiste ordite dai propri vicini; i cattivi, come la Serbia, devono acconsentire all'autodeterminazione della loro minoranza albanofona (Kosovo) e subire, in caso di rifiuto, i bombardamenti della NATO. La morale della storia diventa ancora più edificante quando, per difendere il suo territorio, il gentile presidente filoamericano richiama a casa una parte dei soldati inviati... a invadere l'Iraq.

Lo scorso 16 agosto il presidente George W. Bush, giustamente, ha invocato con serietà le "risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU", così come "l'indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale" della Georgia, le cui "frontiere devono beneficiare dello stesso rispetto di quelle di altre nazioni". Di conseguenza solo gli Stati Uniti avrebbero il diritto di agire unilateralmente quando pensano (o pretendono) che la loro sicurezza sia in causa. In realtà la serie di avvenimenti obbedisce ad una logica più semplice: Washington sta con la Georgia per contrastare la Russia; Mosca sta con l'Ossezia del sud, ma anche con l'Abkhazia, per "punire" la Georgia.

A partire dal 1992 due rapporti del Pentagono hanno cercato di prevenire l'eventuale risorgenza di una potenza russa allora ai minimi termini. Per rendere permanente l'egemonia americana nata dalla vittoria nella Guerra del Golfo e dallo scioglimento del blocco sovietico, bisognava, secondo i rapporti, "convincere eventuali rivali che non avevano bisogno di aspirare a un ruolo maggiore". E, se non si fosse potuto convincerli, Washington avrebbe saputo come "dissuaderli". Bersaglio principale di queste previsioni? La Russia, "unica potenza al mondo che possa distruggere gli Stati Uniti" (2).

Si può biasimare i dirigenti russi di aver vissuto l'assistenza occidentale alle "rivoluzioni colorate" in Ucraina e Georgia, l'adesione alla NATO dei vecchi alleati del Patto di Varsavia e l'installazione di missili americani sul suolo polacco come elementi di questa vecchia strategia il cui scopo era indebolire il loro paese, quale che ne fosse il regime? "La Russia è diventata una grande potenza, e questo è preoccupante", ha poi ammesso Bernard Kouchner, ministro degli esteri francese (3).

Architetto, negli anni '80, della pericolosissima strategia afghana di Washington (sostenere militarmente gli islamisti per sconfiggere i comunisti...), Zbigniew Brzezinski ha descritto anche l'altro lato del disegno americano: "La Georgia ci apre l'accesso al petrolio, e presto anche al gas, dell'Azerbaijan, del Mar Caspio e dell'Asia centrale. Rappresenta quindi per noi un obiettivo strategico principale" (4). Brzezinski non potrebbe essere sospettato di incostanza: anche quando, sotto El'cin, la russia agonizzava, voleva cacciarla dal Caucaso e dall'Asia centrale per garantire l'approvigionamento energetico dell'Occidente (5). Ora la Russia sta meglio, gli Stati Uniti stanno meno bene, e il petrolio costa caro. Vittima delle provocazioni del proprio presidente, la Georgia deve subire la pressione di queste tre dinamiche.



di Serge Halimi






Note:
(1) Rispettivamente Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, in Libération del 14 agosto 2008, e Robert Kagan, nel Washington Post dell'11 agosto 2008.

(2) Vedi Paul-Marie de La Gorce, "Washington et la maîtrise du monde", Le Monde diplomatique, aprile 1992

(3) Intervista con Journal du dimanche, Parigi, 17 agosto 2008.

(4) Bloomberg News, 12 agosto 2008, www.bloomberg.com

(5) Zbigniew Brzezinski, The Great Chessboard.


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06 settembre 2008

Il ritorno russo





La questione della responsabilità del conflitto nel Caucaso non ci tormenta più. Meno di una settimana dopo l'attacco georgiano, due commentatori francesi, esperti di qualsiasi cosa, l'hanno giudicato "obsoleto". Un influente neoconservatore americano aveva dato loro il la. Sapere chi ha cominciato "importa poco", ha tagliato corto Robert Kagan, "se questa volta Mikhail Saakashvili non fosse caduto nella trappola di Vladimir Putin, dal conflitto sarebbe uscito qualcosa di differente. (1)". Un'ipotesi ne chiama subito un'altra: se, il giorno della cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici, l'iniziativa di un'operazione armata fosse stata compiuta da qualcun altro che non fosse il giovane poliglotta Saakashvili, diplomato alla Columbia Law School di New York, i governi occidentali e i loro media sarebbero riusciti a contenere la loro indignazione di fronte ad un atto tanto evidentemente simbolico?



