19 maggio 2008

Le morti che appassionano, ma non allarmano.


La gestione delle notizie di cronaca stanno degenerando in una spirale perversa. Piuttosto che parlare del perché succede, si preferisce girare intorno a particolari raccapriccianti, specialmente, nel modo del racconto. Quello che mi colpisce di più, è il viso del cronista-giornalista che cerca di dare la notizia, ma poi si lascia trasportare dall'onda emotiva del luogo.

La notizia non ha allarmato abbastanza. I «grandi giornali» la mettono a pagina 20 o giù di lì: prima, era necessario parlare del governo, dell’ICI, del «dialogo» maggioranza-opposizione. E’ l’assassinio di Lorena, 14 anni, strangolata, bruciata e gettata in un pozzo dai tre con cui faceva sesso: 15, 16 e 17 anni. Un fatto di cronaca e basta. Nessuna necessità di una riflessione angosciata. E’ «il branco», e questo spiega tutto.

Gli inviati a Niscemi danno i particolari peggiori come per forza, quasi non sapessero cosa farne, non capissero di cosa sono sintomi. Una ragazzina di paese - e in Sicilia - che a 14 anni fa abitualmente sesso con tre coetanei: già questo non pare mostruoso ai giornalisti. Semmai sono interdetti che una così bella liberazione sessuale precoce finisca in uno scempio del corpo della ragazzina: non è così che doveva andare, il sesso «senza repressione»è «felicità», come ripetono tutte le agenzie diseducative più potenti. E nei paesi, queste anti-scuole coprono tutto il campo, fanno tacere le voci della scuola e delle famiglie (se esistono), la TV e la pubblicità sono rimaste sole a «educare».

Nemmeno si chiedono, i giornali, se lei lo faceva volontariamente, se «le piaceva». O se, a 14 anni, non si sia in grado di dire cosa è la propria volontà: e si finisce per farsi piacere ciò che piace agli altri, anche se ripugna. Ma non si ha la personalità per sottrarsi, altrimenti sei «messa fuori».

La libertà così precoce - di tanti, quasi di tutti i nostri ragazzi - è assoggettamento psichico agli elementi peggiori della banda e ai peggiori istinti collettivi che il peggiore impone agli altri. E’ la nuova schiavitù, e colpisce tanti nostri figli. La «libertà» è una catena inaudita.

L’hanno ammazzata perchè era incinta e voleva dirlo, creava «problemi con le nostre fidanzate». Dunque il sesso libero può avere conseguenze, e le conseguenze implicano responabilità. Che nessuno vuole assumersi a 30 anni, figurarsi a 15-17, quando si è educati coralmente alla irresponsabilità. Per evitare una responsabilità, l’hanno ammazzata.

E’ sembrato più facile, più semplice che affrontare la realtà. Il diciassettenne ha mandato agli altri un SMS: «Dobbiamo ammazzarla». E far sparire il corpo: così facile, nei film e in TV. Nemmeno l’orrenda smentita, il laborioso armeggiare, bruciare, gettare nel pozzo con la pietra alla vita, li ha fatti tornare alla realtà. Sfuggivano a una responsabilità, ecco tutto. Il sesso ha da essere felice, senza problemi.

L’hanno attirata nel casolare. Alessandro, 15 anni, ha raccontato: «Hanno cominciato a spogliarla, cercava di fare resistenza. Abbiamo avuto un rapporto con lei». Punto. Il «un rapporto con lei», in tre, subito prima di strangolarla: il giornalista dice «rapporto», non stupro. E’ più asettico. Subito dopo il «rapporto», calci, pugni e strangolamento con un cavo elettrico.

«A me hanno ordinato di tapparle la bocca», dice Alessandro. Un pezzo di carne da usare. Purtroppo, grida. Tappagli la bocca; e il ragazzino esegue.

Il padre di Lorena: «Non ci aveva mai detto nulla sulla possibilità che fosse incinta». Come se le ragazzine e i ragazzini, oggi, dicessero qualcosa ai genitori. Specie quelle ragazzine. Ci sono dodicenni che vanno a fare le cubiste, in mutandine, in losche discoteche pomeridiane. Tredicenni che si fanno di coca con gli amichetti per notti intere. O che la danno nei WC delle suddette discoteche non si sa a chi. Sono cose che a quell’età si possono fare, ma non si possono dire. Non che ci sia paura di una punizione; è che quegli atti sono, letteralmente, indicibili.

