19 maggio 2008

Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?


In questa intervista al Prof. Costanzo Preve si analizza le crepe dell'attuale sistema finanziario e capitalistico. Le soluzioni? Al solito, tutti devono contribuire a risolvere ma, nessuno , in particolare, deve cominciare ad agire.

1) La grave crisi che investe il capitalismo globale pone problemi di ordine sia politico che sociale a tutt’oggi insolubili: trattasi di una crisi ciclica e/o evolutiva, oppure di una crisi sistemica del modello capitalista globalizzato? Si ripropone un vecchio interrogativo novecentesco: la crisi dell’attuale capitalismo assoluto è una crisi nel sistema o del sistema? I rincari progressivi delle materie prime e del settore alimentare, il terremoto finanziario dei mutui subprise, la situazione pre-fallimentare di alcuni colossi della finanza mondiale, le svalutazioni ripetute del dollaro, il calo verticale dei consumi con conseguente impoverimento e disoccupazione generalizzati, sono fenomeni che mettono in luce i costi economici, ambientali, sociali e politici di un ordinamento la cui sussistenza potrebbe essere messa in discussione dal fatto che esso non potrebbe essere più in grado di produrre nuove risorse rispetto a quante ne consuma nei cicli produttivi. Del resto i fattori generatori si questa crisi erano già da anni emersi attraverso le repentine crisi finanziarie succedutesi con lo scoppio delle varie bolle speculative: i guru dell’economia mondiale hanno per anni diffuso la teoria truffaldina secondo cui lo sviluppo abnorme di una economia finanziaria avulsa dalla economia reale avrebbe incrementato quest’ultima e avrebbe sopperito alle sue crisi. Che si sia verificato l’esatto contrario è ormai evidente. In realtà la speculazione finanziaria globale ha comportato il collasso di interi settori produttivi e ha avuto la funzione, mediante la creazione di un indebitamento generalizzato ( e globale!) di creare una enorme liquidità virtuale che ha drogato l’economia produttiva (vedi la diffusione del prestito al consumo), al fine mantenere livelli di consumo troppo elevati rispetto alle capacità di crescita della produzione. Al di là delle utopie marxiste smentite dalla storia del ‘900, il capitalismo oggi non potrebbe aver generato al suo interno quella crisi sistemica già annunciata da circa 150 anni, secondo cui esso non è più in grado di riprodurre nuove forse produttive? Il progressivo calo della produzione e dei consumi, la concentrazione nelle mani dell’oligopolio delle multinazionali di settori strategici dell’economia, con conseguente scomparsa della concorrenza e l’instaurazione di regimi di prezzi imposti, non sono fattori che potrebbero determinare una serie di collassi produttivi causati dalla conseguente rarefazione monetaria dal decremento vorticoso dei redditi e del potere d’acquisto delle popolazioni? Sembrano ripresentarsi i sintomi che hanno condotto alla implosione economica, prima che politica, dei paesi del socialismo reale. Dunque: anche il capitalismo potrebbe essere soggetto alla stessa sindrome dissolutiva. Sembra una improbabile futurologia, ma i presupposti ci sono tutti.

La descrizione che fai dei caratteri strutturali essenziali dell’attuale crisi economica internazionale derivata dalla globalizzazione del modello neoliberale della “società di mercato integrale”(SMI), da non confondere con la semplice e vecchia economia capitalistica di mercato della precedente epoca dello stato nazionale sovrano sulla moneta e sulla politica estera, mi sembra non solo corretta nell’essenziale, ma anche abbastanza esauriente e convincente. Sarebbe allora superfluo commentarla, essendo già esaustiva, ed è allora meglio discutere un punto solo: si tratta di una crisi di sistema o nel sistema? Nella mia concezione di riproduzione strutturale del capitalismo, non esistono crisi di sistema, ma soltanto ed esclusivamente crisi nel sistema, fino a quando forze storiche rivoluzionarie, che non si possono però costituire sul piano puramente economico (che è utilitarisco ed esclusivamente redistributivo per sua propria essenza insuperabile), ma devono costituirsi anche e soprattutto su di un piano culturale globale (culturale, non culturalistico o peggio intellettualistico), siano in grado di mettersi in movimento. Ed oggi queste forze ancora non si vedono.Viviamo ancora in mezzo alla fase dissolutiva delle vecchie forze del periodo precedente (destra e sinistra, comunismo ed anticomunismo, fascismo ed antifascismo laicismo e religione, eccetera). A suo tempo Marx ritenne che il capitalismo sarebbe caduto per una crisi di sistema, dovuta alla sua incapacità di sviluppare le forze produttive (con una analogia storica rivelatasi errata con le precedenti società precapitalistiche, schiavistiche e feudali) e che si sarebbe manifestata attraverso crisi ricorrenti di sovrapproduzione e di sottoconsumo permanenti. Ma l’esperienza storica dell’ultimo secolo ha dimostrato che il capitalismo si nutre di queste crisi di “dimagrimento”, e che è in grado di espellere le proprie tossine, anche se lo fa approfondendo la distruzione ecologica dell’ambiente e l’istupidimento e la manipolazione delle nuove plebi postmoderne di tipo ormai postborghese e postproletario.Vorrei ovviamente che fosse diversamente, e che il capitalismo stesse entrando in una crisi di sistema. Ma dopo decenni di economicismo crollistico “marxista”, da me sinceramente praticato e creduto, non ci credo oramai più, anche se questo, anziché indebolire il mio anticapitalismo, lo ha semmai invece rafforzato.


