20 settembre 2008

Un fallimento dell'alta finanza



Nel tentativo di salvarsi dal disastro delle case e dei mutui a rischio, i famosi subprime, le maggiori banche d’investimento Usa, per rifarsi almeno in parte di una speculazione gigantesca e ormai finita male, hanno puntato sul petrolio. La crescita dei 50% in poche settimane del prezzo di riferimento è molto dovuta a loro. Mani forti che comperano a prezzi crescenti il petrolio futuro, spingendo per raggiungere il massimo ogni giorno di contrattazione, con la convinzione di poter presto rivendere i contratti a prezzi assai più alti.

Ma il petrolio e più in generale l’economia reale, le persone qualsiasi, non hanno dato retta.

Perfino la politica si è opposta. Tanto per dirne una, i due partiti, unanimi, alle loro Convenzioni, hanno in sostanza fatto capire che i vincoli ambientali sarebbero stati accantonati, secondo gli auspici di Sarah Palin, governatore dell’Alaska.

Il sistema della finanza bancaria Usa è rimasto con il cerino in mano. La quotazione del petrolio è rapidamente tornata entro confini più ragionevoli. Il dollaro, moneta che si usa per comprare il petrolio, ha ripreso anch’esso fiato e gli speculatori dei mondo finanziario hanno segnato altre perdite cui non avevano modo e forze per fare fronte. E il disastro, solo rimandato di poche settimane, si è ripresentato con ancora più impeto.

Parliamo di Lehman Brothers. Quinta banca americana, al 37° posto nella classifica di Fortune tra le 500 principali imprese Usa. Chiede la solidarietà delle altre maggiori strutture finanziarie e bancarie, senza però ottenere altro che belle parole. Non muove un dito Citigroup che è all’8° posto della classifica, tanto meno Bankamerica che è all’ 11°, o Goldman Sachs al 20° o Morgan Stanley al 21°. Lehman è diventato un concorrente che si può eliminare, in una lotta di tutti contro tutti. Non intervengono i cavalieri bianchi dell’Europa che pure hanno promesso il loro aiuto. La solidarietà in quell’alta finanza che ha dominato gli ultimi anni del secolo scorso e ancor più questo secolo, dando a ogni attività umana una cifra legata al valore (al valore di borsa) è sparita. Si ritorna alle scorrerie dei baroni ladri ottocenteschi.

Il guaio è che vi sono intrecci di capitale ingestibili. Gli azionisti di Lehman, quelli che hanno perso tutto il loro capitale, sono in parte gente comune, risparmiatori che si sono fidati, ma sono più che altro i compagni di avventure finanziarie di Lehman. Il principale azionista è la maggior compagnia assicurativa d’Europa, Axa che infatti fa subito precipitare la Borsa di Parigi. C’è George Soros, c’è Allianz, altro assicuratore europeo che ha fuso proprio ieri l’altro due principali banche tedesche. C’è la banca inglese Barclays, molto tentata a intervenire in appoggio. Ma i cocci di Lehman costano troppo e Bank of England, la famosa Old Lady, fa capire che è meglio di no. E ci sono tutti i concorrenti americani di Lehman, le banche prima citate.

La Fed, Banca centrale, ci pensa un po’ e non interviene. Lascia che Lehman chieda la protezione dell’articolo 11, cioè dichiari la sua insolvenza al riparo di azioni di creditori. Non è disposta, la Fed, a finanziare le perdite di un’altra banca ancora. Il rischio, anzi la certezza, è che molti banchieri faranno la fila davanti alla porta per ottenere altrettanto.

Qualche giorno fa in una brillante intervista di Milena Gabbanelli (Il Sole 24 Ore, 9 settembre) un prestigioso banchiere, Matteo Arpe, ha raccontato la sua versione dei fatti. Entrato ventenne a Mediobanca con 1,2 milioni di stipendio, ne è uscito 13 anni dopo come alto direttore e 420 milioni di salario annuo. Era il 2000. Dopo ben 4 mesi di pausa in famiglia «con i miei figli, allora molto piccoli», eccolo a bordo di Lehman: «il mio stipendio era 10 volte superiore a quello in Mediobanca». Il secondo dei due stipendi, siamo portati a credere. Arpe non è rimasto a lungo da Lehman. Un banchiere sa cambiare lavoro. Diverso il caso di migliaia di impiegati, alla City di Londra. Oggi in quattromila ex Lehman non hanno più lavoro né lo stipendio di settembre e neppure vere prospettive. Ma che volete, è la finanza: sta creando valore.


di Guglielmo Ragozzino

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20 settembre 2008

Un fallimento dell'alta finanza



Nel tentativo di salvarsi dal disastro delle case e dei mutui a rischio, i famosi subprime, le maggiori banche d’investimento Usa, per rifarsi almeno in parte di una speculazione gigantesca e ormai finita male, hanno puntato sul petrolio. La crescita dei 50% in poche settimane del prezzo di riferimento è molto dovuta a loro. Mani forti che comperano a prezzi crescenti il petrolio futuro, spingendo per raggiungere il massimo ogni giorno di contrattazione, con la convinzione di poter presto rivendere i contratti a prezzi assai più alti.

