06 agosto 2008

La politica e le spie


Non sempre mi appasionano gli articoli del D'avanzo, anzi a volte mi irritano. Questa volta, in un gioco pericoloso fra caste, cerca un punto di equilibrio. Uno scontro fra caste dove cerca di mantenere un equilibrio innaturale. Lui rappresenta un potere che una casta ,politicamente bipartisan, vuole ridurre in un angolo.Invocare la democrazia in questo contesto è come chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. Un gioco al massacro dove tutti perdono e uno vince.... il banco.



MASSIMO D'Alema affronta l'affaire Telecom e preferisce guardare alla luna e non al dito. In questi giorni, molti, troppi hanno ritenuto di dover affrontare il "caso" dalla coda. Confondendo l'effetto con la causa, si sono occupati soltanto di quel dossier illegale - ora nelle mani della procura di Milano - che coinvolge Piero Fassino, come beneficiario di un fondo estero per conto dei Ds.

Nessuno ha avuto voglia curiosamente di porsi le domande più utili e necessarie: chi e perché ha commissionato quel dossier (a maggior ragione, se falso)? Un largo fronte istituzionale e politico (per la prima volta, in questa legislatura, bi-partisan) ha voluto esprimere una calda solidarietà a Fassino e l'ha chiusa lì. Come se l'affare fosse stretto (e si esaurisse) alla vittima dello spionaggio e della manipolazione e non riguardasse soprattutto lo spionaggio, gli spioni, i loro padroni, le ragioni nascoste della manipolazione.

È il cuore del problema che finalmente, con lucidità, D'Alema indica. Dice: "Questa montatura è stata costruita da qualcuno. Vorremmo capire chi è. Sicuramente hanno operato spie, provocatori. Hanno cercato di danneggiare la nostra immagine, infangarci, colpirci. Anche perché la vicenda Telecom ha toccato interessi forti nel Paese. C'era una volontà di vendetta, senza che mai si concretizzasse nulla. Perché non c'è nulla da trovare. Adesso però vogliamo che sia chiarito molto bene chi ha messo su questi dossier, chi ha fatto queste indagini". Il nodo da sciogliere è dunque questo: chi ha ordinato alla rete spionistica della Telecom il diffuso e meticoloso lavoro di dossieraggio?




D'Alema giudica però "un'operazione molto grave da un punto di vista professionale" aver riproposto, come ha fatto Repubblica, la testimonianza di Giuliano Tavaroli. E ci pare che incappi in una contraddizione: da un lato, chiede di sapere chi ha voluto metter su il dossier calunnioso; dall'altro, giudica "un'aggressione mediatica" raccogliere la testimonianza del capo "delle spie e dei provocatori" che svela, per la prima volta e in pubblico, il nome di chi gli ha ordinato quella manovra contro i Democratici di Sinistra.

Non è che le parole di Tavaroli siano oro colato, naturalmente. Dell'ambiguità della sua "confessione" abbiamo ripetutamente avvertito il lettore, ma è indubbio l'interesse pubblico ed esclusivamente giornalistico della sua testimonianza, per quanto critica possa essere. Tavaroli fa il nome di Marco Tronchetti Provera come il mandante di quel dossieraggio. Ci è parsa una notizia. E' un'accusa di cui Tavaroli dovrà rendere conto nel processo. Con ogni probabilità, sarà di nuovo interrogato dai pubblici ministeri. Con ogni probabilità, chiederà di avere un confronto con il presidente della Pirelli e, a quanto pare, raccoglierà in una memoria gli argomenti che possono sostenere la sua chiamata di correo. Si vedrà.

Quel che conta dire qui è che appare difficile sostenere che dar conto della "confessione" di Tavaroli sia "un'aggressione" e non giornalismo. Che non interpelli il diritto di cronaca, ma "i limiti di guardia a cui è giunto il rapporto tra politica e informazione". Ancora ieri Fassino ha ripetuto che "in causa non è la libertà di stampa" ma "il ricorso sistematico a manipolazioni e false verità che intossicano quotidianamente l'informazione" Anche in questo caso affiora - mi pare - una contraddizione che capovolge la scena. L'informazione che racconta la malattia del Paese, dei veleni che lo inquinano, dei detriti che ne condizionano le decisioni diventa, in questa interpretazione, addirittura una patologia e non una delle possibili terapie per immunizzare il discorso pubblico.