2) Il nuovo libro di Giulio Tremonti “La paura e la speranza” pone seri interrogativi circa l’attuale crisi del capitalismo. L’autore denomina l’ideologia del liberismo globale contemporaneo come “mercatismo”. Egli afferma: “Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comunismo sia del liberalismo. Sostituiti entrambi da un’ideologia nuova: il mercatismo, l’ultima follia ideologica del Novecento. Il liberalismo si basava su un principio di libertà applicato al mercato. Il comunismo su di una legge di sviluppo applicata alla società. Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al mercato una legge di sviluppo lineare e globale”. L’assolutizzazione del mercato avrebbe prodotto l’omologazione dell’uomo alla doppia funzione di produttore e consumatore. Il mercatismo “postula e fabbrica prima un nuovo tipo di , e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l’. Fonde insieme consumismo e comunismo. E così sintetizza un nuovo tipo di materialismo storico: , , ”. Tale nuovo materialismo storico, di carattere totalitario, sarebbe scaturito dalla doppia sconfitta del liberalismo e del comunismo. Il liberalismo, che secondo Tremonti, “non poggia su una legge assoluta, ma da un lato sul principio di libertà applicato al mercato, dall’altro lato su un apparato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa… Niente ricorda la complessa dinamica propria del vecchio liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio meccanico”. Che la genesi del pensiero liberale risieda in un principio di libertà applicato alla economia, appare un principio assai contraddittorio. In tal caso, sarebbe pensabile un liberalismo che, in nome della libertà rifiuti il mercato applicando i suoi principi a differenti modelli socioeconomici? Proprio in quanto esso postula una originaria libertà dell’individuo, indipendentemente dalle strutture sociali in cui esso vive e non esistono fedi e/o ideali presupposti all’individuo stesso, quest’ultimo è contraddistinto dal suo agire materiale esclusivamente volto alla propria autoconsevazione economica. Non è quindi il principio economico a definire la libertà, i diritti individuali e le istituzioni politiche? Mi sembra inoltre assai dubbio che la società liberale, all’opposto di quella comunista, non abbia a proprio fondamento una “legge”. Non si spiegherebbe infatti l’idea del progresso se non come una legge evolutiva dell’uomo e della società imposta proprio dalla ideologia liberale. Forse che per creare evoluzione e progresso il liberalismo non ha bisogno di uno stato e di istituzioni che impongano una politica, una legge, una cultura, un modello economico che guidino la società verso gli obiettivi stabiliti, nel contempo emarginando e reprimendo altre i dee e culture ad esso estranee? Inoltre il liberalismo attuale non ha forse le sue radici nelle leggi economiche oggi assurte a “presupposti metafisici” cui deve uniformarsi il mondo globalizzato? Infine, ci si chiede come il liberalismo che porta nel suo DNA l’idea del progresso cosmopolita e universale e l’espansione del proprio sistema economico e politico possa essere suscettibile di limitazioni o correzioni che ne possano impedire la propria degenerazione nel mercatismo.

La sostituzione di Padoa Schioppa con Giulio Tremonti, esito delle recenti elezioni politiche dell’aprile 2008, è ovviamente un fatto benefico per la nazione italiana, perché vede un critico moderato (ed a mio avviso purtroppo ancora inconseguente, ma è questo che passa il convento per ora) del mercatismo neoliberista della globalizzazione, che è il nemico principale oggi degli individui, delle classi oppresse, dei popoli, delle nazioni e del diritto internazionale fra stati (teologia interventistica dei diritti umani, dittatura del politicamente corretto, clero intellettuale degenerato di tipo mediatico-universitario, eccetera), sostituire un fantoccio oligarchico delle agenzie USA di rating ed un rappresentante del binomio che correttamente La Grassa chiama GF/ID (grande finanza e industria decotta).

