03 agosto 2010

Dietro un conflitto incompreso



http://www.quipunet.it/rinascita/images/stories/internazionale/afghanistan_soldati500.jpg

Più si ripetono gli episodi in cui perdono la vita i nostri militari in Afghanistan, tanto meno la stampa gli dedica spazio. Sui giornali dura maggiormente la “scoperta” delle sniffate di cocaina alla discoteca Hollywood di Milano, con il contorno di starlette procaci e vip di mezza tacca. Non si tratta di censura, ma del disinteresse dell’opinione pubblica per quanto avviene nella lontana Kabul. La morte dei nostri due artificieri, mercoledì scorso, sarà così dimenticata presto.
Se lo stillicidio di caduti proseguirà con questo ritmo, è probabile che sparisca dalle prime pagine. Solo un coinvolgimento totale nel conflitto del nostro contingente, con un numero di morti molto elevato, riaccenderebbe l’interesse. L’Italia sta comunque combattendo, di fatto, una guerra. Come altro definire una situazione in cui il nostro esercito è impegnato quotidianamente contro un nemico al quale infligge perdite (molto più numerose di quanto si creda), subendone a sua volta, nel tentativo di difendere il territorio affidatogli? L’italiano medio, però, se ne va in ferie e ciò lo conforta, se mai ce ne fosse bisogno, sul fatto che il suo Paese vive in pace. Eppure, lo sforzo bellico che l’Italia sta compiendo, considerate le risorse ristrette, non è indifferente: quasi 4mila uomini schierati, oltre a tutti gli altri soldati impegnati nelle varie missioni internazionali.
L’opinione pubblica Usa percepisce le due guerre nelle quali Washington è impegnata non molto diversamente da noi. La vera emergenza nazionale, che turba la popolazione e infiamma la polemica, è costituita dall’onda nera del petrolio che minaccia le coste della Florida. Quello è il dramma vero perché si svolge dentro casa; le guerre sono qualcosa che accade lontano, una preoccupazione “astratta”. Sia Bush come Obama hanno deciso di non finanziare i costi assai elevati di Iraq e Afghanistan con l’aumento delle tasse, preferendo scaricarli su un debito pubblico che, pure, ha raggiunto una quota preoccupante. Sono così riusciti a “distrarre” ancora di più la popolazione, facendola sentire estranea allo sforzo bellico della nazione. C’è, poi, il welfare di guerra. L’aumento delle spese militari, oltre a ingrassare le aziende del settore, produce anche un certo numero di posti di lavoro non disprezzabile in questa fase di aumento della disoccupazione.
Spesso, nel giudicare le difficoltà delle nuove guerre Usa, si fa riferimento al Vietnam. E’ un paragone da usare con molta precauzione, perché non si deve innanzitutto dimenticare che i soldati mandati combattere in Indocina erano reclutati attraverso la leva, mentre oggi si tratta di professionisti. Il Vietnam era un incubo per tutti i giovani statunitensi dell’epoca (anche se alcuni riuscivano ad assicurarsi in vario modo l’esenzione) l’Iraq e l’Afghanistan, almeno per quanto riguarda la truppa, sono un affare dei più poveri e dei nuovi immigrati. Tutta gente che non fa tendenza e della cui esistenza la grande classe media si può facilmente dimenticare. Non c’è stato quindi, né c’è da aspettarselo in futuro, un revival del grande movimento pacifista che, all’epoca, mise in difficoltà la Casa Bianca.
Le nuove guerre occidentali guidate dagli Usa interessano segmenti molto limitati della popolazione. La propaganda le ha chiamate in vario modo per esorcizzare la parola tabù guerra, con definizioni che convergono nel rappresentarle come operazioni di polizia internazionale. E’ un falso perché si tratta di vere e proprie guerre, con alte perdite fra i guerriglieri e la popolazione civile e con battaglie combattute per impossessarsi di zone del territorio controllate dal nemico, come nei conflitti tradizionali. L’uso del termine polizia ha però un senso per le popolazioni degli Usa e dei Paesi al loro seguito: i soldati partiti per quei territori stanno facendo nient’altro del loro dovere di professionisti, ovvero sconfiggere i delinquenti e mantenere l’ordine. Come non ci si emoziona più di tanto per i pericoli che affrontano, nel loro lavoro, i poliziotti in patria, così non ci si sente partecipi della missione di altri professionisti che fanno più o meno le stesse cose all’estero.
Le guerre ineguali, come le definisce Alessandro Colombo per via dell’enorme disparità di mezzi fra le parti in lotta, rappresentano la forma della privatizzazione della guerra. Non casualmente vi partecipa un enorme numero dei cosiddetti contractor, i militari stipendiati da compagnie private. E’ un aspetto di cui si parla ancora troppo poco, ma potrebbe rappresentare il futuro dei conflitti armati, che verrebbero appaltati quasi in esclusiva ai nuovi mercenari. In fin dei conti, non sarebbe neanche una novità storica in assoluto, ma una riedizione, in grandi dimensioni, delle compagnie di ventura con cui i principi italiani si combattevano durante il Rinascimento.
La privatizzazione attuale della guerra, però, si inserisce nel generale processo di privatizzazione del mondo, che non risparmia nemmeno risorse essenziali come l’acqua. Sarà un caso -ma se lo è si tratta di un caso veramente propizio alla comprensione delle trasformazioni in atto- che la Serbia, dove la Fiat intende trasportare una parte delle sue produzioni, sottraendola a Mirafiori, sia stato uno dei Paesi ad avere subito sul proprio territorio un’operazione di polizia internazionale. Nel 1999 l’Italia svolse un ruolo essenziale in quella aggressione, fornendo le basi per gli aerei che effettuavano i bombardamenti. Oggi, la nostra maggiore azienda “investe” proprio in quel Paese che il governo italiano, con le sue decisioni, contribuì a devastare. La fabbrica dove produrrà la Fiat è la Zastava, di cui lo Stato serbo pagherà la bonifica: 370 tonnellate di sostanze nocive procurate proprio da un bombardamento della Nato. Più simbolico di così.
Le condizioni offerte da Belgrado sono estremamente allettanti per Marchionne: la Fiat per dieci anni non pagherà tasse e riceverà 10mila euri di finanziamento pubblico per ogni assunzione, mettendoci, di tasca propria, solo 350 milioni del miliardo di investimento totale. Aggiungeteci che la paga media di un operaio serbo è di circa 400 euri al mese e capirete che per il Lingotto si tratta di un affarone. Simili condizioni di dumping sociale, che non si trovano nemmeno in Cina, le può però offrire solo uno Stato disperato, che prima è stato messo al guinzaglio con le maniere forti ed oggi viene “premiato” con il lavoro. I vertici Fiat e molti opinionisti affermano che, “ovviamente”, un’azienda globalizzata produce dove le condizioni di mercato sono migliori. Una logica stringente per chi pensa al lavoro solo come questione privata. Di cosa si lamentano dunque gli operai di Torino? Non li leggono gli editoriali dei maggiori quotidiani, in cui si esalta la globalizzazione che, cancellando i confini, toglierà finalmente di mezzo le nefaste rigidità degli Stati nazionali con tutte le loro lentezze politiche?