* * *

C'è stato un tempo che lucidi analisti delle cose nazionali hanno saputo scorgere, nel "nascosto" dello scandalo Telecom, "la malattia di un Paese" in quella "doppia debolezza" che costringe "le élites economiche e le élites politiche a vivere intrecciate: ne risulta un'opacità delle relazioni politiche-economiche che incentivano i comportamenti di cui devono poi occuparsi i tribunali" (Angelo Panebianco, Corriere della sera, 24 settembre 2004). Si scrisse ancora: "l'Idra italiana che a scadenza fissa si presenta sulla nostra scena è precisamente ciò che è oscuro ed è destinato a restare tale. Tuttavia, indoviniamo benissimo la mai sopita vocazione dei servizi di sicurezza a operare oltre i limiti legali, la costante presenza ai margini della classe dirigente di un sottobosco di intriganti, di faccendieri, di ex qualcosa, sempre pronti a vendere i propri servigi ma più spesso, forse, pronti a cercare di mettersi in proprio; indoviniamo l'esistenza di ingentissime disponibilità finanziarie occulte, frutto perlopiù di operazioni illegali, e infine avvertiamo benissimo il continuo rumore, dietro le quinte dell'ufficialità economica e politica, di un lavorio sordo fatto di favori, di ricatti, di relazioni più o meno sporche e più o meno segrete, di intercettazioni, di informazioni sulla vita privata e di quant'altro possa esserci di inconfessabile". (Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della sera, 27 settembre 2006).

Il quadro è quasi sovrapponibile, come si vede, con gli scenari illuminati da Tavaroli. In più, nella sua "confessione" tutta da verificare, si possono leggere i nomi, le circostanze, le manovre, le relazioni dell'"Idra" e leggere la trama di quegli "intriganti, faccendieri, ex qualcosa", la presenza di "risorse finanziarie occulte e operazioni illegali". Pare però che se l'informazione, anche per via della voce concretissima di un protagonista compromesso con i fatti, trova tracce e frammenti di quella nitida analisi diventa cattiva informazione.

Con un bizzarro doppio codice interpretativo, forse dovuto alla nuova congiuntura politica, diventa addirittura "complottismo". Addirittura "misterologia": "Una poderosa costruzione mentale che soddisfa l'esigenza primordiale di trovare un ordine nel caos, una connessione nel disordine, una trama nell'insensato" (Pierluigi Battista, Corriere della sera, 28 luglio 2008).

* * *

Omero credeva nei complotti. Credeva che "qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia era solo un riflesso dei complotti in atto nell'Olimpo". Poi ci è stato spiegato che la teoria sociale della cospirazione può essere soltanto figlia di quel teismo perché "deriva dall'abbandono di Dio e dalla conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?"". Chi può credere oggi ai complotti? Non si può credere - magari per frustrazione, impotenza, sfiducia, rancore - che ci sia non un vuoto, ma un altro pieno abitato da uomini, gruppi di potere, consorterie di pressione che coalizzate orientano, influenzano, decidono al nostro posto, contro di noi, contro il nostro futuro.

E' una teoria che dimentica, dice Karl Popper, una indistruttibile realtà della vita sociale: nessuna azione ha mai esattamente il risultato previsto. Le cose vanno sempre in un altro modo da come ce le siamo immaginate. Questo non vuol dire però che non esistano, nelle nostre azioni, scopi, obiettivi e strategie e alleanze. Il loro esito non sarà mai quello previsto. Le conseguenze saranno indesiderate e impreviste.

L'affaire Telecom è lì a dimostrarlo: tutti gli attori di quello straordinario lavorio sono usciti sconfitti. Piaccia non piaccia, allora, il giornalismo è questo. E' il racconto - anche approssimativo e controverso - di quelle azioni e di quelle strategie, a meno di non pensare che gli argomenti siano diventati ormai inutili; che non valga la pena di sapere "a che punto siamo"; che non possa esistere più una storia imparziale dei fatti o anche soltanto un giudizio. Un grande giornalista diceva che "non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e, prima o poi, la pubblica opinione li spazzerà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri".

* * *

Non conosco Piero Fassino, ma credo anch'io - come tutti - che sia un uomo onesto. La sua integrità dovrebbe farlo riflettere sull'errore che lo sta tentando. Pensare che l'informazione sia la malattia del Paese e non una delle necessarie terapie alle patologie della politica può essere una strada senza ritorno alla vigilia di una stagione che, in modo esplicito, vuole attenuare i contrappesi di un potere che non riconosce alcun limite a se stesso. Dove si canta una sola nota, le parole - anche quelle di Fassino - non conteranno più.

