06 agosto 2010

Se si dice “mafia del fisco”…








Non è una locuzione ad effetto né un verbalismo emotivo: è la definizione precisa (forse scientificamente precisa) di un settore dello Stato capitalista – e quindi dello Stato capitalista senz’altro (c’è chi dice, ma a me non piace, tout court). Lo Stato capitalista definisce sé stesso con buona pace di coloro – e sono tanti ! – che si ostinano a considerare il capitalismo solo un’economia. Assolutamente no. Il capitalismo è anzitutto un costume, mutuato dalla giungla (dove l’uomo è nato), che consiste nella tendenza a rispondere alle pulsioni esistenziali attraverso la predazione, con oggetto la natura e lo stesso uomo. Il capitalismo è l’antropomorfizzazione della predazione: un’antropofagia bell’e buona certamente in versioni surrettizie.
Finché il rapporto sociale con i propri simili è improntato alla competitività ovvero alla possibilità di diventare forte e dominante, sempre attraverso la multiforme predazione, è ozioso – se non ridicolo – parlare di “amore del prossimo” (anche se la Chiesa, che ha indole capitalistica, lo fa) od anche di “sovranità” repubblicana del cittadino perché sovrani saranno solo i cittadini dominanti, cioè i predatori più forti. La costituzione repubblicana in vesta capitalistica è la caricatura di sé stessa.
Lo Stato capitalista non solo mette il cittadino contro il cittadino, anzi il fratello contro il fratello ma esso stesso si pone in posizione di ostilità nei riguardi del cittadino dal momento che lo considera anzitutto un soggetto da depredare (da prima che nasca) esattamente come le varie mafie considerano le loro vittime. Con la differenza che mentre le mafie devono ricorrere a forme di violenza ritenuta criminale e quindi perseguibile, lo Stato dispone di strumenti coercitivi da esso stesso ritenuti legali e se ne serve con rischio bassissimo o nullo di essere incriminato e condannato.
Si ha un bel parlare di crescita civile finché lo Stato, in quanto capitalista, resta, per il cittadino povero un “mostro divoratore”, che lo può cogliere perfino di sorpresa (come è il caso emblematico in questione). Essere colto di sorpresa significa cadere in un agguato, proprio come in una giungla. Questo non avverrebbe se lo Stato non fosse il cane da guardia degli affaristi e dei potenti, (cfr. Marx) ovvero se fosse Stato ovvero avesse la sovranità monetaria – che esclude qualsiasi debito pubblico, pretesto fiscale – cioè se fosse coniatore e padrone della moneta secondo fabbisogno e se, nel contempo, fosse il beneficiario del circuito produzione-vendita. In questo caso, lo Stato potrebbe fissare i prezzi – valori convenzionali – dei beni e dei servizi e, pertanto, potrebbe fare a meno del fisco – cioè del recupero della liquidità monetaria – diretto e indiretto – o ridurlo ad una voce simbolica. L’esperienza sovietica ha molto da insegnare a questo proposito.
Lo Stato capitalista in quanto tale rimane un “attentatore al passo” del cittadino qualsiasi, pericoloso in misura direttamente proporzionale alla povertà di questo. Non solo il prelievo fiscale si limita a scalfire la corazza del superfluo del cosiddetto ricco o benestante ma questo stesso è perfino in condizione di corrompere i predatori statali. La costituzione repubblicana prevede perfino - all’art. 53 – un “sistema tributario” – alias fiscale – “informato a criterio di progressività”. La giustizia fiscale è per sé stessa già in partenza una menzogna perché, mentre fa rifluire moneta nella casse dello Stato, dilata il divario che già separa ricchi e poveri. Giustizia ci può essere solo nel caso in cui il fisco prelevi solo dal superfluo.
La seconda mostruosità è data dalle imposte indirette che colpiscono i consumi, dagli essenziali ai voluttuari nella totale astrazione dei soggetti, che possono essere degli epuloni e dei poveri cristi. Imposta indiretta sta per “imposta alla cieca” e questo spiega tutto. Così l’enorme tassa (detta “accisa”), che grava sulla benzina, colpisce indifferentemente il consumatore di auto di lusso e il povero diavolo che si serve di una carretta per motivi di lavoro. La sola imposta indiretta cancella l’art. 53 della Costituzione repubblicana.
Non è tutto. Vi è una “predazione fiscale” vera e propria, che fa del fisco una mafia propriamente detta non soltanto in senso allegorico. Se nella denuncia dei redditi ci sono comunque parametri da rispettare e se, a proposito delle imposte indirette, il valore di riferimento rimane il consumo immediato, il terzo settore non ha alcun punto di riferimento se non la volontà del legislatore ovvero l’imperio della Legge che dice “devi pagare perché te lo ordino io”. E’ quello della carta bollata, alla quale si possono equiparare i crescenti ticket sanitari. Questi sono miserabili espedienti attraverso cui lo Stato capitalista fa mercato di frammenti di un servizio spacciato per gratuito.
L’immagine del Moloch fiscale, anche a proposito del terzo settore – o della carta bollata – è quello dello Stato, mostro nemico e senza pietà, che acconsente alla procedura barbarica di sfratto anche per povertà per salvare il principio sacrosanto della proprietà. Esattamente come una mafia deve salvare la parola sacra del boss! E ben a ragione possiamo parlare di “pizzi”. I quali sono numerosi, imprevedibili e indecifrabili. Paghiamo il pizzo solo per posteggiare un mezzo di locomozione usato per andare visitare un degente.
Al pedaggio medioevale è succeduto l’autaggio dell’èra tecnologica. Paghiamo il pizzo alla Rai, definito, non solo per ridere, “canone di abbonamento”. Dobbiamo rinnovare la patente: ci sono più pizzi da pagare. Dobbiamo rottamare la nostra carriola? Dobbiamo pagare un pizzo. Una qualunque operazione immobiliare comporta una serie di pizzi, tutti perentori e senza respiro. Abbiamo bisogno di farci ragione? Prepariamoci a sostenere una serie di pizzi, privati e pubblici. L’uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge – recitata dall’art. 3 della Costituzione – non può che essere un flatus vocis.
Chi scrive “vanta” esperienze didattiche. Avevo ragione di pretendere che il mio amministratore condominiale non conservasse molti milioni delle vecchie lire di pertinenza condominiale nel proprio conto corrente, ritenuto un ovvio e scontato grave illecito. La sentenza di prima istanza ammise la buona fede del processato ed io, da imperdonabile ingenuo, preferìi non procedere all’appello. Ma l’avvocato della parte resistente, in agguato come vuole lo spirito della giungla, con la complicità del sistema, procedette da solo, senza un antagonista, fino ad una vittoria completa, giunta anni dopo quando l’€uro era già succeduto alla lira, e quando nessuna sentenza avrebbe più avuto alcun significato. Dell’esito ho saputo solo quando ho dovuto far fronte alla liquidazione delle spese, computate in ben 9 mila €uro, cioè in 18 milioni delle vecchie lire. La sentenza, che si è fatto gioco del diritto, è stata solo una grossa predazione di un legale, che si è limitato a scrivere qualche rigo e a pronunciare qualche parola.
Non è tutto. C’è la sorpresa dopo tre anni: la ciliegina sulla torta. Mi si chiede di pagare 192 €uro per mancata registrazione della sentenza in questione. Poiché la sentenza è bene conservata e ben recuperabile da chi ne abbia bisogno, registrazione sta semplicemente per pizzo, pizzo di Stato, di una “mafia del fisco” ovvero di una “mafia di Stato”. O forse no?
di Carmelo R. Viola -