Ma, dal momento che conosciamo già i buoni e i cattivi di questa storia, la si può seguirre meglio. I buoni, come la Georgia, hanno il diritto di preservare la loro integrità territoriale dalle trame separatiste ordite dai propri vicini; i cattivi, come la Serbia, devono acconsentire all'autodeterminazione della loro minoranza albanofona (Kosovo) e subire, in caso di rifiuto, i bombardamenti della NATO. La morale della storia diventa ancora più edificante quando, per difendere il suo territorio, il gentile presidente filoamericano richiama a casa una parte dei soldati inviati... a invadere l'Iraq.

Lo scorso 16 agosto il presidente George W. Bush, giustamente, ha invocato con serietà le "risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU", così come "l'indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale" della Georgia, le cui "frontiere devono beneficiare dello stesso rispetto di quelle di altre nazioni". Di conseguenza solo gli Stati Uniti avrebbero il diritto di agire unilateralmente quando pensano (o pretendono) che la loro sicurezza sia in causa. In realtà la serie di avvenimenti obbedisce ad una logica più semplice: Washington sta con la Georgia per contrastare la Russia; Mosca sta con l'Ossezia del sud, ma anche con l'Abkhazia, per "punire" la Georgia.

A partire dal 1992 due rapporti del Pentagono hanno cercato di prevenire l'eventuale risorgenza di una potenza russa allora ai minimi termini. Per rendere permanente l'egemonia americana nata dalla vittoria nella Guerra del Golfo e dallo scioglimento del blocco sovietico, bisognava, secondo i rapporti, "convincere eventuali rivali che non avevano bisogno di aspirare a un ruolo maggiore". E, se non si fosse potuto convincerli, Washington avrebbe saputo come "dissuaderli". Bersaglio principale di queste previsioni? La Russia, "unica potenza al mondo che possa distruggere gli Stati Uniti" (2).

Si può biasimare i dirigenti russi di aver vissuto l'assistenza occidentale alle "rivoluzioni colorate" in Ucraina e Georgia, l'adesione alla NATO dei vecchi alleati del Patto di Varsavia e l'installazione di missili americani sul suolo polacco come elementi di questa vecchia strategia il cui scopo era indebolire il loro paese, quale che ne fosse il regime? "La Russia è diventata una grande potenza, e questo è preoccupante", ha poi ammesso Bernard Kouchner, ministro degli esteri francese (3).

Architetto, negli anni '80, della pericolosissima strategia afghana di Washington (sostenere militarmente gli islamisti per sconfiggere i comunisti...), Zbigniew Brzezinski ha descritto anche l'altro lato del disegno americano: "La Georgia ci apre l'accesso al petrolio, e presto anche al gas, dell'Azerbaijan, del Mar Caspio e dell'Asia centrale. Rappresenta quindi per noi un obiettivo strategico principale" (4). Brzezinski non potrebbe essere sospettato di incostanza: anche quando, sotto El'cin, la russia agonizzava, voleva cacciarla dal Caucaso e dall'Asia centrale per garantire l'approvigionamento energetico dell'Occidente (5). Ora la Russia sta meglio, gli Stati Uniti stanno meno bene, e il petrolio costa caro. Vittima delle provocazioni del proprio presidente, la Georgia deve subire la pressione di queste tre dinamiche.



di Serge Halimi






Note:
(1) Rispettivamente Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, in Libération del 14 agosto 2008, e Robert Kagan, nel Washington Post dell'11 agosto 2008.

(2) Vedi Paul-Marie de La Gorce, "Washington et la maîtrise du monde", Le Monde diplomatique, aprile 1992

(3) Intervista con Journal du dimanche, Parigi, 17 agosto 2008.

(4) Bloomberg News, 12 agosto 2008, www.bloomberg.com

(5) Zbigniew Brzezinski, The Great Chessboard.


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