Giuseppe d'Avanzo

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06 agosto 2008

La politica e le spie


Non sempre mi appasionano gli articoli del D'avanzo, anzi a volte mi irritano. Questa volta, in un gioco pericoloso fra caste, cerca un punto di equilibrio. Uno scontro fra caste dove cerca di mantenere un equilibrio innaturale. Lui rappresenta un potere che una casta ,politicamente bipartisan, vuole ridurre in un angolo.Invocare la democrazia in questo contesto è come chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. Un gioco al massacro dove tutti perdono e uno vince.... il banco.



MASSIMO D'Alema affronta l'affaire Telecom e preferisce guardare alla luna e non al dito. In questi giorni, molti, troppi hanno ritenuto di dover affrontare il "caso" dalla coda. Confondendo l'effetto con la causa, si sono occupati soltanto di quel dossier illegale - ora nelle mani della procura di Milano - che coinvolge Piero Fassino, come beneficiario di un fondo estero per conto dei Ds.

Nessuno ha avuto voglia curiosamente di porsi le domande più utili e necessarie: chi e perché ha commissionato quel dossier (a maggior ragione, se falso)? Un largo fronte istituzionale e politico (per la prima volta, in questa legislatura, bi-partisan) ha voluto esprimere una calda solidarietà a Fassino e l'ha chiusa lì. Come se l'affare fosse stretto (e si esaurisse) alla vittima dello spionaggio e della manipolazione e non riguardasse soprattutto lo spionaggio, gli spioni, i loro padroni, le ragioni nascoste della manipolazione.

È il cuore del problema che finalmente, con lucidità, D'Alema indica. Dice: "Questa montatura è stata costruita da qualcuno. Vorremmo capire chi è. Sicuramente hanno operato spie, provocatori. Hanno cercato di danneggiare la nostra immagine, infangarci, colpirci. Anche perché la vicenda Telecom ha toccato interessi forti nel Paese. C'era una volontà di vendetta, senza che mai si concretizzasse nulla. Perché non c'è nulla da trovare. Adesso però vogliamo che sia chiarito molto bene chi ha messo su questi dossier, chi ha fatto queste indagini". Il nodo da sciogliere è dunque questo: chi ha ordinato alla rete spionistica della Telecom il diffuso e meticoloso lavoro di dossieraggio?




D'Alema giudica però "un'operazione molto grave da un punto di vista professionale" aver riproposto, come ha fatto Repubblica, la testimonianza di Giuliano Tavaroli. E ci pare che incappi in una contraddizione: da un lato, chiede di sapere chi ha voluto metter su il dossier calunnioso; dall'altro, giudica "un'aggressione mediatica" raccogliere la testimonianza del capo "delle spie e dei provocatori" che svela, per la prima volta e in pubblico, il nome di chi gli ha ordinato quella manovra contro i Democratici di Sinistra.

Non è che le parole di Tavaroli siano oro colato, naturalmente. Dell'ambiguità della sua "confessione" abbiamo ripetutamente avvertito il lettore, ma è indubbio l'interesse pubblico ed esclusivamente giornalistico della sua testimonianza, per quanto critica possa essere. Tavaroli fa il nome di Marco Tronchetti Provera come il mandante di quel dossieraggio. Ci è parsa una notizia. E' un'accusa di cui Tavaroli dovrà rendere conto nel processo. Con ogni probabilità, sarà di nuovo interrogato dai pubblici ministeri. Con ogni probabilità, chiederà di avere un confronto con il presidente della Pirelli e, a quanto pare, raccoglierà in una memoria gli argomenti che possono sostenere la sua chiamata di correo. Si vedrà.

Quel che conta dire qui è che appare difficile sostenere che dar conto della "confessione" di Tavaroli sia "un'aggressione" e non giornalismo. Che non interpelli il diritto di cronaca, ma "i limiti di guardia a cui è giunto il rapporto tra politica e informazione". Ancora ieri Fassino ha ripetuto che "in causa non è la libertà di stampa" ma "il ricorso sistematico a manipolazioni e false verità che intossicano quotidianamente l'informazione" Anche in questo caso affiora - mi pare - una contraddizione che capovolge la scena. L'informazione che racconta la malattia del Paese, dei veleni che lo inquinano, dei detriti che ne condizionano le decisioni diventa, in questa interpretazione, addirittura una patologia e non una delle possibili terapie per immunizzare il discorso pubblico.