Sono anche da apprezzare le aperture di Tremonti verso il comunitarismo. E tuttavia l’inserimento di Tremonti nel blocco politico a guida berlusconiana trasforma il comunitarismo di Tremonti in comunitarismo puramente verbale, virtuale ed ineffettuale. Nessuna ingegneria genetica potrà far funzionare un clone alla Frankenstein in cui un cuore comunitario (Tremonti) coesista con un cervello neoliberale e mercatista (Berlusconi). Vi sono infatti due vincoli strutturali esterni che impediscono ogni possibile comunitarismo in Europa. In primo luogo, la Banca Centrale Europea e le bande ultraliberali del funzionariato di Bruxelles, vere e proprie stalle di Augia che bisognerebbe distruggere dalle fondamenta, cosa purtroppo impossibile, perché un nuovo 1789 è ancora lontano. In secondo luogo, le basi militari USA in territorio europeo, guidate spiritualmente dal clero sionista, che per “comunità” intendono l’occidentalismo imperiale euro-americano in crociata contro l’islam e gli “stati canaglia” indicati dal Dipartimento di Stato USA. È questo il “comunitarismo” di Bondi e di Pera, cui è del tutto subalterno il comunitarismo localistico di Bossi, che ha come tallone d’Achille non tanto il cosiddetto “razzismo” (il solo razzismo che conosco in Italia è lo snobismo con la puzza sotto al naso alla Nanni Moretti), quanto proprio la subalternità provincialistica alla strategia di guerra di civiltà USA con consulenza sacerdotale sionista (chiusura di moschee, eccetera). Detto questo, in un mondo di analfabeti Tremonti resta un intellettuale di valore. Ma rischia di essere, per così dire, l’Ingrao di Berlusconi. Come Ingrao chiacchierava, ma solo i cooperatori emiliani contavano nel PCI, nello stesso modo Tremonti può anche dire cose intelligenti, ma solo Bush e Berlusconi comandano.

3) La seconda parte del libro di Tremonti, dedicata alla speranza, prende le mosse dalla decadenza dell’Europa. La fine delle ideologie del ‘900, con tutte le tragedie che hanno prodotto, ha comportato anche il dissolversi della cultura, delle tradizioni, della memoria storica europea. L’Europa ha smarrito la sua identità e i suoi valori. Egli afferma: “Identità e valori sono due facce della stessa medaglia. L’identità è fatta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni . In una parola, nella prevalenza dei loro valori”. L’autore quindi contrappone all’economicismo della UE l’idea comunitaria, quale matrice della nostra originaria “differenza” che definisce l’identità, il “noi” necessario alla instaurazione della dialettica “noi-altri”. L’Europa accoglie l’altro senza essere sé stessa. L’Europa, già madre di tutte le rivoluzioni oggi sembra esangue ed esaurita: “Eppure serve un’altra rivoluzione per resistere all’incalzare, all’incombere di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia dell’Europa, non viene da dentro e non si fa dentro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella dalla globalizzazione”. L’Europa sembra essersi omologata alla cultura universalistica della “eguaglianza indifferenziata e di importazione libera, categorie queste progressivamente estese dalle persone alle merci. Diventa così automatica la tendenza ad accettare a scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perché viene da fuori”. Ma, a mio avviso, l’idea comunitaria è necessaria alla sussistenza di una identità nella misura in cui contraddice i presupposti ideologici e politici della globalizzazione. Quest’ultima è un fenomeno totalizzante che può affermarsi solo sulla dissoluzione delle comunità tradizionali. Nello stesso modo il liberalismo poté affermarsi con la scomparsa del mondo feudale premoderno. Nella dialettica “noi-altri”, occorre rilevare che l’identità europea non può essere rivendicata come un fenomeno nazionale-identitario, cioè facendo leva sui valori del sangue e della terra. Il pensiero fondamentale della cultura europea è necessariamente universalista, suscettibile di essere confrontato e condiviso con tutta l’umanità. Forse il suo attuale oscuramento è dovuto ad una morte (provvisoria) per asfissia, conseguente alla riduzione dell’Europa entro la propria area geografica, come provincia dell’occidente americanista. Affermare una identità europea tra le tante sparse nel mondo, sarebbe un non senso, per una impostazione filosofica elaborata su problematiche concepite come strutture portanti ed idonee a generare sintesi dai contenuti universali perché aperte ad ogni contributo esterno che può a sua volta universalizzarsi come parte integrante di un pensiero universale.