Lo sarebbero per un adulto, figurarsi per bambinelle che dispongono di 300 parole imparate in TV. La cui povertà di linguaggio le rende inaccessibili non solo ai cosiddetti genitori, ma - soprattutto - a se stesse. Non riescono a spiegare a se stesse perchè lo fanno, nè ad analizzare cosa sta loro succedendo. Lo fanno perchè «lo fanno le altre», lo «vogliono» perchè lo vuole, collettivamente, il gruppo anonimo. Sono finite in un mondo oscuro in cui non esiste più la parola. Dove ogni domanda tace. Dove, dietro porte chiuse o casolari in rovina, si possono fare certe cose a certe ragazzine, appunto perchè - poi - non ci sono parole per dirlo.

E’ la definizione stessa dell’inferno: il luogo per eccellenza dove ogni parola tace, e non ci sono che «fatti» - ossia torture senza limite, senza misura di tempo e di atrocità. Ma qualcosa Lorena aveva «detto».

Risulta un suo disegno sul muro della classe: «Rappresenta una ragazza che finisce in un pozzo», scrive l’inviato de La Stampa. E sotto, la firma. «Lorena 1° B». Era già stata minacciata? Di quella morte? Il giornale non lo dice. Sembra che non importi molto a nessuno, sapere quanto è stata atroce la schiavitù di Lorena.

Il professore di religione. Sacerdote. Per di più, si chiama Rosario Di Dio. Ricorda di averla vista sola a piangere a scuola: «Se ne stava in un angolo da sola a piangere. Le chiesi cosa avesse, e lei non rispose. Sapevo che aveva dei problemi di cuore». Problemi di cuore... No, non è l’espressione giusta. Evoca i tremori di adolescenze che non esistono più. Problemi di assoggettamento, problemi di stupro a cui si aderisce a 14 anni «volontariamente», perchè lo fanno tutte.

Dice, l’insegnante, che «non era più la stessa dopo aver visto The Ring», un film horror. Dove c’è una ragazza che finisce in un pozzo. «Finirò così», diceva Lorena. Qualcosa riusciva a dire. Se solo qualcuno avesse saputo ascoltarla. Prenderla sul serio. Allarmarsi. Invece: eh, problemi di cuore.

Selvaggi col telefonino. Mostri che la maleducazione rende omicidi e piccolissime donne facili, abituate ad essere usate: li abbiamo creati noi, noi tutti nessuno escluso. Certi genitori cominciano ad allarmarsi. Qualcuno mi chiede: che cosa si può fare?

Guardate, non c’è niente da inventare: la pedagogia di un secolo fa, che imponeva la disciplina, certe gerarchie e autorità, imponeva sforzo nello studio, la decenza sessuale o la «repressione» sessuale nell’età in cui non ci si sa prendere responsabilità, aveva dei metodi accertati. Insegnava a leggere e insegnava le buone maniere, che si estendevano anche molto, interiormente, fino alla moralità e al rispetto di sè. Insegnava lo sforzo disciplinato, la ritenzione degli impulsi. Spaccava i «branchi giovanili», offrendo antagonismi nobili ed alti, divideva le classi in «achei» e «troiani».

Tutto ciò oggi è e sembra ingenuo, sorpassato, inapplicabile. La tv e la pubblicità occupano tutto il campo della pedagogia, i genitori stessi sono stati «educati» da questi anti-educatori collettivi. Proponete solo di instaurare di nuovo quei metodi, e tutti vi si avventeranno contro, urlando alla repressione, al bigottismo, all’oscurantismo. Giornalisti avanzati, pedagoghi progressisti, genitori di manica larga. E anche preti, magari. E’ questo il vero problema. Qualcosa da fare c’è, i metodi ci sono, ma la società intera si rifiuta di accettarli e di applicarli.

Per risanare questa gioventù che abbiamo condannato agli inferni della felicità sessuale precoce, occorrerebbe esercitare una coercizione estrema non solo su loro, ma sulla società tutta. Il che è impossibile. Il giusto atteggiamento - responsabile, severo perchè compassionevole - deve venire dall’interno della società, senza deviazioni individuali in nome di qualche «libertà». Ed è questo ad essere impossibile oggi.

Non c’è ingegneria sociale, nè alcuna «politica» che possa ricostruire lo stato di una società capace di educare e trasmettere ai giovani ciò che i vecchi, e gli antenati, hanno imparato spesso a loro spese. Nessuna ingegneria e nessuna politica possono ridare vita a qualcosa di organico, di vivente; possono solo punire, dopo.