Ma il petrolio e più in generale l’economia reale, le persone qualsiasi, non hanno dato retta.

Perfino la politica si è opposta. Tanto per dirne una, i due partiti, unanimi, alle loro Convenzioni, hanno in sostanza fatto capire che i vincoli ambientali sarebbero stati accantonati, secondo gli auspici di Sarah Palin, governatore dell’Alaska.

Il sistema della finanza bancaria Usa è rimasto con il cerino in mano. La quotazione del petrolio è rapidamente tornata entro confini più ragionevoli. Il dollaro, moneta che si usa per comprare il petrolio, ha ripreso anch’esso fiato e gli speculatori dei mondo finanziario hanno segnato altre perdite cui non avevano modo e forze per fare fronte. E il disastro, solo rimandato di poche settimane, si è ripresentato con ancora più impeto.

Parliamo di Lehman Brothers. Quinta banca americana, al 37° posto nella classifica di Fortune tra le 500 principali imprese Usa. Chiede la solidarietà delle altre maggiori strutture finanziarie e bancarie, senza però ottenere altro che belle parole. Non muove un dito Citigroup che è all’8° posto della classifica, tanto meno Bankamerica che è all’ 11°, o Goldman Sachs al 20° o Morgan Stanley al 21°. Lehman è diventato un concorrente che si può eliminare, in una lotta di tutti contro tutti. Non intervengono i cavalieri bianchi dell’Europa che pure hanno promesso il loro aiuto. La solidarietà in quell’alta finanza che ha dominato gli ultimi anni del secolo scorso e ancor più questo secolo, dando a ogni attività umana una cifra legata al valore (al valore di borsa) è sparita. Si ritorna alle scorrerie dei baroni ladri ottocenteschi.

Il guaio è che vi sono intrecci di capitale ingestibili. Gli azionisti di Lehman, quelli che hanno perso tutto il loro capitale, sono in parte gente comune, risparmiatori che si sono fidati, ma sono più che altro i compagni di avventure finanziarie di Lehman. Il principale azionista è la maggior compagnia assicurativa d’Europa, Axa che infatti fa subito precipitare la Borsa di Parigi. C’è George Soros, c’è Allianz, altro assicuratore europeo che ha fuso proprio ieri l’altro due principali banche tedesche. C’è la banca inglese Barclays, molto tentata a intervenire in appoggio. Ma i cocci di Lehman costano troppo e Bank of England, la famosa Old Lady, fa capire che è meglio di no. E ci sono tutti i concorrenti americani di Lehman, le banche prima citate.

La Fed, Banca centrale, ci pensa un po’ e non interviene. Lascia che Lehman chieda la protezione dell’articolo 11, cioè dichiari la sua insolvenza al riparo di azioni di creditori. Non è disposta, la Fed, a finanziare le perdite di un’altra banca ancora. Il rischio, anzi la certezza, è che molti banchieri faranno la fila davanti alla porta per ottenere altrettanto.

Qualche giorno fa in una brillante intervista di Milena Gabbanelli (Il Sole 24 Ore, 9 settembre) un prestigioso banchiere, Matteo Arpe, ha raccontato la sua versione dei fatti. Entrato ventenne a Mediobanca con 1,2 milioni di stipendio, ne è uscito 13 anni dopo come alto direttore e 420 milioni di salario annuo. Era il 2000. Dopo ben 4 mesi di pausa in famiglia «con i miei figli, allora molto piccoli», eccolo a bordo di Lehman: «il mio stipendio era 10 volte superiore a quello in Mediobanca». Il secondo dei due stipendi, siamo portati a credere. Arpe non è rimasto a lungo da Lehman. Un banchiere sa cambiare lavoro. Diverso il caso di migliaia di impiegati, alla City di Londra. Oggi in quattromila ex Lehman non hanno più lavoro né lo stipendio di settembre e neppure vere prospettive. Ma che volete, è la finanza: sta creando valore.


di Guglielmo Ragozzino

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