Constato con piacere che tu individui con precisione i due elementi deboli della versione comunitario-europea di Tremonti. Da un lato, oggi l’Europa è di fatto solo una provincia geografica dell’occidente americanista, e lo stesso Ratzinger, sul quale avevo anch’io ingenuamente “puntato” per la sua nobile critica filosofica al nichilismo ed al relativismo, è andato negli USA ad avallare “spiritualmente” l’abbietta visione del mondo dell’occidentalismo USA e della sua teologia nazista dei diritti umani (il termine è linguisticamente pesante, ma anche “pesato” prima di scriverlo). Certo, so bene che la sua agenda è stata scritta prima del viaggio sulla base del ricatto dei preti pedofili (peraltro realmente esistiti), ricatto ampiamente esagerato dai circoli fondamentalisti protestanti e sionisti che controllano i mezzi di comunicazione di massa negli USA, ma ciò che conta è il risultato, e cioè che Ratzinger è andato a benedire il Grande Terrorista (Bush) contro il Piccolo Terrorista (Bin Laden).

In secondo luogo, tu affermi che l’identità europea non può essere rivendicata come fenomeno geografico nazionale-identitario, ma deve essere ricostruita e difesa come un pensiero necessariamente universalista, da non imporre ma da proporre (appunto, non “imporre” ma “proporre”), confrontare e condividere con tutta l’umanità. Sono pienamente d’accordo con questo modo di impostare la questione, in cui non vedo nessuna arroganza eurocentrica e nessuna nostalgia colonialistica e imperialistica, ma una semplice sobria e moderata rivendicazione di dialogo universalistico. Non ho mai condiviso il relativismo comunitario alla Richard Rorty, neppure nelle versioni “comuniste” alla Gianni Vattimo, ma ho invece sempre appoggiato le impostazioni universalistiche alla Hegel-Marx, pur consapevole della necessità di attuare una profonda “riforma” della loro dialettica troppo spesso necessitaristica e teleologica (“riforma” intendo, non “controriforma”, come talvolta è avvenuto in Croce e Gentile). Chi segue la via del “particolarismo europeo”, magari con le migliori intenzioni soggettive, finirà con il confluire, volente o nolente, nell’occidentalismo a guida USA ed a sacrdozio levitico sionista (sia chiaro-non “ebraico”, ma sionista). Ci sta qui il più importante nodo filisofico-sociale e politico dei prossimi decenni. Tanto vale impostarlo fin da subito nei suoi tratti generali, come tu fai in modo concettualmente chiaro e felice.

4) Non si sa se la crisi del capitalismo globale possa determinare una implosione generalizzata di un modello economico dominante. Probabilmente no, dato che nessuna causa esterna può metterne in dubbio la prevalenza, né il capitalismo assoluto sembra in grado di riformarsi ed evolversi verso altre forme di sviluppo economico e sociale. La geopolitica pone limiti per ora invalicabili per trasformazioni epocali almeno a breve e medio termine: non è in discussione infatti il primato mondiale degli USA, pur se tra infinite contraddizioni, crisi, crepe evidenti. Non sembra peraltro che la globalizzazione possa determinare la fine degli stati, come più volte annunciato. Queste false profezie sono smentite dal ruolo predominante che gli stati assumono nelle crisi economiche nel mondo liberista. Negli USA è lo stato che scongiura crack finanziari ricoprendo il ruolo di debitore in ultima istanza, immette liquidità nel mercato, svaluta il dollaro per ridurre l’indebitamento estero, per rendere competitiva l’economia americana, ha una funzione propulsiva nell’economia attraverso le guerre con l’industria degli armamenti. La stessa svolta liberista della Cina è stata resa possibile, in quanto imposta da uno stato totalitario. Stato e liberismo non sembrano essere termini antitetici, ma complementari. Riscontriamo tuttavia una palese contraddizione: nelle fasi di espansione economica, il liberismo si afferma in nome dell’anti-stato, mentre nelle fasi recessive, il liberalismo sopravvive grazie all’intervento dello stato. Nella stessa Cina, l’economia liberista si sviluppa perché lo stato impone uno sviluppo senza freni, senza diritti sindacali, garanzie previdenziali e assistenziali. Dobbiamo dunque concludere che il modello liberista sussiste in quanto sostenuto e garantito dallo stato. Inoltre, rileviamo che le nuove potenze asiatiche, non potranno mai rappresentare una alternativa al modello capitalista, né insediare il primato economico e politico americano. Le economie del mondo globalizzato sono infatti reciprocamente complementari ed interdipendenti: se la Cina costituisce il maggior bacino produttivo del capitalismo, a causa dei bassi costi di produzione, è il mercato finanziario occidentale a rappresentare il necessario sbocco per il reinvestimento dei profitti, così come accade per i paesi produttori di petrolio. Il paventato, futuribile primato economico cinese, non inficerebbe la struttura del capitalismo globale. Solo la politica unitaria di stati portatori di modelli di sviluppo diversi e alternativi potrebbe far venire meno gli automatismi economici della globalizzazione.
by luigi Tedeschi

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19 maggio 2008

Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?