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06 agosto 2010

Se si dice “mafia del fisco”…








Non è una locuzione ad effetto né un verbalismo emotivo: è la definizione precisa (forse scientificamente precisa) di un settore dello Stato capitalista – e quindi dello Stato capitalista senz’altro (c’è chi dice, ma a me non piace, tout court). Lo Stato capitalista definisce sé stesso con buona pace di coloro – e sono tanti ! – che si ostinano a considerare il capitalismo solo un’economia. Assolutamente no. Il capitalismo è anzitutto un costume, mutuato dalla giungla (dove l’uomo è nato), che consiste nella tendenza a rispondere alle pulsioni esistenziali attraverso la predazione, con oggetto la natura e lo stesso uomo. Il capitalismo è l’antropomorfizzazione della predazione: un’antropofagia bell’e buona certamente in versioni surrettizie.
Finché il rapporto sociale con i propri simili è improntato alla competitività ovvero alla possibilità di diventare forte e dominante, sempre attraverso la multiforme predazione, è ozioso – se non ridicolo – parlare di “amore del prossimo” (anche se la Chiesa, che ha indole capitalistica, lo fa) od anche di “sovranità” repubblicana del cittadino perché sovrani saranno solo i cittadini dominanti, cioè i predatori più forti. La costituzione repubblicana in vesta capitalistica è la caricatura di sé stessa.
Lo Stato capitalista non solo mette il cittadino contro il cittadino, anzi il fratello contro il fratello ma esso stesso si pone in posizione di ostilità nei riguardi del cittadino dal momento che lo considera anzitutto un soggetto da depredare (da prima che nasca) esattamente come le varie mafie considerano le loro vittime. Con la differenza che mentre le mafie devono ricorrere a forme di violenza ritenuta criminale e quindi perseguibile, lo Stato dispone di strumenti coercitivi da esso stesso ritenuti legali e se ne serve con rischio bassissimo o nullo di essere incriminato e condannato.
Si ha un bel parlare di crescita civile finché lo Stato, in quanto capitalista, resta, per il cittadino povero un “mostro divoratore”, che lo può cogliere perfino di sorpresa (come è il caso emblematico in questione). Essere colto di sorpresa significa cadere in un agguato, proprio come in una giungla. Questo non avverrebbe se lo Stato non fosse il cane da guardia degli affaristi e dei potenti, (cfr. Marx) ovvero se fosse Stato ovvero avesse la sovranità monetaria – che esclude qualsiasi debito pubblico, pretesto fiscale – cioè se fosse coniatore e padrone della moneta secondo fabbisogno e se, nel contempo, fosse il beneficiario del circuito produzione-vendita. In questo caso, lo Stato potrebbe fissare i prezzi – valori convenzionali – dei beni e dei servizi e, pertanto, potrebbe fare a meno del fisco – cioè del recupero della liquidità monetaria – diretto e indiretto – o ridurlo ad una voce simbolica. L’esperienza sovietica ha molto da insegnare a questo proposito.
Lo Stato capitalista in quanto tale rimane un “attentatore al passo” del cittadino qualsiasi, pericoloso in misura direttamente proporzionale alla povertà di questo. Non solo il prelievo fiscale si limita a scalfire la corazza del superfluo del cosiddetto ricco o benestante ma questo stesso è perfino in condizione di corrompere i predatori statali. La costituzione repubblicana prevede perfino - all’art. 53 – un “sistema tributario” – alias fiscale – “informato a criterio di progressività”. La giustizia fiscale è per sé stessa già in partenza una menzogna perché, mentre fa rifluire moneta nella casse dello Stato, dilata il divario che già separa ricchi e poveri. Giustizia ci può essere solo nel caso in cui il fisco prelevi solo dal superfluo.