di Roberto Zavaglia

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03 agosto 2010

Dietro un conflitto incompreso



http://www.quipunet.it/rinascita/images/stories/internazionale/afghanistan_soldati500.jpg

Più si ripetono gli episodi in cui perdono la vita i nostri militari in Afghanistan, tanto meno la stampa gli dedica spazio. Sui giornali dura maggiormente la “scoperta” delle sniffate di cocaina alla discoteca Hollywood di Milano, con il contorno di starlette procaci e vip di mezza tacca. Non si tratta di censura, ma del disinteresse dell’opinione pubblica per quanto avviene nella lontana Kabul. La morte dei nostri due artificieri, mercoledì scorso, sarà così dimenticata presto.
Se lo stillicidio di caduti proseguirà con questo ritmo, è probabile che sparisca dalle prime pagine. Solo un coinvolgimento totale nel conflitto del nostro contingente, con un numero di morti molto elevato, riaccenderebbe l’interesse. L’Italia sta comunque combattendo, di fatto, una guerra. Come altro definire una situazione in cui il nostro esercito è impegnato quotidianamente contro un nemico al quale infligge perdite (molto più numerose di quanto si creda), subendone a sua volta, nel tentativo di difendere il territorio affidatogli? L’italiano medio, però, se ne va in ferie e ciò lo conforta, se mai ce ne fosse bisogno, sul fatto che il suo Paese vive in pace. Eppure, lo sforzo bellico che l’Italia sta compiendo, considerate le risorse ristrette, non è indifferente: quasi 4mila uomini schierati, oltre a tutti gli altri soldati impegnati nelle varie missioni internazionali.
L’opinione pubblica Usa percepisce le due guerre nelle quali Washington è impegnata non molto diversamente da noi. La vera emergenza nazionale, che turba la popolazione e infiamma la polemica, è costituita dall’onda nera del petrolio che minaccia le coste della Florida. Quello è il dramma vero perché si svolge dentro casa; le guerre sono qualcosa che accade lontano, una preoccupazione “astratta”. Sia Bush come Obama hanno deciso di non finanziare i costi assai elevati di Iraq e Afghanistan con l’aumento delle tasse, preferendo scaricarli su un debito pubblico che, pure, ha raggiunto una quota preoccupante. Sono così riusciti a “distrarre” ancora di più la popolazione, facendola sentire estranea allo sforzo bellico della nazione. C’è, poi, il welfare di guerra. L’aumento delle spese militari, oltre a ingrassare le aziende del settore, produce anche un certo numero di posti di lavoro non disprezzabile in questa fase di aumento della disoccupazione.
Spesso, nel giudicare le difficoltà delle nuove guerre Usa, si fa riferimento al Vietnam. E’ un paragone da usare con molta precauzione, perché non si deve innanzitutto dimenticare che i soldati mandati combattere in Indocina erano reclutati attraverso la leva, mentre oggi si tratta di professionisti. Il Vietnam era un incubo per tutti i giovani statunitensi dell’epoca (anche se alcuni riuscivano ad assicurarsi in vario modo l’esenzione) l’Iraq e l’Afghanistan, almeno per quanto riguarda la truppa, sono un affare dei più poveri e dei nuovi immigrati. Tutta gente che non fa tendenza e della cui esistenza la grande classe media si può facilmente dimenticare. Non c’è stato quindi, né c’è da aspettarselo in futuro, un revival del grande movimento pacifista che, all’epoca, mise in difficoltà la Casa Bianca.
