23 maggio 2008

Il gioco del Calcio e il criterio della doppia verità



Il campionato di Serie A si è concluso domenica scorsa. E così, a distanza di qualche giorno, in un clima più disteso (si far per dire), proponiamo ai lettori qualche breve riflessione sul gioco del calcio in Italia.
Di solito si ritiene che lo sport riverberi i pregi e i difetti della società dove lo si pratica. Se un secolo fa, affari e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate. Oggi, di fatto, procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta, segnata dal più stretto rapporto tra affari e calcio, risale agli anni Ottanta-Novanta, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse molte società calcistiche a spiccare il grande salto, trasformandosi in società per azioni. Di lì provengono le lucrose sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il titolo in Borsa. Ma anche gli scandali: ultimo (?) quello legato alla nota vicenda Moggi.
Questa “ privatizzazione”, che ha visto imprenditori e finanzieri, da Berlusconi a Cragnotti, legare il proprio nome a società calcistiche, come è stata presa dai tifosi? E soprattutto quali sono le loro reazioni davanti ai frequenti scandali.
Innanzitutto, va ricordato un dato sociologico “duro”: l’80% degli italiani ritiene il campionato di calcio poco credibile, perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 %, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante ciò, come si è già anticipato, il 50% continua a dichiararsi tifoso di una squadra (*).
Facciamo il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi, anche economicamente parlando, sul quale l’apparato economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a “soffrire-gioire” per la propria squadra, almeno tre non nutrono alcuna stima verso il mondo del calcio. Il che vuol dire che sono inclini “tipologicamente” a ritenere vera la tesi ricorrente del complotto occulto contro squadra amata.
E qui il discorso si farebbe interessante sotto l’aspetto sociologico, ma purtroppo mancano dati precisi. Perché il tifoso “disincantato”, quello che vede complotti ovunque ma continua a tifare, applica il criterio della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o comunque legati alle cosiddette “epoche d’oro”. Ad esempio Cagnotti, rimasto invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia. E il discorso potrebbe valere anche per altre società calcistiche.
Il tifoso disincantato, che spesso è anche giustizialista (difficile però stabilire se lo sia pure sul piano politico generale…), di solito difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo scudetto alla squadra del cuore. Applica una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che “ruba” e basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre l’imprenditore che “ruba”, ma porta la squadra per cui si tifa in “Champion League” viene difeso a spada tratta.
Ecco, probabilmente, il criterio delle doppia verità riflette certe caratteristiche della società italiana. Ai tempi di Tangentopoli, molti commentatori, applicando lo stesso criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse “rubato”, non per se stesso ma per il partito. E’ una forma di “comunitarismo amorale”, tipicamente italiano, o comunque di società dove l’individuo si identifica immediatamente nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile.
E che c’è di più campanilistico del tifo per una squadra di calcio? Meditate gente, meditate…
di Carlo Gambescia

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23 maggio 2008

Il gioco del Calcio e il criterio della doppia verità



Il campionato di Serie A si è concluso domenica scorsa. E così, a distanza di qualche giorno, in un clima più disteso (si far per dire), proponiamo ai lettori qualche breve riflessione sul gioco del calcio in Italia.
Di solito si ritiene che lo sport riverberi i pregi e i difetti della società dove lo si pratica. Se un secolo fa, affari e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate. Oggi, di fatto, procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta, segnata dal più stretto rapporto tra affari e calcio, risale agli anni Ottanta-Novanta, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse molte società calcistiche a spiccare il grande salto, trasformandosi in società per azioni. Di lì provengono le lucrose sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il titolo in Borsa. Ma anche gli scandali: ultimo (?) quello legato alla nota vicenda Moggi.
Questa “ privatizzazione”, che ha visto imprenditori e finanzieri, da Berlusconi a Cragnotti, legare il proprio nome a società calcistiche, come è stata presa dai tifosi? E soprattutto quali sono le loro reazioni davanti ai frequenti scandali.
Innanzitutto, va ricordato un dato sociologico “duro”: l’80% degli italiani ritiene il campionato di calcio poco credibile, perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 %, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante ciò, come si è già anticipato, il 50% continua a dichiararsi tifoso di una squadra (*).
Facciamo il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi, anche economicamente parlando, sul quale l’apparato economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a “soffrire-gioire” per la propria squadra, almeno tre non nutrono alcuna stima verso il mondo del calcio. Il che vuol dire che sono inclini “tipologicamente” a ritenere vera la tesi ricorrente del complotto occulto contro squadra amata.
E qui il discorso si farebbe interessante sotto l’aspetto sociologico, ma purtroppo mancano dati precisi. Perché il tifoso “disincantato”, quello che vede complotti ovunque ma continua a tifare, applica il criterio della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o comunque legati alle cosiddette “epoche d’oro”. Ad esempio Cagnotti, rimasto invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia. E il discorso potrebbe valere anche per altre società calcistiche.
Il tifoso disincantato, che spesso è anche giustizialista (difficile però stabilire se lo sia pure sul piano politico generale…), di solito difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo scudetto alla squadra del cuore. Applica una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che “ruba” e basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre l’imprenditore che “ruba”, ma porta la squadra per cui si tifa in “Champion League” viene difeso a spada tratta.
Ecco, probabilmente, il criterio delle doppia verità riflette certe caratteristiche della società italiana. Ai tempi di Tangentopoli, molti commentatori, applicando lo stesso criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse “rubato”, non per se stesso ma per il partito. E’ una forma di “comunitarismo amorale”, tipicamente italiano, o comunque di società dove l’individuo si identifica immediatamente nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile.
E che c’è di più campanilistico del tifo per una squadra di calcio? Meditate gente, meditate…
di Carlo Gambescia

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