In questa intervista al Prof. Costanzo Preve si analizza le crepe dell'attuale sistema finanziario e capitalistico. Le soluzioni? Al solito, tutti devono contribuire a risolvere ma, nessuno , in particolare, deve cominciare ad agire.

1) La grave crisi che investe il capitalismo globale pone problemi di ordine sia politico che sociale a tutt’oggi insolubili: trattasi di una crisi ciclica e/o evolutiva, oppure di una crisi sistemica del modello capitalista globalizzato? Si ripropone un vecchio interrogativo novecentesco: la crisi dell’attuale capitalismo assoluto è una crisi nel sistema o del sistema? I rincari progressivi delle materie prime e del settore alimentare, il terremoto finanziario dei mutui subprise, la situazione pre-fallimentare di alcuni colossi della finanza mondiale, le svalutazioni ripetute del dollaro, il calo verticale dei consumi con conseguente impoverimento e disoccupazione generalizzati, sono fenomeni che mettono in luce i costi economici, ambientali, sociali e politici di un ordinamento la cui sussistenza potrebbe essere messa in discussione dal fatto che esso non potrebbe essere più in grado di produrre nuove risorse rispetto a quante ne consuma nei cicli produttivi. Del resto i fattori generatori si questa crisi erano già da anni emersi attraverso le repentine crisi finanziarie succedutesi con lo scoppio delle varie bolle speculative: i guru dell’economia mondiale hanno per anni diffuso la teoria truffaldina secondo cui lo sviluppo abnorme di una economia finanziaria avulsa dalla economia reale avrebbe incrementato quest’ultima e avrebbe sopperito alle sue crisi. Che si sia verificato l’esatto contrario è ormai evidente. In realtà la speculazione finanziaria globale ha comportato il collasso di interi settori produttivi e ha avuto la funzione, mediante la creazione di un indebitamento generalizzato ( e globale!) di creare una enorme liquidità virtuale che ha drogato l’economia produttiva (vedi la diffusione del prestito al consumo), al fine mantenere livelli di consumo troppo elevati rispetto alle capacità di crescita della produzione. Al di là delle utopie marxiste smentite dalla storia del ‘900, il capitalismo oggi non potrebbe aver generato al suo interno quella crisi sistemica già annunciata da circa 150 anni, secondo cui esso non è più in grado di riprodurre nuove forse produttive? Il progressivo calo della produzione e dei consumi, la concentrazione nelle mani dell’oligopolio delle multinazionali di settori strategici dell’economia, con conseguente scomparsa della concorrenza e l’instaurazione di regimi di prezzi imposti, non sono fattori che potrebbero determinare una serie di collassi produttivi causati dalla conseguente rarefazione monetaria dal decremento vorticoso dei redditi e del potere d’acquisto delle popolazioni? Sembrano ripresentarsi i sintomi che hanno condotto alla implosione economica, prima che politica, dei paesi del socialismo reale. Dunque: anche il capitalismo potrebbe essere soggetto alla stessa sindrome dissolutiva. Sembra una improbabile futurologia, ma i presupposti ci sono tutti.

La descrizione che fai dei caratteri strutturali essenziali dell’attuale crisi economica internazionale derivata dalla globalizzazione del modello neoliberale della “società di mercato integrale”(SMI), da non confondere con la semplice e vecchia economia capitalistica di mercato della precedente epoca dello stato nazionale sovrano sulla moneta e sulla politica estera, mi sembra non solo corretta nell’essenziale, ma anche abbastanza esauriente e convincente. Sarebbe allora superfluo commentarla, essendo già esaustiva, ed è allora meglio discutere un punto solo: si tratta di una crisi di sistema o nel sistema? Nella mia concezione di riproduzione strutturale del capitalismo, non esistono crisi di sistema, ma soltanto ed esclusivamente crisi nel sistema, fino a quando forze storiche rivoluzionarie, che non si possono però costituire sul piano puramente economico (che è utilitarisco ed esclusivamente redistributivo per sua propria essenza insuperabile), ma devono costituirsi anche e soprattutto su di un piano culturale globale (culturale, non culturalistico o peggio intellettualistico), siano in grado di mettersi in movimento. Ed oggi queste forze ancora non si vedono.Viviamo ancora in mezzo alla fase dissolutiva delle vecchie forze del periodo precedente (destra e sinistra, comunismo ed anticomunismo, fascismo ed antifascismo laicismo e religione, eccetera). A suo tempo Marx ritenne che il capitalismo sarebbe caduto per una crisi di sistema, dovuta alla sua incapacità di sviluppare le forze produttive (con una analogia storica rivelatasi errata con le precedenti società precapitalistiche, schiavistiche e feudali) e che si sarebbe manifestata attraverso crisi ricorrenti di sovrapproduzione e di sottoconsumo permanenti. Ma l’esperienza storica dell’ultimo secolo ha dimostrato che il capitalismo si nutre di queste crisi di “dimagrimento”, e che è in grado di espellere le proprie tossine, anche se lo fa approfondendo la distruzione ecologica dell’ambiente e l’istupidimento e la manipolazione delle nuove plebi postmoderne di tipo ormai postborghese e postproletario.Vorrei ovviamente che fosse diversamente, e che il capitalismo stesse entrando in una crisi di sistema. Ma dopo decenni di economicismo crollistico “marxista”, da me sinceramente praticato e creduto, non ci credo oramai più, anche se questo, anziché indebolire il mio anticapitalismo, lo ha semmai invece rafforzato.