Come si costituisce di nuovo un popolo? Anche qui, la risposta non è da inventare: da una fede comune nasce la comune decisione e responsabilità di allevare esseri civili e non selvaggi abbandonati agli impulsi e alle schiavitù - le più pesanti - dello stato selvaggio, soggetto alla «natura» e al branco primitivo.

Ma la fede comune è perduta, e non ce la possiamo dare per volontà. Nemmeno questa volontà esiste, del resto. Non ci possiamo dare un Dio. Possiamo solo perderlo e gettarlo via, e con Lui tutta la civiltà e le vite dei nostri figli. E’ Lui che deve venire a salvarci di nuovo. E ancora, occorre che Lo ascoltiamo dentro, ma anche la Sua voce è coperta dalle TV e dalla pubblicità, dai giornalismi progressisti e dai sociologismi permissivi, da ciò che resta dopo la fine delle ideologie, l’individualismo nichilista.

Questo tipo di residuo ideologico, pensiamoci, è ciò che ci porta alla inciviltà: già nel 600 avanti Cristo Buddha sapeva che ogni azione commessa, come ogni omissione, ha delle conseguenze, inevitabili, necessarie, anche lontane.

Tutta la nostra civiltà terminale proclama il contrario: sesso giovanile senza conseguenze, godimenti senza conseguenze, ingiustizie senza conseguenze. E’ ciò che intendiamo quando proclamiamo la nostra «libertà». Chiamiamo «liberazione» la nostra prerogativa di commettere qualunque azione, rifiutandone le conseguenze, o sperando di scongiurarle. Col preservativo, con l’aborto, con ogni tecnologia disponibile.

Alleviamo i figli, e poi non sappiamo dire come mai sono diventati mostri infelici. E’ solo una conseguenza. Così andiamo verso la crisi.

Non voglio essere pessimista. La fine di questo mondo, non sarà necessariamente la fine del mondo. Solo una crisi immensa, e meritata, può far sperare in un nuovo inizio: quello stato primordiale, il solo dove i confini tra il cielo e la terra sono aboliti, e Dio può tornare a parlare ai superstiti.

M. Blondet

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19 maggio 2008

Le morti che appassionano, ma non allarmano.


La gestione delle notizie di cronaca stanno degenerando in una spirale perversa. Piuttosto che parlare del perché succede, si preferisce girare intorno a particolari raccapriccianti, specialmente, nel modo del racconto. Quello che mi colpisce di più, è il viso del cronista-giornalista che cerca di dare la notizia, ma poi si lascia trasportare dall'onda emotiva del luogo.

La notizia non ha allarmato abbastanza. I «grandi giornali» la mettono a pagina 20 o giù di lì: prima, era necessario parlare del governo, dell’ICI, del «dialogo» maggioranza-opposizione. E’ l’assassinio di Lorena, 14 anni, strangolata, bruciata e gettata in un pozzo dai tre con cui faceva sesso: 15, 16 e 17 anni. Un fatto di cronaca e basta. Nessuna necessità di una riflessione angosciata. E’ «il branco», e questo spiega tutto.

Gli inviati a Niscemi danno i particolari peggiori come per forza, quasi non sapessero cosa farne, non capissero di cosa sono sintomi. Una ragazzina di paese - e in Sicilia - che a 14 anni fa abitualmente sesso con tre coetanei: già questo non pare mostruoso ai giornalisti. Semmai sono interdetti che una così bella liberazione sessuale precoce finisca in uno scempio del corpo della ragazzina: non è così che doveva andare, il sesso «senza repressione»è «felicità», come ripetono tutte le agenzie diseducative più potenti. E nei paesi, queste anti-scuole coprono tutto il campo, fanno tacere le voci della scuola e delle famiglie (se esistono), la TV e la pubblicità sono rimaste sole a «educare».

Nemmeno si chiedono, i giornali, se lei lo faceva volontariamente, se «le piaceva». O se, a 14 anni, non si sia in grado di dire cosa è la propria volontà: e si finisce per farsi piacere ciò che piace agli altri, anche se ripugna. Ma non si ha la personalità per sottrarsi, altrimenti sei «messa fuori».

La libertà così precoce - di tanti, quasi di tutti i nostri ragazzi - è assoggettamento psichico agli elementi peggiori della banda e ai peggiori istinti collettivi che il peggiore impone agli altri. E’ la nuova schiavitù, e colpisce tanti nostri figli. La «libertà» è una catena inaudita.