La seconda mostruosità è data dalle imposte indirette che colpiscono i consumi, dagli essenziali ai voluttuari nella totale astrazione dei soggetti, che possono essere degli epuloni e dei poveri cristi. Imposta indiretta sta per “imposta alla cieca” e questo spiega tutto. Così l’enorme tassa (detta “accisa”), che grava sulla benzina, colpisce indifferentemente il consumatore di auto di lusso e il povero diavolo che si serve di una carretta per motivi di lavoro. La sola imposta indiretta cancella l’art. 53 della Costituzione repubblicana.
Non è tutto. Vi è una “predazione fiscale” vera e propria, che fa del fisco una mafia propriamente detta non soltanto in senso allegorico. Se nella denuncia dei redditi ci sono comunque parametri da rispettare e se, a proposito delle imposte indirette, il valore di riferimento rimane il consumo immediato, il terzo settore non ha alcun punto di riferimento se non la volontà del legislatore ovvero l’imperio della Legge che dice “devi pagare perché te lo ordino io”. E’ quello della carta bollata, alla quale si possono equiparare i crescenti ticket sanitari. Questi sono miserabili espedienti attraverso cui lo Stato capitalista fa mercato di frammenti di un servizio spacciato per gratuito.
L’immagine del Moloch fiscale, anche a proposito del terzo settore – o della carta bollata – è quello dello Stato, mostro nemico e senza pietà, che acconsente alla procedura barbarica di sfratto anche per povertà per salvare il principio sacrosanto della proprietà. Esattamente come una mafia deve salvare la parola sacra del boss! E ben a ragione possiamo parlare di “pizzi”. I quali sono numerosi, imprevedibili e indecifrabili. Paghiamo il pizzo solo per posteggiare un mezzo di locomozione usato per andare visitare un degente.
Al pedaggio medioevale è succeduto l’autaggio dell’èra tecnologica. Paghiamo il pizzo alla Rai, definito, non solo per ridere, “canone di abbonamento”. Dobbiamo rinnovare la patente: ci sono più pizzi da pagare. Dobbiamo rottamare la nostra carriola? Dobbiamo pagare un pizzo. Una qualunque operazione immobiliare comporta una serie di pizzi, tutti perentori e senza respiro. Abbiamo bisogno di farci ragione? Prepariamoci a sostenere una serie di pizzi, privati e pubblici. L’uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge – recitata dall’art. 3 della Costituzione – non può che essere un flatus vocis.
Chi scrive “vanta” esperienze didattiche. Avevo ragione di pretendere che il mio amministratore condominiale non conservasse molti milioni delle vecchie lire di pertinenza condominiale nel proprio conto corrente, ritenuto un ovvio e scontato grave illecito. La sentenza di prima istanza ammise la buona fede del processato ed io, da imperdonabile ingenuo, preferìi non procedere all’appello. Ma l’avvocato della parte resistente, in agguato come vuole lo spirito della giungla, con la complicità del sistema, procedette da solo, senza un antagonista, fino ad una vittoria completa, giunta anni dopo quando l’€uro era già succeduto alla lira, e quando nessuna sentenza avrebbe più avuto alcun significato. Dell’esito ho saputo solo quando ho dovuto far fronte alla liquidazione delle spese, computate in ben 9 mila €uro, cioè in 18 milioni delle vecchie lire. La sentenza, che si è fatto gioco del diritto, è stata solo una grossa predazione di un legale, che si è limitato a scrivere qualche rigo e a pronunciare qualche parola.
Non è tutto. C’è la sorpresa dopo tre anni: la ciliegina sulla torta. Mi si chiede di pagare 192 €uro per mancata registrazione della sentenza in questione. Poiché la sentenza è bene conservata e ben recuperabile da chi ne abbia bisogno, registrazione sta semplicemente per pizzo, pizzo di Stato, di una “mafia del fisco” ovvero di una “mafia di Stato”. O forse no?
di Carmelo R. Viola -

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