2) Il nuovo libro di Giulio Tremonti “La paura e la speranza” pone seri interrogativi circa l’attuale crisi del capitalismo. L’autore denomina l’ideologia del liberismo globale contemporaneo come “mercatismo”. Egli afferma: “Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comunismo sia del liberalismo. Sostituiti entrambi da un’ideologia nuova: il mercatismo, l’ultima follia ideologica del Novecento. Il liberalismo si basava su un principio di libertà applicato al mercato. Il comunismo su di una legge di sviluppo applicata alla società. Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al mercato una legge di sviluppo lineare e globale”. L’assolutizzazione del mercato avrebbe prodotto l’omologazione dell’uomo alla doppia funzione di produttore e consumatore. Il mercatismo “postula e fabbrica prima un nuovo tipo di , e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l’. Fonde insieme consumismo e comunismo. E così sintetizza un nuovo tipo di materialismo storico: , , ”. Tale nuovo materialismo storico, di carattere totalitario, sarebbe scaturito dalla doppia sconfitta del liberalismo e del comunismo. Il liberalismo, che secondo Tremonti, “non poggia su una legge assoluta, ma da un lato sul principio di libertà applicato al mercato, dall’altro lato su un apparato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa… Niente ricorda la complessa dinamica propria del vecchio liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio meccanico”. Che la genesi del pensiero liberale risieda in un principio di libertà applicato alla economia, appare un principio assai contraddittorio. In tal caso, sarebbe pensabile un liberalismo che, in nome della libertà rifiuti il mercato applicando i suoi principi a differenti modelli socioeconomici? Proprio in quanto esso postula una originaria libertà dell’individuo, indipendentemente dalle strutture sociali in cui esso vive e non esistono fedi e/o ideali presupposti all’individuo stesso, quest’ultimo è contraddistinto dal suo agire materiale esclusivamente volto alla propria autoconsevazione economica. Non è quindi il principio economico a definire la libertà, i diritti individuali e le istituzioni politiche? Mi sembra inoltre assai dubbio che la società liberale, all’opposto di quella comunista, non abbia a proprio fondamento una “legge”. Non si spiegherebbe infatti l’idea del progresso se non come una legge evolutiva dell’uomo e della società imposta proprio dalla ideologia liberale. Forse che per creare evoluzione e progresso il liberalismo non ha bisogno di uno stato e di istituzioni che impongano una politica, una legge, una cultura, un modello economico che guidino la società verso gli obiettivi stabiliti, nel contempo emarginando e reprimendo altre i dee e culture ad esso estranee? Inoltre il liberalismo attuale non ha forse le sue radici nelle leggi economiche oggi assurte a “presupposti metafisici” cui deve uniformarsi il mondo globalizzato? Infine, ci si chiede come il liberalismo che porta nel suo DNA l’idea del progresso cosmopolita e universale e l’espansione del proprio sistema economico e politico possa essere suscettibile di limitazioni o correzioni che ne possano impedire la propria degenerazione nel mercatismo.

La sostituzione di Padoa Schioppa con Giulio Tremonti, esito delle recenti elezioni politiche dell’aprile 2008, è ovviamente un fatto benefico per la nazione italiana, perché vede un critico moderato (ed a mio avviso purtroppo ancora inconseguente, ma è questo che passa il convento per ora) del mercatismo neoliberista della globalizzazione, che è il nemico principale oggi degli individui, delle classi oppresse, dei popoli, delle nazioni e del diritto internazionale fra stati (teologia interventistica dei diritti umani, dittatura del politicamente corretto, clero intellettuale degenerato di tipo mediatico-universitario, eccetera), sostituire un fantoccio oligarchico delle agenzie USA di rating ed un rappresentante del binomio che correttamente La Grassa chiama GF/ID (grande finanza e industria decotta).