L’hanno ammazzata perchè era incinta e voleva dirlo, creava «problemi con le nostre fidanzate». Dunque il sesso libero può avere conseguenze, e le conseguenze implicano responabilità. Che nessuno vuole assumersi a 30 anni, figurarsi a 15-17, quando si è educati coralmente alla irresponsabilità. Per evitare una responsabilità, l’hanno ammazzata.

E’ sembrato più facile, più semplice che affrontare la realtà. Il diciassettenne ha mandato agli altri un SMS: «Dobbiamo ammazzarla». E far sparire il corpo: così facile, nei film e in TV. Nemmeno l’orrenda smentita, il laborioso armeggiare, bruciare, gettare nel pozzo con la pietra alla vita, li ha fatti tornare alla realtà. Sfuggivano a una responsabilità, ecco tutto. Il sesso ha da essere felice, senza problemi.

L’hanno attirata nel casolare. Alessandro, 15 anni, ha raccontato: «Hanno cominciato a spogliarla, cercava di fare resistenza. Abbiamo avuto un rapporto con lei». Punto. Il «un rapporto con lei», in tre, subito prima di strangolarla: il giornalista dice «rapporto», non stupro. E’ più asettico. Subito dopo il «rapporto», calci, pugni e strangolamento con un cavo elettrico.

«A me hanno ordinato di tapparle la bocca», dice Alessandro. Un pezzo di carne da usare. Purtroppo, grida. Tappagli la bocca; e il ragazzino esegue.

Il padre di Lorena: «Non ci aveva mai detto nulla sulla possibilità che fosse incinta». Come se le ragazzine e i ragazzini, oggi, dicessero qualcosa ai genitori. Specie quelle ragazzine. Ci sono dodicenni che vanno a fare le cubiste, in mutandine, in losche discoteche pomeridiane. Tredicenni che si fanno di coca con gli amichetti per notti intere. O che la danno nei WC delle suddette discoteche non si sa a chi. Sono cose che a quell’età si possono fare, ma non si possono dire. Non che ci sia paura di una punizione; è che quegli atti sono, letteralmente, indicibili.

Lo sarebbero per un adulto, figurarsi per bambinelle che dispongono di 300 parole imparate in TV. La cui povertà di linguaggio le rende inaccessibili non solo ai cosiddetti genitori, ma - soprattutto - a se stesse. Non riescono a spiegare a se stesse perchè lo fanno, nè ad analizzare cosa sta loro succedendo. Lo fanno perchè «lo fanno le altre», lo «vogliono» perchè lo vuole, collettivamente, il gruppo anonimo. Sono finite in un mondo oscuro in cui non esiste più la parola. Dove ogni domanda tace. Dove, dietro porte chiuse o casolari in rovina, si possono fare certe cose a certe ragazzine, appunto perchè - poi - non ci sono parole per dirlo.

E’ la definizione stessa dell’inferno: il luogo per eccellenza dove ogni parola tace, e non ci sono che «fatti» - ossia torture senza limite, senza misura di tempo e di atrocità. Ma qualcosa Lorena aveva «detto».

Risulta un suo disegno sul muro della classe: «Rappresenta una ragazza che finisce in un pozzo», scrive l’inviato de La Stampa. E sotto, la firma. «Lorena 1° B». Era già stata minacciata? Di quella morte? Il giornale non lo dice. Sembra che non importi molto a nessuno, sapere quanto è stata atroce la schiavitù di Lorena.

Il professore di religione. Sacerdote. Per di più, si chiama Rosario Di Dio. Ricorda di averla vista sola a piangere a scuola: «Se ne stava in un angolo da sola a piangere. Le chiesi cosa avesse, e lei non rispose. Sapevo che aveva dei problemi di cuore». Problemi di cuore... No, non è l’espressione giusta. Evoca i tremori di adolescenze che non esistono più. Problemi di assoggettamento, problemi di stupro a cui si aderisce a 14 anni «volontariamente», perchè lo fanno tutte.

Dice, l’insegnante, che «non era più la stessa dopo aver visto The Ring», un film horror. Dove c’è una ragazza che finisce in un pozzo. «Finirò così», diceva Lorena. Qualcosa riusciva a dire. Se solo qualcuno avesse saputo ascoltarla. Prenderla sul serio. Allarmarsi. Invece: eh, problemi di cuore.