Le nuove guerre occidentali guidate dagli Usa interessano segmenti molto limitati della popolazione. La propaganda le ha chiamate in vario modo per esorcizzare la parola tabù guerra, con definizioni che convergono nel rappresentarle come operazioni di polizia internazionale. E’ un falso perché si tratta di vere e proprie guerre, con alte perdite fra i guerriglieri e la popolazione civile e con battaglie combattute per impossessarsi di zone del territorio controllate dal nemico, come nei conflitti tradizionali. L’uso del termine polizia ha però un senso per le popolazioni degli Usa e dei Paesi al loro seguito: i soldati partiti per quei territori stanno facendo nient’altro del loro dovere di professionisti, ovvero sconfiggere i delinquenti e mantenere l’ordine. Come non ci si emoziona più di tanto per i pericoli che affrontano, nel loro lavoro, i poliziotti in patria, così non ci si sente partecipi della missione di altri professionisti che fanno più o meno le stesse cose all’estero.
Le guerre ineguali, come le definisce Alessandro Colombo per via dell’enorme disparità di mezzi fra le parti in lotta, rappresentano la forma della privatizzazione della guerra. Non casualmente vi partecipa un enorme numero dei cosiddetti contractor, i militari stipendiati da compagnie private. E’ un aspetto di cui si parla ancora troppo poco, ma potrebbe rappresentare il futuro dei conflitti armati, che verrebbero appaltati quasi in esclusiva ai nuovi mercenari. In fin dei conti, non sarebbe neanche una novità storica in assoluto, ma una riedizione, in grandi dimensioni, delle compagnie di ventura con cui i principi italiani si combattevano durante il Rinascimento.
La privatizzazione attuale della guerra, però, si inserisce nel generale processo di privatizzazione del mondo, che non risparmia nemmeno risorse essenziali come l’acqua. Sarà un caso -ma se lo è si tratta di un caso veramente propizio alla comprensione delle trasformazioni in atto- che la Serbia, dove la Fiat intende trasportare una parte delle sue produzioni, sottraendola a Mirafiori, sia stato uno dei Paesi ad avere subito sul proprio territorio un’operazione di polizia internazionale. Nel 1999 l’Italia svolse un ruolo essenziale in quella aggressione, fornendo le basi per gli aerei che effettuavano i bombardamenti. Oggi, la nostra maggiore azienda “investe” proprio in quel Paese che il governo italiano, con le sue decisioni, contribuì a devastare. La fabbrica dove produrrà la Fiat è la Zastava, di cui lo Stato serbo pagherà la bonifica: 370 tonnellate di sostanze nocive procurate proprio da un bombardamento della Nato. Più simbolico di così.
Le condizioni offerte da Belgrado sono estremamente allettanti per Marchionne: la Fiat per dieci anni non pagherà tasse e riceverà 10mila euri di finanziamento pubblico per ogni assunzione, mettendoci, di tasca propria, solo 350 milioni del miliardo di investimento totale. Aggiungeteci che la paga media di un operaio serbo è di circa 400 euri al mese e capirete che per il Lingotto si tratta di un affarone. Simili condizioni di dumping sociale, che non si trovano nemmeno in Cina, le può però offrire solo uno Stato disperato, che prima è stato messo al guinzaglio con le maniere forti ed oggi viene “premiato” con il lavoro. I vertici Fiat e molti opinionisti affermano che, “ovviamente”, un’azienda globalizzata produce dove le condizioni di mercato sono migliori. Una logica stringente per chi pensa al lavoro solo come questione privata. Di cosa si lamentano dunque gli operai di Torino? Non li leggono gli editoriali dei maggiori quotidiani, in cui si esalta la globalizzazione che, cancellando i confini, toglierà finalmente di mezzo le nefaste rigidità degli Stati nazionali con tutte le loro lentezze politiche?

di Roberto Zavaglia

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