Sono anche da apprezzare le aperture di Tremonti verso il comunitarismo. E tuttavia l’inserimento di Tremonti nel blocco politico a guida berlusconiana trasforma il comunitarismo di Tremonti in comunitarismo puramente verbale, virtuale ed ineffettuale. Nessuna ingegneria genetica potrà far funzionare un clone alla Frankenstein in cui un cuore comunitario (Tremonti) coesista con un cervello neoliberale e mercatista (Berlusconi). Vi sono infatti due vincoli strutturali esterni che impediscono ogni possibile comunitarismo in Europa. In primo luogo, la Banca Centrale Europea e le bande ultraliberali del funzionariato di Bruxelles, vere e proprie stalle di Augia che bisognerebbe distruggere dalle fondamenta, cosa purtroppo impossibile, perché un nuovo 1789 è ancora lontano. In secondo luogo, le basi militari USA in territorio europeo, guidate spiritualmente dal clero sionista, che per “comunità” intendono l’occidentalismo imperiale euro-americano in crociata contro l’islam e gli “stati canaglia” indicati dal Dipartimento di Stato USA. È questo il “comunitarismo” di Bondi e di Pera, cui è del tutto subalterno il comunitarismo localistico di Bossi, che ha come tallone d’Achille non tanto il cosiddetto “razzismo” (il solo razzismo che conosco in Italia è lo snobismo con la puzza sotto al naso alla Nanni Moretti), quanto proprio la subalternità provincialistica alla strategia di guerra di civiltà USA con consulenza sacerdotale sionista (chiusura di moschee, eccetera). Detto questo, in un mondo di analfabeti Tremonti resta un intellettuale di valore. Ma rischia di essere, per così dire, l’Ingrao di Berlusconi. Come Ingrao chiacchierava, ma solo i cooperatori emiliani contavano nel PCI, nello stesso modo Tremonti può anche dire cose intelligenti, ma solo Bush e Berlusconi comandano.

3) La seconda parte del libro di Tremonti, dedicata alla speranza, prende le mosse dalla decadenza dell’Europa. La fine delle ideologie del ‘900, con tutte le tragedie che hanno prodotto, ha comportato anche il dissolversi della cultura, delle tradizioni, della memoria storica europea. L’Europa ha smarrito la sua identità e i suoi valori. Egli afferma: “Identità e valori sono due facce della stessa medaglia. L’identità è fatta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni . In una parola, nella prevalenza dei loro valori”. L’autore quindi contrappone all’economicismo della UE l’idea comunitaria, quale matrice della nostra originaria “differenza” che definisce l’identità, il “noi” necessario alla instaurazione della dialettica “noi-altri”. L’Europa accoglie l’altro senza essere sé stessa. L’Europa, già madre di tutte le rivoluzioni oggi sembra esangue ed esaurita: “Eppure serve un’altra rivoluzione per resistere all’incalzare, all’incombere di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia dell’Europa, non viene da dentro e non si fa dentro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella dalla globalizzazione”. L’Europa sembra essersi omologata alla cultura universalistica della “eguaglianza indifferenziata e di importazione libera, categorie queste progressivamente estese dalle persone alle merci. Diventa così automatica la tendenza ad accettare a scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perché viene da fuori”. Ma, a mio avviso, l’idea comunitaria è necessaria alla sussistenza di una identità nella misura in cui contraddice i presupposti ideologici e politici della globalizzazione. Quest’ultima è un fenomeno totalizzante che può affermarsi solo sulla dissoluzione delle comunità tradizionali. Nello stesso modo il liberalismo poté affermarsi con la scomparsa del mondo feudale premoderno. Nella dialettica “noi-altri”, occorre rilevare che l’identità europea non può essere rivendicata come un fenomeno nazionale-identitario, cioè facendo leva sui valori del sangue e della terra. Il pensiero fondamentale della cultura europea è necessariamente universalista, suscettibile di essere confrontato e condiviso con tutta l’umanità. Forse il suo attuale oscuramento è dovuto ad una morte (provvisoria) per asfissia, conseguente alla riduzione dell’Europa entro la propria area geografica, come provincia dell’occidente americanista. Affermare una identità europea tra le tante sparse nel mondo, sarebbe un non senso, per una impostazione filosofica elaborata su problematiche concepite come strutture portanti ed idonee a generare sintesi dai contenuti universali perché aperte ad ogni contributo esterno che può a sua volta universalizzarsi come parte integrante di un pensiero universale.