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C'è stato un tempo che lucidi analisti delle cose nazionali hanno saputo scorgere, nel "nascosto" dello scandalo Telecom, "la malattia di un Paese" in quella "doppia debolezza" che costringe "le élites economiche e le élites politiche a vivere intrecciate: ne risulta un'opacità delle relazioni politiche-economiche che incentivano i comportamenti di cui devono poi occuparsi i tribunali" (Angelo Panebianco, Corriere della sera, 24 settembre 2004). Si scrisse ancora: "l'Idra italiana che a scadenza fissa si presenta sulla nostra scena è precisamente ciò che è oscuro ed è destinato a restare tale. Tuttavia, indoviniamo benissimo la mai sopita vocazione dei servizi di sicurezza a operare oltre i limiti legali, la costante presenza ai margini della classe dirigente di un sottobosco di intriganti, di faccendieri, di ex qualcosa, sempre pronti a vendere i propri servigi ma più spesso, forse, pronti a cercare di mettersi in proprio; indoviniamo l'esistenza di ingentissime disponibilità finanziarie occulte, frutto perlopiù di operazioni illegali, e infine avvertiamo benissimo il continuo rumore, dietro le quinte dell'ufficialità economica e politica, di un lavorio sordo fatto di favori, di ricatti, di relazioni più o meno sporche e più o meno segrete, di intercettazioni, di informazioni sulla vita privata e di quant'altro possa esserci di inconfessabile". (Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della sera, 27 settembre 2006).

Il quadro è quasi sovrapponibile, come si vede, con gli scenari illuminati da Tavaroli. In più, nella sua "confessione" tutta da verificare, si possono leggere i nomi, le circostanze, le manovre, le relazioni dell'"Idra" e leggere la trama di quegli "intriganti, faccendieri, ex qualcosa", la presenza di "risorse finanziarie occulte e operazioni illegali". Pare però che se l'informazione, anche per via della voce concretissima di un protagonista compromesso con i fatti, trova tracce e frammenti di quella nitida analisi diventa cattiva informazione.

Con un bizzarro doppio codice interpretativo, forse dovuto alla nuova congiuntura politica, diventa addirittura "complottismo". Addirittura "misterologia": "Una poderosa costruzione mentale che soddisfa l'esigenza primordiale di trovare un ordine nel caos, una connessione nel disordine, una trama nell'insensato" (Pierluigi Battista, Corriere della sera, 28 luglio 2008).

* * *

Omero credeva nei complotti. Credeva che "qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia era solo un riflesso dei complotti in atto nell'Olimpo". Poi ci è stato spiegato che la teoria sociale della cospirazione può essere soltanto figlia di quel teismo perché "deriva dall'abbandono di Dio e dalla conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?"". Chi può credere oggi ai complotti? Non si può credere - magari per frustrazione, impotenza, sfiducia, rancore - che ci sia non un vuoto, ma un altro pieno abitato da uomini, gruppi di potere, consorterie di pressione che coalizzate orientano, influenzano, decidono al nostro posto, contro di noi, contro il nostro futuro.

E' una teoria che dimentica, dice Karl Popper, una indistruttibile realtà della vita sociale: nessuna azione ha mai esattamente il risultato previsto. Le cose vanno sempre in un altro modo da come ce le siamo immaginate. Questo non vuol dire però che non esistano, nelle nostre azioni, scopi, obiettivi e strategie e alleanze. Il loro esito non sarà mai quello previsto. Le conseguenze saranno indesiderate e impreviste.

L'affaire Telecom è lì a dimostrarlo: tutti gli attori di quello straordinario lavorio sono usciti sconfitti. Piaccia non piaccia, allora, il giornalismo è questo. E' il racconto - anche approssimativo e controverso - di quelle azioni e di quelle strategie, a meno di non pensare che gli argomenti siano diventati ormai inutili; che non valga la pena di sapere "a che punto siamo"; che non possa esistere più una storia imparziale dei fatti o anche soltanto un giudizio. Un grande giornalista diceva che "non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e, prima o poi, la pubblica opinione li spazzerà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri".

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Non conosco Piero Fassino, ma credo anch'io - come tutti - che sia un uomo onesto. La sua integrità dovrebbe farlo riflettere sull'errore che lo sta tentando. Pensare che l'informazione sia la malattia del Paese e non una delle necessarie terapie alle patologie della politica può essere una strada senza ritorno alla vigilia di una stagione che, in modo esplicito, vuole attenuare i contrappesi di un potere che non riconosce alcun limite a se stesso. Dove si canta una sola nota, le parole - anche quelle di Fassino - non conteranno più.

Giuseppe d'Avanzo

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