Selvaggi col telefonino. Mostri che la maleducazione rende omicidi e piccolissime donne facili, abituate ad essere usate: li abbiamo creati noi, noi tutti nessuno escluso. Certi genitori cominciano ad allarmarsi. Qualcuno mi chiede: che cosa si può fare?

Guardate, non c’è niente da inventare: la pedagogia di un secolo fa, che imponeva la disciplina, certe gerarchie e autorità, imponeva sforzo nello studio, la decenza sessuale o la «repressione» sessuale nell’età in cui non ci si sa prendere responsabilità, aveva dei metodi accertati. Insegnava a leggere e insegnava le buone maniere, che si estendevano anche molto, interiormente, fino alla moralità e al rispetto di sè. Insegnava lo sforzo disciplinato, la ritenzione degli impulsi. Spaccava i «branchi giovanili», offrendo antagonismi nobili ed alti, divideva le classi in «achei» e «troiani».

Tutto ciò oggi è e sembra ingenuo, sorpassato, inapplicabile. La tv e la pubblicità occupano tutto il campo della pedagogia, i genitori stessi sono stati «educati» da questi anti-educatori collettivi. Proponete solo di instaurare di nuovo quei metodi, e tutti vi si avventeranno contro, urlando alla repressione, al bigottismo, all’oscurantismo. Giornalisti avanzati, pedagoghi progressisti, genitori di manica larga. E anche preti, magari. E’ questo il vero problema. Qualcosa da fare c’è, i metodi ci sono, ma la società intera si rifiuta di accettarli e di applicarli.

Per risanare questa gioventù che abbiamo condannato agli inferni della felicità sessuale precoce, occorrerebbe esercitare una coercizione estrema non solo su loro, ma sulla società tutta. Il che è impossibile. Il giusto atteggiamento - responsabile, severo perchè compassionevole - deve venire dall’interno della società, senza deviazioni individuali in nome di qualche «libertà». Ed è questo ad essere impossibile oggi.

Non c’è ingegneria sociale, nè alcuna «politica» che possa ricostruire lo stato di una società capace di educare e trasmettere ai giovani ciò che i vecchi, e gli antenati, hanno imparato spesso a loro spese. Nessuna ingegneria e nessuna politica possono ridare vita a qualcosa di organico, di vivente; possono solo punire, dopo.

Come si costituisce di nuovo un popolo? Anche qui, la risposta non è da inventare: da una fede comune nasce la comune decisione e responsabilità di allevare esseri civili e non selvaggi abbandonati agli impulsi e alle schiavitù - le più pesanti - dello stato selvaggio, soggetto alla «natura» e al branco primitivo.

Ma la fede comune è perduta, e non ce la possiamo dare per volontà. Nemmeno questa volontà esiste, del resto. Non ci possiamo dare un Dio. Possiamo solo perderlo e gettarlo via, e con Lui tutta la civiltà e le vite dei nostri figli. E’ Lui che deve venire a salvarci di nuovo. E ancora, occorre che Lo ascoltiamo dentro, ma anche la Sua voce è coperta dalle TV e dalla pubblicità, dai giornalismi progressisti e dai sociologismi permissivi, da ciò che resta dopo la fine delle ideologie, l’individualismo nichilista.

Questo tipo di residuo ideologico, pensiamoci, è ciò che ci porta alla inciviltà: già nel 600 avanti Cristo Buddha sapeva che ogni azione commessa, come ogni omissione, ha delle conseguenze, inevitabili, necessarie, anche lontane.

Tutta la nostra civiltà terminale proclama il contrario: sesso giovanile senza conseguenze, godimenti senza conseguenze, ingiustizie senza conseguenze. E’ ciò che intendiamo quando proclamiamo la nostra «libertà». Chiamiamo «liberazione» la nostra prerogativa di commettere qualunque azione, rifiutandone le conseguenze, o sperando di scongiurarle. Col preservativo, con l’aborto, con ogni tecnologia disponibile.

Alleviamo i figli, e poi non sappiamo dire come mai sono diventati mostri infelici. E’ solo una conseguenza. Così andiamo verso la crisi.

Non voglio essere pessimista. La fine di questo mondo, non sarà necessariamente la fine del mondo. Solo una crisi immensa, e meritata, può far sperare in un nuovo inizio: quello stato primordiale, il solo dove i confini tra il cielo e la terra sono aboliti, e Dio può tornare a parlare ai superstiti.

M. Blondet

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