Constato con piacere che tu individui con precisione i due elementi deboli della versione comunitario-europea di Tremonti. Da un lato, oggi l’Europa è di fatto solo una provincia geografica dell’occidente americanista, e lo stesso Ratzinger, sul quale avevo anch’io ingenuamente “puntato” per la sua nobile critica filosofica al nichilismo ed al relativismo, è andato negli USA ad avallare “spiritualmente” l’abbietta visione del mondo dell’occidentalismo USA e della sua teologia nazista dei diritti umani (il termine è linguisticamente pesante, ma anche “pesato” prima di scriverlo). Certo, so bene che la sua agenda è stata scritta prima del viaggio sulla base del ricatto dei preti pedofili (peraltro realmente esistiti), ricatto ampiamente esagerato dai circoli fondamentalisti protestanti e sionisti che controllano i mezzi di comunicazione di massa negli USA, ma ciò che conta è il risultato, e cioè che Ratzinger è andato a benedire il Grande Terrorista (Bush) contro il Piccolo Terrorista (Bin Laden).

In secondo luogo, tu affermi che l’identità europea non può essere rivendicata come fenomeno geografico nazionale-identitario, ma deve essere ricostruita e difesa come un pensiero necessariamente universalista, da non imporre ma da proporre (appunto, non “imporre” ma “proporre”), confrontare e condividere con tutta l’umanità. Sono pienamente d’accordo con questo modo di impostare la questione, in cui non vedo nessuna arroganza eurocentrica e nessuna nostalgia colonialistica e imperialistica, ma una semplice sobria e moderata rivendicazione di dialogo universalistico. Non ho mai condiviso il relativismo comunitario alla Richard Rorty, neppure nelle versioni “comuniste” alla Gianni Vattimo, ma ho invece sempre appoggiato le impostazioni universalistiche alla Hegel-Marx, pur consapevole della necessità di attuare una profonda “riforma” della loro dialettica troppo spesso necessitaristica e teleologica (“riforma” intendo, non “controriforma”, come talvolta è avvenuto in Croce e Gentile). Chi segue la via del “particolarismo europeo”, magari con le migliori intenzioni soggettive, finirà con il confluire, volente o nolente, nell’occidentalismo a guida USA ed a sacrdozio levitico sionista (sia chiaro-non “ebraico”, ma sionista). Ci sta qui il più importante nodo filisofico-sociale e politico dei prossimi decenni. Tanto vale impostarlo fin da subito nei suoi tratti generali, come tu fai in modo concettualmente chiaro e felice.

4) Non si sa se la crisi del capitalismo globale possa determinare una implosione generalizzata di un modello economico dominante. Probabilmente no, dato che nessuna causa esterna può metterne in dubbio la prevalenza, né il capitalismo assoluto sembra in grado di riformarsi ed evolversi verso altre forme di sviluppo economico e sociale. La geopolitica pone limiti per ora invalicabili per trasformazioni epocali almeno a breve e medio termine: non è in discussione infatti il primato mondiale degli USA, pur se tra infinite contraddizioni, crisi, crepe evidenti. Non sembra peraltro che la globalizzazione possa determinare la fine degli stati, come più volte annunciato. Queste false profezie sono smentite dal ruolo predominante che gli stati assumono nelle crisi economiche nel mondo liberista. Negli USA è lo stato che scongiura crack finanziari ricoprendo il ruolo di debitore in ultima istanza, immette liquidità nel mercato, svaluta il dollaro per ridurre l’indebitamento estero, per rendere competitiva l’economia americana, ha una funzione propulsiva nell’economia attraverso le guerre con l’industria degli armamenti. La stessa svolta liberista della Cina è stata resa possibile, in quanto imposta da uno stato totalitario. Stato e liberismo non sembrano essere termini antitetici, ma complementari. Riscontriamo tuttavia una palese contraddizione: nelle fasi di espansione economica, il liberismo si afferma in nome dell’anti-stato, mentre nelle fasi recessive, il liberalismo sopravvive grazie all’intervento dello stato. Nella stessa Cina, l’economia liberista si sviluppa perché lo stato impone uno sviluppo senza freni, senza diritti sindacali, garanzie previdenziali e assistenziali. Dobbiamo dunque concludere che il modello liberista sussiste in quanto sostenuto e garantito dallo stato. Inoltre, rileviamo che le nuove potenze asiatiche, non potranno mai rappresentare una alternativa al modello capitalista, né insediare il primato economico e politico americano. Le economie del mondo globalizzato sono infatti reciprocamente complementari ed interdipendenti: se la Cina costituisce il maggior bacino produttivo del capitalismo, a causa dei bassi costi di produzione, è il mercato finanziario occidentale a rappresentare il necessario sbocco per il reinvestimento dei profitti, così come accade per i paesi produttori di petrolio. Il paventato, futuribile primato economico cinese, non inficerebbe la struttura del capitalismo globale. Solo la politica unitaria di stati portatori di modelli di sviluppo diversi e alternativi potrebbe far venire meno gli automatismi economici della globalizzazione.
by luigi Tedeschi

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